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Siamo diventati troppo piccoli per capire la grandezza altrui

di Francesco Lamendola - 12/11/2010

Jonathan Swift lo aveva compreso e denunciato fin dal 1726, oltre un secolo prima di Schopenhauer, di Kierkegaard e di Nietzsche, quando apparve nelle librerie, anonimo, il suo «Gulliver’s Travels»: in un mondo di lillipuziani, non vi sono metri di paragone per capire le azioni di un gigante.

Ecco perché la lettura di Tucidide, di Plutarco, di Tito Livio, ci lascia perplessi; ecco perché le “chansons de geste” ci lasciano freddini, e così pure i romanzi cortesi-cavallereschi di Chrétien de Troyes; ed ecco perché - supremo oltraggio -  il «Don Chisciotte» di Miguel De Cervantes viene da noi scambiato per un romanzo umoristico.

Ma c’è di peggio. Vi sono frotte di solerti curatori di edizioni scolastiche, i quali spiegano alle giovani generazioni come  vadano letti Omero, Virgilio e perfino la Bibbia: ad esempio, di come si debba pensare che Omero, nell’episodio di Tersite, abbia voluto segretamente prendere le parti di quest’ultimo, contro la mentalità aristocratica e guerriera impersonata, in quel caso, da Agamennone e da Ulisse.

Che sciocchezza: si vuole imprestare la cultura egualitaria e democratica moderna agli eroi e agli scrittori antichi. Se poi il professore di filosofia viene a parlare degli «heroici furori» di Giordano Bruno, quasi certamente non mancherà di presentarli in chiave romantica e sentimentale, come una specie di preannuncio del germanico «Sturm und Drang»: insomma, Bruno come un antesignano del Werther di Goethe o dei Masnadieri di Schiller.

Che cosa si possa comprendere di Dante, applicando al suo poema le categorie estetiche e spirituali della modernità, è tutto dire. Benedetto Croce, ad esempio, sosteneva che si potesse e si dovesse separare la “poesia” dantesca dalla “non poesia”, ovvero dal bagaglio allegorico, simbolico, teologico, proprio della cultura medievale. Tanto varrebbe dire che, per capire una cattedrale gotica, si può benissimo prescindere, anzi si deve, dal profondo afflato religioso che ne ha ispirato il progetto e la realizzazione…

A forza di riduzionismo e di pragmatismo, ci siamo abituati a pensare così in piccolo, che non riusciamo a capacitarci della grandezza, nemmeno quando si tratta di una grandezza puramente materiale.

Che cosa fa il biblista aggiornato e progredito davanti a un passo dell’Antico Testamento, come quello di «Genesi», 6, 1-4? «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla Terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. […] C’erano sulla Terra i giganti a quei tempi - e anche dopo - quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi.»

Ebbene, il biblista batte velocemente in ritirata e se la cava, tutt’al più, rifugiandosi dietro una lettura puramente allegorica e farfugliando che codesti “Nefilim”, codesti giganti, altro non sono che l’immagine mitologica della protervia dell’uomo che si crede uguale a Dio, o qualche cosa del genere.

Per non parlare, poi, delle culture tradizionali extraeuropee, ad esempio quella dei Pellerossa nordamericani. Grazie alla versione riveduta e corretta del roussoiano mito del “buon selvaggio”, una pletora infinita di film sul genere di «Balla coi lupi», tutti politicamente corretti e rigorosamente progressisti, vorrebbero ridurre la sapienza sciamanica di quei popoli ad una cartolina formato Hollywood, coi fiori della prateria che ondeggiano al vento, mentre vengono solleticate le corde emozionali più esteriori dello spettatore.

Il problema è sempre quello della impossibilità, per un dato paradigma culturale, di comprendere i contenuti e i valori di un altro paradigma culturale.

Nel nostro caso specifico, ossia nel caso della modernità, la domanda è come possa un mondo di nani sperare di capire qualche cosa dell’altrui grandezza, laddove non esistono sistemi di misura comuni per cogliere la sproporzione tra ciò che è considerato “grande” in una cultura mercantilistica, utilitaristica, materialistica e scientista, e ciò che è, o piuttosto era, considerato grande, nell’ambito di culture nobilmente spirituali, aristocratiche, basate non sull’individualismo gretto, ma sull’eccellenza del singolo nell’ottica della solidarietà di gruppo.

