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Vecchio uguale obsoleto

di Massimo Fini - 25/10/2010


 

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Nel tentativo, tipico della società contemporanea, di occultare, nascondere, negare la vecchiaia, la corsa all’eufemismo non conosce limiti. Adesso "la terza età" non basta più. Si parla di "Gold Age", di "New Gold Age", di "Nouvel Age", di "Papy Boomers", di "normali diversi" fino all’esilarante "diversamente giovani". "Caratteristica essenziale della nostra società bizantina è di mettere le parole al posto delle cose", scriveva a metà dell’800 Edgar Quinet nel suo libro "La Rivoluzione" in polemica con quella cultura illuminista di cui noi siamo eredi. Ma le cose (la realtà) hanno una forza che nessun eufemismo può sconfiggere aggiungendovi anzi un che di irridente. Uno zoppo resta tale anche se lo chiamiamo "motuleso". E così è per il vecchio. I Latini, che erano meno ipocriti di noi, chiamavano la vecchiaia "atra senectus", cupa vecchiaia.
La vecchiaia, in tutti i tempi, è sempre stata un’età crudele della vita, ma nella nostra società è diventata una condizione particolarmente intollerabile. Per varie ragioni. Una deriva proprio dal fatto di negarla, per cui la vecchiaia ha perso anche uno dei pochi piaceri che può ancora dare; quello di lasciarsi andare alla propria età e ai suoi inevitabili limiti. Oggi il vecchio è accettato solo se finge di essere giovane, se sgambetta impudicamente nelle balere, se partecipa a maratone in cui regolarmente si infartua, se fa sesso (con Viagra) anche se non ne ha più voglia, se consuma quasi come un giovane (e qui sta uno dei noccioli della questione: bisogna far credere al vecchio di poter fare ciò che fanno i giovani). Ma se è vecchio e lo dimostra è out, senza pietà. Un anno fa, a Tellaro, i ricchi turisti e i locali si ribellarono a una decisione del sindaco che voleva adattare una delle case della celebre piazzetta a ospizio per anziani: la loro presenza infastidiva, inquietava, deturpava il paesaggio.
Poi, c’è la tremenda solitudine del vecchio di oggi. Facciamo un confronto con l’epoca preindustriale o con quelle poche società tradizionali che ancora esistono. Un vecchio del nostro mondo possiede la tv, il cellulare, il lettore di dvd, l’auto se è ancora in grado di guidare e glielo permettono (è in arrivo una legge che toglie la patente agli "over 80"). Ma è solo. In Europa solo il 35% degli anziani vive con i propri figli. Il vecchio di una società tradizionale materialmente non ha quasi nulla, ma vive in famiglia, circondato dai numerosi figli, dai nipoti, dai bambini, dalle donne e da esse accudito nel periodo in cui non è più in grado di badare a se stesso.
Infine, c’è la drammatica perdita di ruolo. In una società a tradizione prevalentemente orale, com’era quella preindustriale, il vecchio è il detentore del sapere, colui che sa le cose essenziali meglio dei membri giovani del gruppo. Resta il capo della famiglia, un punto di riferimento, conserva un ruolo e la sua vita un senso. Nella società odierna, caratterizzata dai rapidissimi cambiamenti tecnologici, il vecchio, ma sempre più spesso anche chi biologicamente non lo è ancora, è inesorabilmente superato, è obsoleto. Il suo sapere non vale più nulla. Il rapporto si è invertito: i detentori del "know how" sono i giovani. Come scrive lo storico Carlo Maria Cipolla: "Nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella industriale un relitto". E la sua condizione non cambia se lo chiamiamo "diversamente giovane".