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Se viviamo in un deserto è perché siamo diventati analfabeti dei nostri sentimenti

di Francesco Lamendola - 18/10/2010


Se viviamo in un paesaggio affettivo sempre più arido e desertificato, la responsabilità principale non ricade sui ritmi frenetici, sul produttivismo esasperato, sulla tecnologia o, magari, sulla società “tout-court”, insomma su qualcuno o qualcosa fuori di noi; ma proprio nel sempre più grave analfabetismo che ci affigge riguardo ai nostri stessi sentimenti.

Non è che non proviamo più niente; è che non sappiamo riconoscere quel che proviamo; o, peggio ancora, che non siamo all’altezza di un tale riconoscimento, per cui preferiamo rituffarci nella beata (ma ormai ipocrita) ignoranza di prima, facendo finta che non sia successo nulla.

Il professor Aschenbach de «La morte a Venezia» un merito ce l’aveva: quello di aver saputo guardare ben in faccia ciò che si agitava nel profondo del suo animo, proprio lui, lo studioso intemerato dalla vita esemplare, austera e rigorosa; e di non essersi nascosto dietro fronzoli e veli più o meno raffazzonati, ma di aver avuto l’onestà intellettuale e la coerenza interiore di sostenere lo spettacolo di se stesso, una volta messo interamente a nudo il proprio animo.

Ciò non significa che noi dobbiamo assecondare ogni nostro impulso, ogni nostro capriccio; ma, se ci accade di scoprire la nostra parte più vera e più profonda, che giaceva da chissà quanto abbandonata in una buia cantina polverosa, sarebbe un atto di coraggio, da parte nostra, fare i conti con essa e concederle, quanto meno, quella forma di rispetto che è il riconoscimento.

Se si vuole, è come incontrare un vecchio amante o una vecchia amante per la strada, a distanza di molti anni, quando le circostanze della nostra vita sono totalmente cambiate rispetto a quelle in cui si consumò quella storia lontana, che - forse - fu breve ma intensa: le persone da poco girano altrove lo sguardo e, magari, cambiano marciapiede; le persone oneste con se stesse, che hanno saputo fare i conti con il proprio passato e con le proprie emozioni, vanno verso quell’incontro con lieto volto e si trattengono almeno qualche minuto, come si farebbe con un amico.

Questo è il minimo che si debba a qualcuno che ci ha voluto bene in un tempo lontano; ma, soprattutto, è il minimo che si debba a se stessi, se si vuol continuare a guardarsi francamente nello specchio, senza aver voglia di distogliere altrove lo sguardo. Esiste una lealtà verso noi stessi che non viene dopo, ma semmai prima, di quella che dobbiamo a chiunque altro. E chi non è capace di riconoscere ciò che è stato o ciò che ha fatto ieri, non merita di essere amico di se stesso e non merita neppure alcun regalo che la vita possa fargli nel presente.

Quanta vigliaccheria, invece, accompagna così spesso il nostro analfabetismo sentimentale: vigliaccheria e analfabetismo, una mescolanza micidiale. Non c’è da meravigliarsi se le nostre vite sono, così spesso, spaventosamente aride e desolate; se sono così disperatamente fredde e prive di conforto, di luce e di calore.

Per meritarsi una vita piena e soddisfacente, bisogna essere capaci di guardarsi dentro senza finzioni, nel presente così come nel passato. È troppo comodo dire a se stessi: «Quello non sono io; quello non ero io!». È vero invece che, probabilmente, noi non siamo all’altezza dei nostri momenti migliori: quelli in cui gettiamo, per una volta, la maschera e ci lasciamo vedere da un altro essere umano per ciò che siamo nel profondo, liberamente e appassionatamente.

C’è una scrittrice inglese di romanzi rosa di ben scarso valore letterario, Shirley Conran, classe 1932, la quale tuttavia ha saputo descrivere efficacemente questa incapacità, da parte di molti, di essere all’altezza dei propri sentimenti. La pagina a cui ci riferiamo è contenuta nel romanzo «Selvagge».

