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Iran: un’“Onda verde” svanita nel nulla

di Fabrizio Fiorini - 18/11/2010

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Che differenza c’è tra un esercito popolare e un manipolo di mercenari? La risposta è semplice, e non richiede un’approfondita lettura di Sun Tzu o del Machiavelli: l’esercito popolare – salvo casi estremi, come la guerra d’annientamento – sul lungo periodo vince, mentre il manipolo mercenario, se non sortisce un risultato positivo nel breve o brevissimo periodo, torna nell’ombra o viene neutralizzato. Gli assoldati dagli yankee che tentarono l’assalto alla baia dei Porci contro Cuba, ad esempio, fecero la fine dei “pifferi di montagna”, che andarono per suonare ma furono suonati; stessa sorte è toccata ai golpisti iberici del 1981, alle guardie forestali del 1970, e ai cow-boy ubriachi che, trent’anni or sono, si impallinarono tra loro tentando di rimpossessarsi di una loro centrale di spionaggio requisita dai rivoluzionari iraniani.
Gli eserciti popolari sono invece pressoché invincibili (o invincibili tout court, nel lunghissimo periodo) proprio perché “la lotta di popolo è il motore della storia”; se costretti in ritirata da una preponderanza numerica o tecnologica, entrano in occultamento e tramutano in guerriglia le poco fruttuose offensive campali. Tali sono stati i casi della guerra popolare del Viet Nam, tale configurazione stanno assumendo le guerriglie afghano-irachene. Come accennato, solo una guerra di totale annientamento può avere la meglio su di un esercito popolare, una guerra che non fa prigionieri, che non contempla armistizi di compromesso e che non esita a ricorrere alla completa e criminosa distruzione: solo una tale distruttrice predisposizione alla tabula rasa, ad esempio, riuscì a spegnere le fiamme, sessantacinque anni fa, del Volkssturm berlinese.
Alla luce di quanto sopra, risulta facile ascrivere a una delle due categorie quello che si è fatto conoscere dalle cronache recenti come il “movimento verde” degli oppositori iraniani che, al pari di tutte le formazioni prezzolate dalle agenzie governative statunitensi al fine di rovesciare i regimi ostili a Washington tramite la pratica delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, si dileguano e assumono le loro reali inconsistenti sembianze non appena il loro tentativo fallisce. Le anomalie della vicenda sono evidenti: questo movimento di opposizione, che nella pratica altro non era che una ridotta di teppisti armati di mazze e computer palmari, è stato dipinto come un movimento di massa. Non ebbero vergogna di ricorrere ai trucchi più consumati, quali le riprese televisive ravvicinate (ironia della sorte, in tecnica cinematografica tali riprese vengono definite “piano americano”) che trasformavano in moltitudine una dozzina di uomini e addirittura i commenti sulle manifestazioni contro il regime montati sulle immagini delle manifestazioni, cui hanno partecipato milioni di persone, in commemorazione della Rivoluzione islamica del 1979.
Altra anomalia: il movimento verde si vantava di avere nella rete, in internet, il proprio punto di forza, di riuscire attraverso le scappatoie telematiche ad aggirare la censura e il controllo delle autorità. Bene, se così fosse, avrebbero dovuto lasciarne traccia. Andando dunque a visitare internet, con un qualunque motore di ricerca, si scopre oggi che il movimento d’opposizione capace di mobilitare dalla rete un milione di persone come se fossero soldatini di piombo, è letteralmente scomparso. Le notizie più recenti che lo riguardano, tra l’altro frammentarie e propagandistiche, sono datate di almeno sei mesi. Forse che tre milioni di iraniani hanno tutti avuto un guasto del modem?
La verità è ben altra: il blitz è fallito e gli stessi padroni nordatlantici che li avevano foraggiati si sono disinteressati di loro. Ma purtroppo non si sono dimenticati dell’Iran, e la disinformazione ha soltanto preso un altro binario. Ora si parla di fantomatiche lapidazioni, di assassine dichiarate fatte assurgere agli altari della santità, si rispolvera ogni tanto qualche vecchia filastrocca sui “diritti negati”. O – i giornali nazionali ne sono maestri – si fa ricorso al vecchio ma sempre funzionale escamotage del “quartered man”, tecnica di manipolazione dell’informazione messa a punto dalla Cia negli anni sessanta e mai passata di moda; ce la descrive John Kleeves nel suo “Vecchi trucchi”, raccontandoci di quando sui giornali sudamericani ogni notizia riguardante Allende o il governo socialista cileno era accompagnata “tipograficamente” da notizie inerenti episodi (per lo più inventati) di criminalità di particolare efferatezza, quali squartamenti, cannibalismo, atroci sevizie. La grande stampa italiana non è da meno: basta una interpretazione un po’ più disinvolta del concetto di “pagina esteri” ed ecco che la notizia di un processo penale iraniano o dei “negoziati” di Tehran sul nucleare viene accompagnata da un'altra secondo cui un “islamico” avrebbe violentato una donna in un parco, o sfigurato la moglie con l’acido; un “islamico”, appunto, proprio come quel cattivo di Ahmadinejad della pagina accanto. Kleeves intitolò la sua opera “Vecchi trucchi”: e ne aveva ben donde.
La propaganda contro Tehran, quindi, continua seguendo un inquietante crescendo che – conoscendo dove di prassi vanno a parare le offensive propagandistiche nordamericane – non promette nulla di buono. Si è risaputo, infatti, che gli atlantici prima delle truppe mandano i bombardieri, in meno fanno caso al fatto che prima ancora dei bombardieri mandano la disinformazione. Ma almeno, grazie alla sovranità del popolo iraniano, di “rivoluzioni colorate” non si parla più. Quelle rivoluzioni che per Washington hanno sempre lo stesso colore, quello del denaro, e per gli oppressi sempre il rosso del sangue. Almeno i verdi sono scomparsi: goffi, malconci e con un pugno di dollari, correndo via sulle loro scarpe nike.