In fondo, si tratta di capire come un mondo secolarizzato e ridotto alla misura del Dio denaro, possa ancora coltivare una sensibilità verso il sacro e verso l‘epico: le due categorie che rendono grande, non materialmente ma spiritualmente, una civiltà.

Un ultimo tentativo, per quel che riguarda la nostra Italia, è stato fatto da Edmondo De Amicis, che, specialmente nei “racconti mensili” del libro «Cuore», ha cercato di reintrodurre la categoria dell’epico, ma non più quella del sacro; per questa, l’ultimo tentativo significativo era stato, mezzo secolo prima, quello compiuto da Manzoni con «I promessi sposi». Sappiamo come è andata a finire: sia l’una che l’altra opera hanno fornito il canovaccio per tutta una serie di rivisitazioni in chiave ironica, grottesca e dissacrante, sia a livello letterario che a livello televisivo; dissacrazioni che, non di rado, sono tanto più indicative, in quanto pressoché inconsapevoli.

Quando l’attrice Paola Pitagora, ad esempio, che interpretava Lucia Mondella nella celeberrrima versione televisiva del 1967, per la regia di Sandro Bolchi, dichiarava alla stampa, forse per “épater les bourgeois”, che lei avrebbe accettato le profferte di Ron Rodrigo senza fare tante storie e cercando, anzi, di ricavarne il massimo profitto possibile, è apparso chiaro che cosa non funziona nel nostro rapporto con la grandezza d’animo del mondo pre-moderno: l’assoluta incapacità di ragionare al di fuori delle categorie economiche e la pretesa arrogante di giudicare il passato, partendo – appunto - dal nostro pregiudizio utilitaristico.

In questo senso, anche l’interpretazione della seconda guerra mondiale in chiave di una estrema lotta del “sangue” contro “l’oro”, ossia dei valori spirituali contro quelli puramente materiali, pur se inficiata da un eccesso di schematismo ideologico che l’ha fatta adottare acriticamente dai nostalgici neonazisti, contiene pur tuttavia un suo nocciolo di verità: è  innegabile, infatti, che l’unico uomo di Stato che, allora, non abbia seguito una strategia opportunistica, ma che sia stato monoliticamente attaccato ai propri valori ideali (e senza con ciò voler in alcun modo tessere l’elogio delle sue deliranti dottrine) è stato, piaccia o non piaccia, Adolf Hitler: non Stalin di certo, non Churchill, non Roosevelt.

La grandezza morale, dunque, non può essere compresa da chi non ne possiede nemmeno un pallido riflesso; nemmeno una nostalgia: vale a dire da chi non la possiede nemmeno in negativo, cioè come consapevolezza di una propria mancanza.

È per questo che ci sfugge il profondo significato di tante pagine della letteratura universale; e, fra esse, alcune delle più sublimi.

Si prenda, a mero titolo di esempio, questo passo della novella storica di Nikolaj V. Gogol’ «Taras Bul’ba», epica - e lirica - rievocazione della libera vita dei Cosacchi della sua natia Ucraina, in lotta su due fronti, nel XV secolo, contro i Polacchi e contro  Tatari.

Sotto le mura di Dubno, Andrej, il figlio del fiero condottiero cosacco Taras, rinnega la sua gente e passa tra le file del nemico, per amore di una bella fanciulla polacca, i cui occhi ardenti gli hanno trafitto il cuore.

Ed ecco che, nell’infuriare della battaglia, improvvisamente Andrej si imbatte nello sguardo terribile di suo padre: la descrizione di quell’incontro e di ciò che segue è una delle pagine più alte della storia letteraria di tutti i tempi, ma anche di quell’epos eroico che il mondo moderno è strutturalmente incapace di comprendere (abbiamo scelto qui la traduzione Rossana Guarnieri, Milano, fabbri Editori, 1989, pp. 106-107):

 

«I cosacchi galoppavano a briglia sciolta verso il bosco. Andrej era alle loro calcagna e già stava per raggiungere Goloputienko quando una mano robusta afferrò la briglia della sua cavalcatura. Si girò di scatto: davanti a lui c’era Taras. Rabbrividì e diventò pallidissimo.

Come uno scolaro che ha urtato involontariamente un compagno e ha ricevuto in cambio un colpo di righello in testa s’infiamma d’ira e, uscito dal banco, lo insegue per vendicarsi e d’improvviso si imbatte nel maestro che entra in classe e subito la sua collera si dilegua come nebbia al sole, così, di colpo, si dileguò l’ardire guerresco di Andreij, il suo impeto, la sua furia. Vide soltanto, davanti a sé, il suo terribile padre.

