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L'ultima barbarie: gli sprechi di cibo

di Susanna Tamaro - 03/11/2010

Il 30 ottobre è stato presentato il
primo «libro nero sullo spreco alimentare
» in Italia. Lo studio è stato
condotto da Last minute
market, una realtà della facoltà di
agraria dell’università di Bologna.
Se ci si sofferma un attimo a riflettere,
le cifre sono da malore. In
agricoltura c’è una dispersione di
17.700.586 tonnellate di cibo, un
peso cioè uguale a quello che consuma
l’intero Paese in un anno. Le
organizzazioni di produttori ritirano
ogni anno 75.000 tonnellate di
cibo non scaduto e di questa quantità
solo il 4,4% viene usato per chi
si trova in stato di bisogno. L’industria
butta via 2.161.312 tonnellate
di prodotti mentre la distribuzione
al dettaglio, la più modesta, ne
getta soltanto 244.252. Fanalino di
coda—si fa per dire—sono le famiglie:
515 euro di spesa finiti
ogni anno nei cassonetti.
Dato che una tonnellata equivale
a 1.000 chili, in che forma si possono
immaginare 17.775.586 tonnellate
di frutta e di verdura? L’altezza
di un palazzo, di una collina,
di una montagna? La prima reazione
è di ribellione: per lo spreco,
per l’insulto alla miseria, per l’offesa
a tutte quelle persone che, in un
mondo così spietato, non riescono
ad andare avanti, ma dietro a questo
scandalo si nasconde qualcosa
di ben più profondo, qualcosa che
ci spinge verso un baratro dal quale
sarà difficile fare ritorno. Bisogna
avere la testa obnubilata dai
grafici, dai numeri, dalle teorie per
non accorgersi di questo, vuol dire
non capire in cosa consista il piantare,
far crescere e raccogliere un
frutto della terra.
Una volta era tradizione, nelle
campagne, piantare un albero alla
nascita di un bambino, tradizione
che si è trasformata, col tempo, in
legge per tutti i comuni d’Italia,
legge peraltro raramente osservata.
Ma un albero piantato da un addetto
del comune è diverso da un
albero piantato da un padre, con le
sue stesse mani, così come è diverso
mettere a dimora un tiglio e un
melo. Una volta attecchito, un tiglio
prosegue la sua crescita senza
ulteriori interventi mentre un melo
ha bisogno di continue attenzioni:
va aiutato, quando è giovane, a
stare eretto, poi deve essere concimato,
protetto dai nemici, potato
con mano sapiente, dissetato nei
giorni più caldi. Un melo, insomma,
per riuscire a produrre il nostro
nutrimento — la mela — ha
bisogno di tanto tempo e di una
grande quantità di cure. In un’epoca
in cui la frutta—tutta mostruosamente
uguale — si compra in
vassoi di plastica al supermercato,
questo passaggio può sfuggire, così
come può sfuggire il significato
profondo di questo processo. I
frutti della terra, oltre che il lavoro
dell’uomo, richiedono anche la
sua gratitudine. Da quando l’essere
umano, nella notte dei tempi, è
diventato agricoltore ha sempre celebrato
la terra ringraziandola per
i suoi prodotti.
La maggior parte di noi, ormai,
non ha molte occasioni di vedere
un campo coltivato eppure è sempre
e solo la terra a dare i frutti,
sempre a lei siamo legati dal rapporto
di maternità del nutrimento,
sono sempre sue le montagne
— letterali e non metaforiche —
di cibo che schiacciamo con le ruspe.
Ci rendiamo davvero conto delle
conseguenze di questo spreco?
Non delle conseguenze economiche,
ma di quelle che coinvolgono
il nostro cuore, il senso più profondo
e radicato del nostro esistere.
Una società che disprezza i frutti
della terra, che ha rotto il progetto
della cura, che ha cancellato la gratitudine
dai suoi sentimenti, che
società può essere? Si possono distruggere
montagne di cibo e poi
avere dei bravi figli, dei cittadini rispettosi,
degli adulti responsabili
e compassionevoli? Davvero la nostra
vita, come ci vuole far credere
la post modernità, è fatta di compartimenti
stagni, privi di relazioni
gli uni con gli altri, oppure ciò
che sottende alla vita dell’uomo è
il concetto di unità? Ogni azione,
anche se non è evidente, prima o
poi si ripercuote sulle altre. La gratitudine
è scomparsa e il suo posto
è stato preso dal demone del risentimento.
Il risentimento rende irascibili,
feriti, avvelenati e, invece
di spingerci sulla via della cura e
della gratuità, ci conduce sul sentiero
contorto della rivendicazione.
Ci sentiamo arrabbiati e rivendichiamo.
Rivendichiamo perché
ci sentiamo delusi. Siamo delusi
perché sentiamo che qualcosa ci è
stato portato via. Facciamo i conti
e i conti non tornano mai. Una società
di risentiti non è più capace
di seguire un progetto — che prevede
appunto l’attenzione, l’impegno,
l’attesa del risultato—e dunque
non è più capace di educare.
Le montagne di cibo distrutto
ogni giorno e i ragazzi che si ubriacano
fino a svenire sono due lati
della stessa medaglia. Il mito dell’homo
economicus fa il resto. La vita
è ragioneria: tutto quello che
non rende va eliminato. O consumi
o vieni consumato. Una società
che risparmia sulla scuola, che si
accanisce contro i più deboli, è
una società che ha introdotto dentro
di sé il seme della barbarie.
Sarebbe bello se l’olocausto di
queste montagne di cibo gettato
via, da segno di dolore diventasse
un segno profetico, un mostruoso
totem intorno al quale riunirsi per
dire: basta, è ora di cambiare! I milioni
di tonnellate di frutta e verdura
maciullata e l’uomo ridotto a cosa
sono due facce dello stesso problema.
L’uomo ha bisogno di essere riportato
al centro della sua complessità,
quella complessità che
idealmente si manifesta nel cuore.
Quel cuore che soffre l’umiliazione
dello spreco è lo stesso cuore capace
di provare amicizia e compassione,
capace di dono e di attenzione,
capace di riconoscere la bellezza
e di emozionarsi per la sua gratuità.
Gratuità! Non si vende, non
si compra: non sarà forse questo
l’orizzonte verso cui camminare
per ritrovare un senso?