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Oltre il muro: e se si parlasse di storia?

di Claudio Moffa - 31/10/2010

Fonte: claudiomoffa

 

Leggo con ritardo l'articolo di Angelo D'Orsi su il Fatto quotidiano a proposito del  “caso Moffa”. Probabilmente resterà una voce nel deserto, ma solleva comunque due questioni importanti: da una parte il rispetto non solo formale del principio della libertà di insegnamento e di opinione, dall'altra la problematicità -  prima ancora del merito - della tragedia degli Ebrei nella seconda guerra mondiale. Premessa possibile e utile, quest'ultima, perché quegli stessi principi comunque inderogabili, vengano con più facilità rispettati nelle università e nelle scuole.

In passato con D'Orsi ho avuto momenti di collaborazione e di contrasto: nel 2006 mi invitò al Festival di Storia di Torino assieme all'amico Sinagra e a uno degli avvocati di Saddam Hussein che avevo conosciuto in Giordania un paio di mesi prima, per una intervista poi pubblicata da Panorama . Mimmo Càndito era sul palco di un bellissimo Teatro, gremito di gente, a moderare il dibattito. Poi fu D'Orsi a venire al master Enrico Mattei e sorsero dei contrasti per la proiezione in aula della videointervista a Faurisson durante il convegno La Storia Imbavagliata dell'aprile 2007: dissapori che comunque non avrebbero impedito al collega di darmi il suo contributo critico per il volume dal titolo omonimo – un saggio che ben si affiancava a quelli di altri autori noti come Ainis, Sinagra, Israel Shamir, per citarne solo alcuni – e del quale ricordo fra l'altro i riferimenti alla distinzione fra Storia e Memoria proposti da quello che probabilmente è rimasto tuttoggi il più noto libro sull' “Olocausto”, Gli Assassini della Memoria di Pierre Vidal Naquet.

Questo è il punto che introduce la questione della problematicità della “Shoah”. E'ancora, credo, noto agli storici quanto scriveva nelle Annales Lucien Fevre, e cioè che “tutto è Storia”, non solo per quel che riguarda i campi di indagine ma anche nel senso che lo studio della disciplina si avvale di una molteplicità di fonti – archeologiche, paleontologiche, botaniche, memoriali, orali, archivistiche – che tutte possono e debbono concorrere al conseguimento di un grado di “verità” sufficiente a spiegare gli eventi del passato più o meno lontano. Dentro questa problematica, uno spazio particolare è da assegnarsi proprio alla coppia ora antinomica ora convergente fonti orali-documenti di archivio.

La valenza di queste tipologie di fonti è profondamente mutata dagli anni Sessanta ad oggi: mezzo secolo fa, che si trattasse di Resistenza europea o di Storia dell'Africa – continente privo di scrittura, per ricostruire la cui storia erano perciò indispensabili le tradizioni orali – queste fonti erano molto apprezzate e in alcuni casi viste come fondamentali per la ricostruzione della “storia dei vinti”. Negli ultimi venti o trent'anni l'atteggiamento degli studiosi è divenuto in generale molto più guardingo: non solo perché la storia dei vinti rischia di trasformarsi per effetto stesso di quella innovativa operazione storiografica in storia dei  vincitori, ma anche e soprattutto perché  la validità in sé delle fonti orali risulta spesso non esaustiva, a meno di  un riscontro incrociato con altre fonti, e in particolare  quelle, a minor rischio soggettivistico, d'archivio.

Come si presenta questo problema metodologico, su cui peraltro mi sono dilungato nella lezione, nella querelle sulla “shoah” e sulle sue tre questioni fondamentali: pianificazione dello sterminio, cifre dello sterminio e camere a gas? In modo rovesciato rispetto alla tendenza generale: si registra cioè una netta prevalenza di Memoria, rispetto alle fonti scritte e documentali. Questo vale per la “pianificazione” dei massacri, della quale manca la prova di ordini scritti di Hitler – non lo dice Moffa, lo dicono gli stessi storici ebrei da Poliakov 1951 a Hilberg 2006, oltre che, come ricorda D'Orsi, Hobsbawm -; vale per la questione delle cifre – ma qui il problema riguarda essenzialmente i mass media, visto che la cifra dei 6 milioni è stata rivista anche dalla storiografia “antinegazionista”; e vale infine per le camere a gas. Su questo cruciale aspetto negli ultimi due decenni hanno continuato a non essere trovati né resti attendibili né soprattutto prove documentali certe. Ecco perché non solo i “negazionisti”, ma anche tanti autori e intellettuali “antinegazionisti” o hanno negato l'utilizzo come camera a gas di questo o quell'edificio (Martin Broszat, a Dachau; Olga Wormser-Migot, ad Auschwitz I°) o hanno utilizzato espressioni come “prove rare e dubbie” (Arno Mayer) e “certezza morale” della loro esistenza (Robert Van Pelt al processo Irving). Non a caso Simone Veil ha scritto in margine a un processo contro Faurisson: "coloro che intentano il processo sono costretti ad apportare la prova incontrovertibile della realtà delle camere a gas. Ora tutti sanno che i nazisti hanno distrutto queste camere a gas ed eliminato sistematicamente tutti i testimoni” (Simone Veil)


Ore 21.30 - Savigliano -
31 ottobre 2006- Teatro Milanollo

Processo a Saddam Hussein

con
Claudio Moffa, Sherif El Sebaie,
Ziad Najdawi, Augusto Sinagra

Conduce Mimmo Càndito

Il caso Saddam Hussein è tuttora in corso: feroce dittatore, ma anche capo politico di uno Stato, l'Iraq, oggetto di un attacco militare, del tutto illegittimo, da parte di potenze straniere. Saddam – identificato come una ennesima personificazione del Male – sconfitto e catturato, viene sottoposto a un processo di dubbia legalità, la cui sentenza sembra scritta in partenza. Il mondo si interroga sulla sua sorte, ma più in generale sulla legittimità di questo tipo di azioni . Ne discutono, con l'avvocato difensore del leader iracheno, specialisti di storia mediorientale, giuristi, internazionalisti.

Questo è il problema. Se mancano i resti degli edifici, se manca la documentazione d'archivio, le armi della querelle sembrano spuntate quanto meno da entrambe le parti: la storiografia olocaustica potrebbe sostenere sulla base dell'asserzione della distruzione delle camere a gas da parte dei nazisti in fuga, che non è dimostrabile la loro “non esistenza”, tanto più che esiste la memoria dei deportati, ma i revisionisti possono ben fare l'operazione inversa, sottolineando la precarietà oggettiva delle fonti memoriali e fondandosi sulla inesistenza di fonti documentali o comunque con un forte grado di oggettività.

Quel che manca a questo punto è il confronto: ma questo deve avvenire fra interlocutori che alla fin fine la pensano allo stesso modo, oppure dando voce anche ai “negazionisti”, come il sottoscritto ha tentato di fare nel 2007? La risposta non riguarda certo solo me né questo dovrebbe mai diventare un “obbligo” per chi è non è d'accordo. Quello che mi sembra però condivisibile da tutti, è che il principio generale della libertà di insegnamento deve restare fermo: e da questo punto di vista resta il merito di Angelo D'Orsi di aver avuto il coraggio di dirlo, non in un appello fuori del tempo e della storia come ormai è quello contro il Ddl Mastella del 2007, ma hic et nunc, in un clima sicuramente non facile fatto di isteria “civile” e minacce.