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E il rito varca il confine tra visibile e invisibile

di Montefoschi Giorgio - 14/10/2010



G li uomini remoti che in un' epoca molto antica, circa tremila anni fa, abitarono nel nord dell' India, ignoravano la storia e nei confronti del potere non avevano alcun interesse. Il loro unico scopo, nella vita terrena, era quello di raggiungere il divino: di congiungersi, qui, con il divino. Infatti, non lasciarono templi o fortificazioni o palazzi: i segni illusori ed effimeri di una impossibile permanenza del tempo. Lasciarono solo parole, un monumento grandioso di parole: il Veda (il cui significato è sapere, conoscenza), composto di inni e prescrizioni liturgiche. «Né l' Egitto, né la Mesopotamia, né la Cina, né tanto meno la Grecia possono offrire qualcosa di neppure lontanamente paragonabile al corpus vedico», scrive Roberto Calasso all' inizio de L' ardore: il libro davvero straordinario, appassionante e assillante, che questo edificio ricostruisce ed esplora. Il Divino, l' Uno, il Pieno, il Tutto, il Brahman, l' Indefinito dal quale era nato il mondo, era in gran parte nascosto e inconoscibile. Come era possibile raggiungerlo? Attraverso la parola, il sacrificio e, sostanzialmente, l' ardore. Diventando ardore: lo stesso ardore che, traboccando da se stesso, aveva creato la realtà manifesta e gli dèi. Se l' ardore era l' unica potenza che poteva «sciogliere la fissità tenebrosa dell' origine», l' uomo vedico doveva destarsi da questa tenebra, dal groviglio di non essere, tenebra e morte che stringe ogni vita allo stato bruto, e diventare ardore. Per farlo, occorreva certamente un aiuto. E per avere questo aiuto, occorreva un rito. Il sacrificio - questo viaggio dal visibile all' invisibile - è al centro del libro di Roberto Calasso. Le sue origini, ancorché spiegabili col momento in cui l' uomo da predato divenne predatore, rimangono conficcate nel mistero dei primordi. Se il sacrificio è offerta di qualcosa e debito, questo debito e questa offerta sono rivolti all' ignoto. Ma per quale motivo, perché l' uomo è in debito con l' ignoto che vuole raggiungere? «Che cosa obiettare - scrive Calasso - a qualcuno che si sente in debito verso l' ignoto e al tempo stesso vuole offrirgli un dono? Al più, che si tratta di un comportamento dissennato. Ma un sentimento non si lascia confutare. E prima di diventare una liturgia e una metafisica, la visione sacrificale fu un sentimento. Quel sentimento sta al fondo di tutto». Questo sentimento è forse il sentimento della perdita, del distacco dal Tutto? Può essere, non lo sappiamo. E la violenza? Perché si uccide nel sacrificio? Di nuovo torniamo ai primordi: a quello iato, quella «discrepanza fra il visibile e l' invisibile che nulla avrebbe potuto saldare. Fra i due estremi c' era una cavità, una ferita aperta. Che poteva essere - provvisoriamente - sanata solo a patto di riaffermarla nell' azione del sacrificio». Compito del sacrificante e del sacerdote, dunque, era quello di ripetere, con le parole e con i gesti, un evento primordiale: un viaggio immobile, non riducibile alle categorie del pensiero, il cui presupposto era nell' analogia e nell' imitazione; nella fondamentale convinzione secondo la quale ogni gesto rituale era un gesto che riusciva a risolvere quello che non riusciva a risolvere il pensiero. Da cui, l' inevitabile purezza del bramano, l' inevitabile purezza del luogo del sacrificio (un luogo qualunque nella terra), il mormorio continuo delle parole volte a sopraffare il discontinuo, la disposizione rigorosa dei fuochi, l' impilamento dei mattoni dell' altare. E tutto il resto. Il Veda - viene detto con una efficace definizione - è costituito da una furia classificatoria e dal riconoscere l' immensità che tutto travolge. È quello. E molte altre domande, beninteso, che riguardano il Dopo e la Morte. Domande che le certezze della ragione e l' opaca pigrizia in cui vive l' uomo occidentale contemporaneo cancellano o eludono. L' ardore, questo libro che viene da così lontano, le ripropone con forza in una luce incandescente. Il merito principale di Calasso (il suo segreto) è quello di averlo scritto con ardore.