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Lungo il fiume e sull’acqua

di Francesco Lamendola - 05/11/2010




Una luce radente, incredibile, dolcissima pervade il pomeriggio di fine ottobre, simile nel fulgore alle ormai lontane giornate d’estate, ma arricchita dalla pensosa soavità dei timbri autunnali, come una bella donna resa matura dall’esperienza di vita.
Ovunque lo sguardo si volga, il sole rallegra il paesaggio e fa ridere i prati, i boschi, le montagne vicine che stendono la loro chiostra da un’estremità all’altra dell’orizzonte, come per abbracciare la Terra in un amplesso gioioso.
Il grande fiume scorre ai miei piedi, cantando e spumeggiando, costretto ad infilarsi nel passaggio relativamente angusto tra la riva e una lunga isola boscosa che la fronteggia e che nasconde il resto dell’alveo, insieme a molte altre sue sorelle.
Scendo fino quasi al greto e rimango a contemplare e assaporare lo spettacolo meraviglioso di quella luce, di quei colori, di quei suoni e di quei profumi.
L’acqua, di fronte all’isola, è di un verde chiaro brillante, come quella della sponda opposta: ricorda quella di un laghetto popolato di ninfee; appena qualche decina di metri più a monte, invece, le rocce sparse formano una serie di mulinelli orlati di bianca spuma, che continuamente si rinnova e danza in equilibrio su quelle lisce superfici, intonando una canzone severa, solenne.
Così doveva apparire ai soldati in quel drammatico ottobre di novantadue anni fa, mentre si apprestavano ad attraversarlo per dare all’avversario la spallata finale: queste acque sono sacre alla Patria e sono sacre alla memoria. Hanno visto tragedie ed eroismi, si sono arrossate del sangue di una dozzina di popoli, qui convenuti per darsi assurdamente battaglia e per contribuire a seppellire la civiltà europea sotto un cumulo di rovine.
Ora scorrono calme e tranquille e solo qualche vecchio cannone, posto sulle sponde in omaggio alla memoria, ricorda quei giorni lontani, che sembrano ancor più remoti osservando la paziente attesa dei pescatori e la spensierata giovinezza di quanti, l’estate, vengono su queste rive verdeggianti per abbronzarsi al sole, come fossero al mare.
L’isola di fronte a me è interamente ammantata di pioppi, ritti e sottili come assorte sentinelle, leggermene inclinati su un lato. Quelli più vicini alla riva hanno già cominciato a perdere le foglie, ma solo verso il basso, conservando intatta la chioma verso la sommità; quelli più arretrati e al riparo dal vento, invece, sfoggiano ancora tutto il loro sontuoso mantello autunnale, che trascolora dal verde al giallo, all’arancio, al bruno.
Lo spettacolo delle cime dei pioppi che si stagliano contro il limpido azzurro del cielo è di una bellezza da togliere il respiro.
Ma il colpo d’occhio più stupefacente è quello che si offre verso valle.
Le acque del fiume, infatti, in quella direzione assumono una colorazione inusuale, d’un celeste madreperlaceo, quale non avevo mai visto in tutta la mia vita: più intenso vicino alle rive, più chiaro verso il centro; un celeste che sembra uscito dal pennello di un Paolo Veronese o di un Nicholas Poussin, quando dipingono i loro incredibili cieli color cobalto.
Se mi volgo a sinistra, l’acqua ruggisce sulle rocce nella schiuma bianca, con la cerchia dei monti che le fa da sfondo; se mi volgo a destra, la superficie si distende in una pace infinita, tinta di celeste, in direzione del mare. Al centro, all’altezza dell’isola folta di pioppi, le onde assumono quel verde brillante quasi smeraldino, che par riflettersi dalla riva opposta.
