La «società liquida», senza forme, dove ogni comportamento sembra possibile e lecito, ha fame di riti. Delusa da quelli sbiaditi proposti spesso nelle Chiese, la gente li cerca in Oriente, o da sciamani o santoni improvvisati. Il grande antropologo Julien Ries parla del «bisogno di sacro» che caratterizza questo millennio. Papa Ratzinger ha così deciso che le sue Opere complete comincino dall’undicesimo volume «Teologia della liturgia», dedicato proprio alla liturgia, e ai suoi riti.
Com’è lontano il modo di sentire del secolo scorso, quando Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, accomunava (nel 1907) nevrosi e religione proprio perché il rito (ad esempio lavarsi le mani, modo di camminare, portamento, dizione), era centrale in entrambe le esperienze.
Per la verità le scienze umane del Novecento avevano poi rivisto la similitudine tra nevrosi e rito religioso avanzata da Freud, ormai popolare solo nelle riflessioni più superficiali delle tecnoscienze o dei dibattiti ateistici.
L’antropologia ad esempio ha dimostrato come nel rito appaiano bisogni e rappresentazioni non verbali, inconsce, che è possibile sperimentare solo attraverso i rituali delle liturgie. L’antropologia culturale, poi, ha notato come in ogni cultura i riti abbiano una funzione centrale nel proteggere l’individuo nei passaggi delle stagioni della vita (ad esempio dalla giovinezza all’età adulta), delle stagioni e fasi climatiche, dal celibato al matrimonio, e nell’avvicinarsi alla fine della vita.
Proprio nella terapia, però, si è osservata la funzione dell’esperienza religiosa, organizzata anche in precise liturgie, nell’aiutare lo sviluppo sano della psiche, ed evitare pericolosi «scompensi» nel procedere nella vita.
Lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung, da «osservatore dei fenomeni della psiche» come si definiva, considerava gli «dei, demoni, ideali» dell’uomo come dei «fatti psichici». Ricordava, però, che l’uomo nella sua storia ha sperimentato così a lungo e intensamente la loro potenza sulla propria personalità «da giudicarli degni della più scrupolosa considerazione»: così nasce il rito. L’azione di questi fatti psichici, tradotti nelle forme liturgiche, è di tipo dinamico; particolarmente efficace insomma nell’organizzare i cambiamenti (i passaggi nelle diverse fasi della vita), o nel promuoverli nei momenti di stasi (dovuti a smarrimento, trauma, depressione od altre nevrosi).
Il rito raccoglie le forze dell’uomo affidandole ad un’Entità superiore che dia loro forma, coesione e direzione positiva; negarne il senso non tiene conto delle spinte verso la dissoluzione e la dispersione, la cui intensità aumenta nelle forme di vita più elevate e complesse, come quella umana.
La pietra non ha bisogno di riti, gli animali ne conoscono già di più, gli uomini ne hanno assoluto bisogno a meno di cadere nel marasma della «società liquida». Questo bisogno, ricorda Benedetto XVI nel suo libro, è centrale nei momenti di passaggio, individuali e collettivi.
Lo scopo dell’Esodo degli Ebrei dall’Egitto non è, inizialmente, raggiungere la Terra Promessa, ma l’adorare Dio, nel deserto, in modi che neppure Mosé inizialmente conosce, e gli verranno comunicati lungo il percorso, quando Dio farà conoscere i Comandamenti, e il popolo saprà come adorarlo. Solo dopo potrà arrivare alla propria Terra, e sarà libero.
Questo è il rito per ogni essere umano: l’apertura ad un Padre originario (che la psicologia chiama anche Sé), in cui troviamo forme e principi di comportamento e di direzione, indispensabili per trovare il nostro terreno esistenziale, personale e collettivo.