- E ora, che facciamo? - disse Taras, guardando il figlio negli occhi.

Andreij non rispose, rimase immobile, a testa china.

- Allora, figliolo, ti sono stati d’aiuto i tuoi polacchi?

Andreij non rispose.

- Tradire così la tua fede, i tuoi compagni! Su, scendi da cavallo.

Andreij obbedì, docile come un bambino, e rimase lì, in piedi, davanti al padre.

- Fermo, non muoverti! Io ti ho dato la vita, io e la toglierò - disse Taras, facendo un passo indietro e togliendosi di spalla il fucile.

- Andreij era livido. La sua bocca si mosse impercettibilmente nel pronunciare un nome. Ma non era quello del padre, o della madre, o del fratello, era quello della bellissima polacca.

Taras sparò.

Come una spiega di grano recisa dalla falce, come un giovane agnello raggiunto al cuore da una lama aguzza, Andreij piegò la testa e cadde tra l’erba, senza una parola.

Il padre vendicatore guardò a lungo quel corpo immoto. Anche morto, Andreij conservava tutta la sua bellezza, che aveva colpito tante donne. Le folte sopracciglia nere facevano risaltare il pallore dei lineamenti perfetti.

- Aveva tutto per essere un buon cosacco: - disse Taras - l’alta statura, la nobiltà dei tratti, coraggio in battaglia e si è perduto. È caduto vergognosamente, come un cane!

- Padre, che cosa hai fatto? Sei stato tu a ucciderlo, non è vero? – chiese concitatamente Ostap che stava sopraggiungendo al galoppo.

Taras fece un cenno affermativo con la testa.

Ostap lanciò un’occhiata fuggevole agli occhi spalancati del morto e si sentì travolgere da una profonda pietà.

- Diamogli una onesta sepoltura, padre, perché i nemici non goi facciano oltraggio né gli uccelli da preda lo dilanino - disse.

- Penseranno gli altri a seppellirlo - replicò Taras. - Avrà chi lo piangerà, non dubitare. Ma non noi.

Però Taras non era del tutto convinto, e rimase per qualche istante a riflettere se lasciare il corpo del figlio in balia dei corvi e dei lupi o rendergli gli onori dovuti a un cavaliere, nonostante tutto, valoroso. Le sue meditazioni furono interrotte da Goloputienko che arrivava a galoppo sfrenato.

- Guai in vista, colonnello. E grossi! Le cose si mettono male: i polacchi hanno ricevuto rinforzi di truppe fresche.

Goloputienko non aveva finito di parlare che sopraggiunse a piedi, senza fiato, Pysarenko.

- Dove sei, taras? I cosacchi ti cercano. Tre dei nostri capi sono stati uccisi, i cosacchi chiedono di te, non vogliono morire senza rivederti un0ultima volta.

- A cavallo, Otsap! - esclamò Taras.

E corse dai cosacchi perché potessero vederlo nell’ora suprema e per poter lui vedere loro.»

 

Questo è un linguaggio duro per i nostri delicati orecchi di lillipuziani della modernità, non è forse vero?

Oggi, se un padre fa tanto di tirare un ceffone - magari meritatissimo - al proprio figlio, questi gli risponde minacciando di denunciarlo ai carabinieri; oppure, se rifiuta di mantenerlo a vita senza che vada a cercarsi un lavoro, quello non esita a trascinarlo in tribunale, ove qualche giudice solerte gli imporrà di continuare a pagare l’ozio del bamboccione…

Certo, questo pensare in grande, sentire in grande, vivere in grande, caratteristico delle società pre-moderne, non è più recuperabile, “sic et simpliciter”, nella società odierna: i valori non si possono trapiantare da una cultura all’altra, come fossero piante da coltivare in serra.

E tuttavia, forse dovremmo fare almeno una riflessione in proposito.

Pensare in grande, sentire in grande, vivere in grande, significa trasmettere alle nuove generazioni lo spirito di sacrificio, senza il quale non si può fare nulla, se non strisciare davanti a qualche porta per raccomandarsi, e poi condurre un’esistenza disonorevole, medicando i favori altrui in cambio di prestazioni servili, che avviliscono profondamente la dignità personale.

Perciò, amare davvero i propri figli, significa anche saper essere severi; e, soprattutto, essere sempre loro d’esempio, costi quello che costi.

Specialmente quando si tratta di sacrificarsi per qualcosa che sia più grande della meschina corsa al benessere consumista…