Sembra che il mondo intero, con la sua immensa varietà di forme, di tinte e di paesaggi, si riassuma in queste poche centinaia di metri; sembra che la vita umana, dalla giovinezza scalpitante alla pensosa maturità, si rispecchi nel corso del fiume che si snoda all’ombra dei salici e dei pioppi, con tutta la pungente fragranza del suo ineffabile mistero.
Il grande mistero che aleggia sulle cose...
* *   *
Quando si è giovani ci s’infiamma di entusiasmo e si scalpita per l’inconsapevolezza: si crede a tante cose; a tutte.
E forse non è male.
Si crede che il domani sarà migliore dell’oggi; non ci si ripiega troppo sull’ieri, a leccarsi le ferite. Si crede e si riparte, con forze rinnovate.
Si è convinti che ci sia tempo per sperimentare ogni cosa, per rimediare a ogni errore, per rifarsi di ogni sconfitta.
Si è più immersi nella vita, ma senza saperlo, anzi - sovente - credendosene separati.
Come le acque del fiume che rumoreggiano sulle pietre e poi si stendono placate nell’azzurro smagliante, là verso il mare; così la giovinezza irrequieta cede il passo all’età matura, quando gli entusiasmi si smorzano, ma emerge una volontà più sicura e consapevole.
In questa fase accade che volti, situazioni, frammenti di ricordo visitino talora la mente, portando con sé l’aroma aspro di ciò che è stato, di ciò che si è stati, per divenire infine quello che la vita ha fatto di noi.
Qualche volta si vorrebbe poter tornare indietro, si vorrebbe poter riscrivere alcune pagine di quella storia: perché la saggezza ci ha svelato alcune cose che, sul momento, apparivano incomprensibili e perché l’esperienza ci ha insegnato ad essere più umili e pazienti.
Ma, ovviamente, non è possibile.
Come l’acqua del fiume non può tornare indietro, rifluendo dalla foce verso la sorgente, così noi non possiamo ritornare indietro e riscrivere il nostro passato.
Oppure lo possiamo?
In un certo senso, niente è per sempre e tutto si può ricominciare, ogni filo si può sciogliere e tessere di nuovo, secondo una trama nuova e diversa: ma si tratta di un’operazione estremamente ardua e delicata, che solo a pochissimi è concessa, in virtù della loro totale ed incondizionata fedeltà all’essere.
Ma per la grande maggioranza di noi, il passato è passato e non può ritornare: questa è la legge universale, pur se conosce qualche rarissima eccezione.
Pure, che nostalgia al pensiero di quei volti che più non ci sorrideranno, di quei luoghi che più non vedremo, di quei momenti che non torneranno…
Ogni nuovo giorno, è vero, dovrebbe essere accolto con la gioia di un nuovo inizio; ma intanto, il peso delle cose che abbiamo dovuto lasciare lungo la strada si accresce di volta in volta, e rende più lento il nostro passo, più curvo il nostro avanzare…
Chi dimentica in fretta non conosce questa nostalgia, non sa nulla di questa sottile malinconia; ma chi dimentica in fretta, probabilmente non ha mai veramente amato.
Perché amare le cose, le persone, amare la vita, vuol dire stringere un legame che è indissolubile, che ci accompagnerà per sempre.
Le cose che abbiamo amato entrano a far parte di noi, diventano parte della nostra sostanza; e quando se ne vanno, se ne va con loro anche una parte di noi stessi.
Ed è così che si continua a vivere, ma intimamente lacerati: e l’arte di vivere con vera consapevolezza consiste proprio nel ricucire quegli strappi, nel ritessere sapientemente quella trama.
Perché, senza di ciò, noi non saremmo più noi: saremmo solamente degli involucri vuoti, dei manichini senz’anima, svuotati della più intima essenza.
Come dice Kierkegaard, noi dobbiamo procedere sulle strade della vita, dobbiamo guardare avanti: ma dobbiamo procedere ricordando, portando con noi tutto il bagaglio di ciò che è stato e che ha fatto di noi quel che siamo al presente.
Un bagaglio, aggiungiamo noi, rasserenato e pacificato; non un peso morto di sterili ricordi.