In essa l’Autrice descrive la passione che divampa improvvisa fra due giovani donne, rimaste isolate su una costa africana inospitale; ed il repentino pentimento di una di esse, che nel volgere di poche ore arriva fino al disgusto e al rifiuto totale dell’altra, evidentemente nell’illusione di “riscattare” se stessa ai propri occhi  (titolo originale: «Savages», 1987; traduzione italiana di Roberta Rambelli, Milano, Mondadori, 1988, pp. 340-44):

 

«Sulla sabbia calda, Suzy rabbrividì. Esitò un momento, poi si girò sul dorso. Il viso abbronzato era lucido, i grandi occhi bruni brillavano d’una luce febbrile. Le labbra si schiusero come per dire qualcosa, tremarono ma tacquero. Il silenzio, tuttavia, era carico di elettricità. Inginocchiata nuda vicino a Suzy, Patty percepì all’improvviso il pericolo. Se avesse toccato ancora quella pelle di raso, sapeva che sarebbe accaduto qualcosa d catastrofico. Guardò i luminosi occhi castani di Suzy, e la certezza di ciò che stavano per fare le ipnotizzò entrambe.

Lentamente si mossero l’una verso l’altra nello stesso momento.

Le braccia di Suzy cinsero la schiena snella di Patty, cercarono per un momento un rifugio dai terrori del resto del mondo, il conforto sensuale che un bambino cerca nel cuore della madre.

Con un dito tremante, Patty seguì la linea serica delle sopracciglia di Suzy. Poi Suzy la strinse con entrambe le braccia, l’attirò a sé. Con il cuore che martellava e il corpo tremante, lentamente, conscia di ogni respiro,l Patty si curvò verso la creatura infantile che giaceva sotto di lei sulla sabbia. All’improvviso i loro corpi si toccarono. Le mani di Suzy passarono sui contorni netti delle scapole di Patty, poi salirono verso i morbidi capelli biondi come il grano.»

 

Seguono alcune esplicite scene di sesso che però non riportiamo, sia perché esulano dal nostro discorso, sia perché in esse emerge l’aspetto deteriore della scrittura di questa Autrice, che non sa mai rinunciare agli effetti di facile presa su un pubblico di bocca buona, in nome di una morale emancipata che è solo, come disse un critico musicale a proposito delle canzoni di Lucio Battisti, un mediocre surrogato di comportamenti realmente emancipati.

Ed ecco come Patty, che non sa essere all’altezza di quella parte di sé che le si è rivelata in un dolce abbandono sulla spiaggia, fra le braccia dell’amica, reagisce a quanto è accaduto: un po’ come farebbe un maschio egoista e frettoloso, dopo aver premuto tutto il piacere da un fuggevole incontro con una donna, per poi subito sdegnarla e voltarle le spalle:

 

«Patty era sbalordita: quello che avevano fatto sembrava così naturale. Per un momento si chiese se ogni donna era completamente eterosessuale, oppure aveva semplicemente il terrore di violare il tabù che vietava di toccare de i amare altre dello stesso sesso.

Sottovoce, Patty mormorò: “Non l’avevo mai fatto”.

“Neppure io”, sussurrò Suzy. “Nn è… facile?”.

Non c’era stata una seduttrice e una sedotta, non era stato un rispecchiarsi del rapporto tra maschio e femmina: c’era stata solo una reciproca tenerezza che era diventata passione. Non c’erano stati preliminari perché tutto era un preliminare: quello di cui ha bisogno una donna per raggiungere il piacere. I pensieri turbinavano nella mente di Patty. Era sorpresa di aver trovato tanta naturalezza in quella sensualità: non c’erano tensioni, né ansie, né minacce.

E soprattutto, grazie alla conoscenza intima e personale che ognuna aveva dell’anatomia femminile, le loro sensazioni inespresse erano state dolcemente riconosciute e condivise…

Patty giaceva sul dorso in uno stordimento sensuale e semicosciente. Suzy s’inginocchiò e giocò con i suoi piedi. Separava ogni dito, lo liberava dalla sabbia, lo succhiava come un leccalecca. La massaggiava delicatamente con l’arco del piede e poi, con un movimento lento, faceva scorrere sulla pianta l’unghia del pollice.

