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Le spie in casa

di Giuliano Luongo - 05/11/2010




COINTELPRO, ovvero Counter Intelligence Program. Dietro quello che sembra il nome di un medicinale in compresse, si nasconde una strategia delle agenzie federali americane per controllare la popolazione; in particolare quella che, almeno all’apparenza, non è immersa al 100% nella cultura mainstream. Tutto questo è avvenuto per un ventennio, a partire dagli anni ’50, in maniera più o meno riconosciuta.

E nel mondo globalizzato, “terrorizzato” e ricco di nuovi spunti da guerra fredda, ecco riapparire questo spettro dall’odore di maccartismo in una sede quantomeno affollata: nel mondo dei social network, con Facebook in testa. Ma cosa significa davvero COINTELPRO? Cerchiamo di spiegarlo brevemente prima di entrare nel caso attuale.

Nel 1956 la Commissione per le Attività Antiamericane, per gestire al meglio il problema delle “spie comuniste” ed un po’ tutte le questioni rilevanti a chi avesse anche una seppur vaga aria di “rossore”, venne coniato questo termine per definire le strategie di infiltrazione e di conseguente demolizione di gruppi “sovversivi”.

In pratica venivano inviati agenti - federali o del controspionaggio - sotto copertura in un partito politico oppure in un qualsiasi gruppo di attivisti non solo per monitorarne le attività, ma per creare al loro interno correntismo, dissidi ed eventuali scissioni per demolirle senza colpo ferire.

Tutto ovviamente all’oscuro dei cittadini. Vittime di questa strategia sono stati il partito comunista americano, vari gruppi socialisti, attivisti per i diritti civili, il movimento per i diritti dei nativi americani, quello per i diritti degli islamici, le Pantere Nere, gli studenti politicizzati, i comitati anti-guerra del Vietnam. L’85% delle attività COINTELPRO bersagliava i detti gruppi ed i loro affini, ritenuti “sovversivi”. Il restante 15% era dedito a sradicare comitati per la “supremazia bianca”, come il Ku Klux Klan.

Le strategie di questo tipo furono interrotte nel 1971, dopo che un gruppo di attivisti riuscì ad ottenere e rendere pubblici i documenti che ne descrivevano le attività. La reazione a catena che ne seguì portò all’abbandono di questa strategia, ritenuta inapplicabile in un regime democratico. Fino ad oggi, o meglio fino alla settimana scorsa. La Electronic Frontier Foundation (EFF), gruppo impegnato nella difesa dei diritti individuali in ambito information technology, in collaborazione col dipartimento di legge dell’Università di Berkeley, ha denunciato numerose agenzie governative a seguito del rifiuto di queste ultime di dare chiarimenti sulle loro attività di sorveglianza su siti internet di gruppi di informazione indipendenti e noti social network.

La battaglia legale è iniziata a fine 2009, ma solo di recente sono venute fuori le prime informazioni interessanti, per la verità leggermente trascurate dai network di informazione più noti. E’ stato reso pubblico un memorandum del Servizio Cittadinanza e Immigrazione (USCIS) del 2008, interamente dedicato all’importanza dei social networks, nel quale si sottolinea l’importanza degli stessi per smascherare possibili frodi. In pratica gli agenti federali vengono spinti a divenire utenti attivi, “amici” delle persone sospettate, per poter controllare le loro attività personali e prevenire così i crimini.

Uno stile degno delle attività della Stasi negli anni del muro di Berlino. Facebook e MySpace sono stati i primi “terreni d’indagine”. In un clima del genere, sarebbe sufficiente lasciare un commento od un semplice aggiornamento di stato volutamente esagerato per innescare un’indagine governativa. Sono tenute d’occhio anche le pagine usate come punto d’incontro per la partecipazione ad eventi pubblici. Esempio eclatante, la nomina di Obama a Presidente: il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (DHS, Department of Homeland Security), ha raccolto dati massicci sulle organizzazioni e sui singoli individui legati all’evento senza esplicita autorizzazione.

Parliamo di privati cittadini interessati a un evento pubblico di enorme rilevanza, non certo dei pregiudicati connessi a chissà quali loschi affari. Inutile ovviamente ricordare come tali enti governativi abbiano negato ogni coinvolgimento: a voler essere precisi, il DHS ha sostenuto di essere autorizzato a fare ciò, sfruttando un cavillo di un documento legislativo del 2008, mentre l’USCIS si è limitato a negare. Evidenziamo inoltre che gli stessi Facebook e MySpace hanno negato ogni possibilità di un loro sfruttamento per eventuali controlli illegali sull’utenza svolti da terzi.

In ogni caso, la lista dei siti monitorati è in crescita ed inizia a comprendere anche blog e siti di critica politica indipendente; sarà comunque difficile che il grande pubblico venga correttamente informato su eventuali evoluzioni, visto che esclusa la Foxnews, quasi nessuna testata mainstream ha dato peso alla vicenda.

 Ben vengano quindi i numerosi interventi indipendenti sul tema: un contributo apparso lo scorso primo ottobre sul Seattle Examiner, scritto dal noto avvocato Alfred Lambremont Webre, porta l’attenzione sul ruolo dello stesso Facebook. E’ stato scoperto tramite investigazioni private che Facebook ha volontariamente sabotato l’organizzazione di gruppi volti al boicottaggio di grandi marchi, come il gruppo Target (finanziatore di attivisti omofobi) e la BP (non c’è bisogno di presentazioni). Il sabotaggio si è concretizzato nella chiusura - prima parziale e poi definitiva - delle pagine di discussione di tali gruppi, non sappiamo se solo grazie a “segnalazioni di utenti” che li ritenevano non idonei alle linee guida del sito.

Mentre sia BP che Target hanno negato ogni coinvolgimento nella faccenda, Facebook si è limitato a confermare che le pagine molto grandi vengono controllate dai manager del sito: si ha quindi la conferma esplicita che, una volta divenuto “rilevante”, un gruppo finisce necessariamente sotto l’occhio dei censori. Censori che sono gli stessi gestori di un sito che dovrebbe favorire la discussione e l’avvicinamento di persone con le stesse idee. Un’ulteriore nota: la BP, in particolare, è stata sostenitrice della campagna di Obama con Steven Chu, l’attuale ministro dell’Energia, che ha visto il proprio portafogli appesantirsi di 500 milioni di dollari “petroliferi” al momento dell’accettazione della carica.

In attesa di ulteriori sviluppi, non rimane che fare alcune considerazioni generali. In primo luogo, notiamo come la paranoia del governo americano continua ad attestarsi su alti livelli, con la rievocazione di strategie di controllo della popolazione degne dei punti più oscuri della Guerra Fredda. In secondo luogo, ci accorgiamo ancora una volta che i cosiddetti paladini della libera comunicazione non sono altro che strumenti di controllo più subdoli nelle mani dei possessori di capitale.

Non rimane dunque che il coraggio di voler continuare a cercare di esprimere le proprie idee, anche quando i mezzi migliori per farlo e le istituzioni democratiche remano contro: alla fine siamo noi ad aver creato questi strumenti e possiamo benissimo riuscire, almeno per una volta, ad usarli esclusivamente a buon fine.