*   *   *
La luce radente di fine ottobre, dopo un ultimo guizzo luminoso, comincia a spegnersi rapidamente, mentre l’ombra si allunga sul mondo.
Mi volgo a occidente e vedo il disco del sole, nel suo splendore corrusco, brillare proprio al di sopra delle cime degli alberi, là dove essi formano una lunga linea nera, non così fitta da impedire alla luce del tramonto di penetrarvi in mezzo.
Un poco più in alto, un immenso festone di nuvole di un pallido color crema forma come un’onda ricurva nel cielo, simile a un bastione lunato che rifulge in un vivo contrasto con la tinta verde-azzurra dell’aria; ed il giallo e l’arancio sottostanti si spandono come ad abbracciare le sagome scure degli alberi all’orizzonte.
Lontano, lontano, la sagoma di un campanile gotico si slancia verso l’alto, contro lo sfondo del cielo d’un vivido arancione.
È uno scenario profondamente malinconico, e tuttavia pervaso da una solennità e da una austerità religiose, come certi tramonti di Caspar David Friedrich, con le guglie di una chiesa di montagna che si confondono con i picchi rocciosi e con le cime degli abeti, per cui si stenta a distinguere l’opera della mano umana da quella della natura.
E sorgono spontanei alla mente, in quest’ora così struggente del giorno, i versi immortali del divino Poeta («Inferno», II, 1-3):

«Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
dalle fatiche loro…»

Il giorno se ne sta andando: quanta pensosa dolcezza, quale silenzioso raccoglimento si concentrano in questa espressione, apparentemente così semplice e naturale. È difficile riuscire a dire più cose con meno parole; solo Dante poteva farlo.
E quando torno a guardare verso il sole, ecco che il grande disco si è fatto arancione e già sfiora le cime degli alberi; poi, rapidamente, scivola dietro di esse, splende ormai presso il margine dell’orizzonte, rigato dalle linee sottili dei tronchi e dei rami spogli; infine, con un ultimo tuffo, scompare del tutto, immergendosi nella Terra, simile a una goccia di sangue.
La sua eclisse è stata talmente rapida, talmente inafferrabile, che a mala pena ho potuto distinguerne la diverse fasi; e già il cielo è rimasto vuoto della sua presenza, benché un ultimo riverbero rossastro splenda ancora là dove è scomparso.
Una immensa malinconia, una immensa solitudine scendono velocemente sulla Terra, diffondendosi nell’aria umida della sera.
In un certo senso, assistere a un tramonto nel limpido cielo autunnale è come assistere a una parabola sulla fine inevitabile di tutte le cose.
È una esperienza intensa, solitaria e commovente.
Ci si sente smarriti, quasi che un oscuro senso di vuoto si fosse insinuato nell’anima, lasciandola incerta e sbigottita.
Un peso inesplicabile scende su di noi e i pensieri si fanno più mesti e raccolti; è l’ora, dice il Pascoli, in cui si pensa ai propri cari che ci hanno preceduti al di là…
Pare che l’oscurità incombente debba ingoiare ogni cosa, ogni speranza, ogni gioia.
L’anima si rannicchia, si rattrappisce in se stessa, con un fremito di sgomento. Si accinge, trepidante, alla lunga veglia notturna…
In tempi più religiosi, cioè più consapevoli di questi, la giornata si chiudeva con una preghiera, sull’imbrunire; e ricominciava, prima dell’alba, con un’altra preghiera.
Una preghiera di aiuto alla sera, e una di lode e di ringraziamento nel primo mattino. Era un modo per ricordarsi che siamo solo uomini, cioè fragili e bisognosi.
La notte era lunga: non era il momento del divertimento smodato, come oggi; ma della riflessione e, per taluni, della veglia.
In attesa della nuova luce che, domani, riaccenderà il cuore di speranza…