Mentre Patty gridava di piacere, entrambe sentirono Silvana che gridava dalla cascata: “Dov’è il pesce? Sta per piovere da un momento all’altro!”.

“Stavamo riposando”, rispose Patty. E lanciò un’occhiata a Suzy.

Suzy chinò la testa e sussurrò: “Domani”.

Controvoglia, si alzarono e si diressero verso il sentiero. Mentre saliva dietro Silvana, Suzy si sentiva amata e piena di speranza. Per quella breve mezz’ora aveva dimenticato la paura. E poiché era un’idea tanto seducente, a ogni passo si sentiva un po’ più innamorata di Patty.»

Dietro di lei, Patty tremava e cercava di giustificare quanto era appena accaduto. Continuò a rispondere alla voce in fondo alla sua mente. Non è tanto terribile. Cosa pensi che succeda nei campi dei prigionieri di guerra? Credi che quegli uomini giovani, sani, annoiati e infelici possano tenere a freno la sessualità per anni e anni? Tutti? Dev’esserci una tacita congiura maschile per non rivelare mai quello che succede dove sono incarcerate persone dello stesso sesso.

Ma tu l’hai fatto, disse la voce interiore. Adesso sei una lesbica!

Era una lesbica?, si chiese Patty. Si poteva esserlo anche se si era sposate?  Era qualcosa di latente? Patty ricordò le amicizie della fanciullezza, ricordò la sua migliore amica, Gina, con la quale aveva resi e si era confidata mentre crescevano insieme. probabilmente lei e Gina si toccavano perché erano abituate a giocare come cuccioli. Ma a un c erto momento tutto finisce: Patty pensava che fosse stato quando avevano cominciato a uscire con i ragazzi. Non rammentava di aver provato un’attrazione erotica per Gina, ma aveva avuto una cotta per lei. Era passata quando il padre di Gina era stato trasferito in Oklahoma. Forse l’amicizia era una forma d’amore e il sesso era un’estensione dell’amore e la sua prova fisica. Forse lei non aveva nulla che non andasse, dopotutto.

Sei una lesbica, diceva la voce interiore.

Non intendo esserlo! Rispondeva Patty in silenzio. Era stata Suzy a incominciare. E klei non avrebbe ceduto al contagio.

Quando tornarono al campo, Patty era inorridita e disgustata da ciò che aveva fatto. E aveva il terrore che Suzy lo raccontasse. Le ripugnava il solo pensiero di trovarsi vicina a lei.

Prima che le donne si accovacciassero intorno al fuoco per il pasto serale, l’improvvisa repulsione di Patty per Suzy era ormai evidente. Con un sorriso gentile, Suzy era andata a sedersi acanto a Patty per mangiare, e Patty si era alzata di scatto ed era andata a sedersi dall’altra parte del fuoco.  Se Suzy le rivolgeva la parola, la ignorava. Dopo cena, Suzy le mormorò: “Sei stata meravigliosa. Perché adesso mi tatti così?” In silenzio, Patty la guardò come se la vedesse per la prima volta e volesse ingiungerle di non rammentarle mai l’intimità che era esistita tra loro sulla spiaggia.»

 

Questo è un buon esempio di come si possa essere al di sotto di se stessi, di come si possa non essere all’altezza dei propri sentimenti e della propria verità profonda. Il che è peggio della pura e semplice ignoranza: è la negazione feroce, rabbiosa, dettata dalla paura.

Se, poi, nella nostra negazione coinvolgiamo i sentimenti di qualcun altro, allora commettiamo un doppio delitto: verso di noi e verso di lui. E non è lecito giocare con i sentimenti altrui; a meno che non si tratti, esplicitamente e da entrambe le parti, di un semplice gioco, riconosciuto come tale sin dall’inizio. Se, poi, si possa davvero giocare al gioco dei sentimenti, senza ferirsi prima o dopo, o senza ferire gli altri, questa è un’altra questione, che rimane aperta.

Non intendiamo, comunque, affermare che qualsiasi impulso e qualsiasi sentimento vadano automaticamente accolti e vissuti sino in fondo; vi sono degli aspetti dei nostri desideri, dei nostri bisogni, che devono essere rielaborati, trasformati, sublimati; lungi da noi l’intenzione di magnificare l’edonismo puro e semplice, la ricerca della propria gratificazione al di sopra di tutto; anche perché la gratificazione è una cosa ben diversa dalla realizzazione.

Ciascun essere umano ha tutto il diritto, e persino il dovere, di realizzare la propria essenza profonda: è per questo che si viene al mondo, è per questo che ci si mette in cammino sulle strade della vita, cercando a tentoni la propria.

Ma la nostra essenza profonda, in quanto esseri umani, non passa mai al di sopra dei diritti e del bene degli altri; al contrario: si attua e si completa mediante l’integrazione delle sue legittime esigenze con quelle altrui. Questa è la miseria dell’edonismo: che scambia il falso Sé, dominato da un piccolo Ego meschino e capriccioso, con la vera essenza dell’uomo.

La vera essenza dell’uomo è il richiamo delle altezze, il superamento della contingenza attraverso il riconoscimento della propria vocazione, della propria verità interiore.

Tale riconoscimento può passare, oppure no, per la ricerca della felicità fisica e, quindi, attraverso la gratificazione dei sensi.

Narrano le antiche cronache che il filosofo Plotino si comportava come un uomo il quale si vergognasse di possedere un corpo; ebbene, se le cronache dicono il vero, allora Plotino era in errore, perché non vi è nulla di vergognoso nel corpo, se non l’assolutizzazione dei suoi desideri e la sua separazione artificiale dalla sfera della interiorità.

Nessuno scandalo, dunque, in fatti come quello relativo alle circostanze della morte del cardinale Jean Daniélou, insigne teologo del Concilio Vaticano II, avvenuta nel 1974, in casa di una soubrette di cabaret. Comunque siano andate le cose - che egli si trovasse lì per motivi di assistenza materiale e spirituale, nell’autentico spirito evangelico, oppure per ragioni di ordine diverso e più privato - resta il fatto che il corpo non è male e non è male la corporeità, con le sue esigenze ed i suoi bisogni; né lo si deve pensare necessariamente in contrasto con la spiritualità.

Una persona spiritualmente evoluta può sentire con forza, oppure no, il richiamo dei sensi; e può decidere di rispondervi, oppure no, in maniera immediata: senza per questo “abbassarsi” verso una dimensione inferiore di esistenza.

Viceversa, una persona che si mantenga forzatamente casta per inseguire il miraggio di una perfezione astratta e disumana, non raggiungerà tanto presto la maturità spirituale.

Tutto è grazia, dice Bernanos nel «Diario di un curato di campagna», riprendendo un concetto di San Paolo; tutto è luce, per chi vede con chiarezza.

Ad ogni modo, la sfera della corporeità non è che un caso particolare di quanto dicevamo sulla necessità di essere all’altezza della propria verità interiore.

In termini generali, ciò che importa non è mantenersi casti, oppure no; non è esprimere la propria sessualità, oppure reprimerla: ma essere capaci di sostenere lo sguardo sul proprio vero Sé, sulle sue legittime aspirazioni, senza barare e senza cercare di ingannare se stessi o gli altri.

Come, poi, si decida di gestire i propri impulsi e i propri sentimenti, dopo averli lealmente riconosciuti, è cosa che dipende sia dalle circostanze, sia dalla scala di valori e di priorità che si sono elaborati nella propria esperienza di vita; è cosa, insomma, che riguarda il libero arbitrio del singolo individuo.

Come legge generale, ci sentiamo di sostenere che l’esigenza fondamentale di una vita autentica resta sempre la stessa dei tempi di Socrate, anzi, di qualsiasi tempo: Conosci te stesso.