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Croce, analfabeta di Dio, pretendeva d’aver capito tutto, di saper spiegare tutto

di Francesco Lamendola - 06/12/2010

Il disprezzo nei confronti della religione, considerata una manifestazione di ordine inferiore, e la polemica anticristiana, più o meno esplicita, sono proprie dell’idealismo non meno del marxismo: figli, l’uno e l’altro, dell’hegelismo, e accomunati dalla medesima istanza razionalista, dalla medesima presunzione speculativa e dalla medesima concezione storicista che, riducendo tutto il reale ad immanenza e sostenendo che non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere, divinizzano se stessi nel momento in cui squalificano tutto ciò che non voglia riconoscere le loro buone ragioni per detenere il monopolio della suprema verità.

Sono entrambi, il marxismo e l’idealismo - così come, prima di essi, l’hegelismo - la manifestazione di una sconfinata “hybris” del pensiero e di una curiosa inversione dell’autentico sentimento religioso, che sposta il suo oggetto non tanto dal trascendente all’immanente, quanto da un principio superiore e vero in se stesso, ad una pretesa autoevidenza della verità insita nell’atto del pensare e, più precisamente, del pensare dei loro rispettivi fondatori: Marx, Croce ed Hegel.

Così, e per limitare la nostra riflessione all’idealismo, ci sembra di poter dire che vi è una minore distanza fra l’autentico spirito religioso e la filosofia di Giovanni Gentile, che vede nel Cristianesimo la religione dello spirito e tende a leggere in chiave religiosa i grandi eventi storici, come, appunto, il fascismo, di cui fu il principale interprete in sede speculativa; che non fra quello e la filosofia del liberale conservatore Benedetto Croce, che si gioca tutta nella difesa di interessi molto più angusti e specialmente nello sforzo di offrire una base ideologica al conservatorismo pigro e parassitario della borghesia agraria meridionale.

Gentile, infatti, ritiene che «l’uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio; pensiero divino e divina volontà»; e, di se stesso, afferma risolutamente: «Se domandate a me quale sia la mia religione, io vi dico in tutta sincerità che io mi sento, e perciò credo di essere, non solo cristiano, ma cattolico».

Si può anzi vedere nella dimensione religiosa dell’attualismo, che è compito dello Stato sviluppare e diffondere, l’autentica prosecuzione della religiosità di Giordano Bruno, non tanto in senso panteista, quanto in senso etico e morale; così come nella sua lotta contro l’indifferentismo religioso ed il laicismo propri dell’illuminismo e del positivismo, che - invece - hanno parte essenziale nella concezione di Croce (e in quella di Marx).

Per Croce, la religione è essenzialmente “religione della libertà” ed anche il suo tanto strombazzato saggio del 1942, «Perché non possiamo non dirci cristiani», non ha in effetti altro scopo che quello di propugnare una sorta di “santa alleanza” ideologica, in chiave conservatrice, contro il neopaganesimo nazista ed il materialismo ateo sovietico. Ma la religione, per lui, non è che un momento dialettico nella vita dello spirito, inferiore alla filosofia e valido, in buona sostanza, per vecchiette e spiriti rozzi: la religiosità verso cui si sente attratto è quella del “mondo in Dio”; mentre Gentile si sente spinto, al contrario, verso “un Dio che è nel mondo”.

Il liberale Croce, impregnato di illuminismo e positivismo, condivide con Hegel la presunzione di poter svuotare il Cristianesimo dei suoi “miti” (par di sentire la critica di Rudolf Bultmann) per restituirlo alla sua verità filosofica; egli ha, nei suoi confronti, un atteggiamento che è un misto di degnazione, malcelata impazienza e radicale incomprensione: proprio come Locke o come i deisti inglesi e francesi del XVIII secolo.

Egli è fermamente convinto di possedere le chiavi della Verità Assoluta e guarda dall’alto in basso, con sufficienza tipicamente illuminista (ed hegeliana), le “ingenue”e “primitive” manifestazioni religiose del popolo incolto; con l’aria di voler dire: «Aspetta un momento, che ti spiego io che cos’è la religione e chi è veramente Dio».

A proposito della immensa presunzione intellettuale di Benedetto Croce e della sua totale incomprensione non solo del Cristianesimo, ma del fenomeno religioso in quanto tale, ci sembra illuminante il bilancio delineato da Michele Federico Sciacca in un saggio ormai vecchio di oltre mezzo secolo, e tuttavia sempre lucido e attuale: «L’idealismo moderno» (contenuto nel volume collettaneo «Eresie del secolo», Assisi, Edizioni Pro Civitate Christiana, 1954, pp. 56-59):

 

«Diversa [da quella di Giovanni Gentile] è la posizione del Croce, nella cui sedicente “filosofia” dello spirito non c’è posto per la religione, come, del resto, non ce n’è per la filosofia. Per il crociano storicismo empiristico il problema di Dio è un “pseudo problema”, frutto dell’immaginazione , appartenente alle cose “non pensate e non operate”. Già, perché Dio, per il “positivista” Croce, non è nostra opera, non è un FATTO storico. Per conseguenza, le religioni son “miti” e come tali apartengono alla facoltà dell’immaginazione e valgono a soddisfare soltanto bisogni pratici ed empirici”.

Eppure anche Croce ha scritto di essere cristiano e ha voluto spiegare, in alcune pagine di ameni spropositi (non è qui il caso di parlare di “eresia”, parola che ha pure, quando si è in buona fede, una sua nobiltà) “Perché non possiamo non dirci cristiani” (1942). Egli  riconosce il Cristianesimo essere stato “la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto”. Niente, dunque, rivelazione o intervento dall’alto: si tratta semplicemente di un grandioso fatto umano, di una delle infinite creazioni con le quali lo spirito, perennemente, “celebra se stesso”. Ma, purtroppo, al Cristianesimo primitivo, a questa straordinaria rivoluzione, son capitate tante brutte cose e precisamente di essere stato avvolto in “miti”. Quali? Quelli, chiaro, fantasticati dalla Chiesa: “regno di Dio, resurrezione dei morti, battesimo per prepararvisi, espiazione e redenzione che toglie i peccati degli eletti al nuovo regno, grazia e predestinazione, e via dicendo…”. Pazienza per questi miti: essi sono fenomeni che rientrano nel destino “naturale e necessario” delle religioni; e del resto è ineliminabile dalla vita dello spirito il momento nel quale “si chiude il processo cogitativo della ricerca con l’acquistata fede e si apre quello della praticazione in cui la fede si trasfonde”,. Questo processo involutivo del Cristianesimo è rappresentato dalla Chiesa cristiana cattolica “che foggiò i suoi dogmi non temendo di formulare a volte il non pensabile  perché non appieno risoluto nella unità  del pensiero, il suo culto, il suo sistema sacramentale, la gerarchia, la disciplina, il patrimonio terreno, l’economia,  la finanza, il giure, e i tribunali suoi e la correlativa casistica legale, e studiò e attuò accomodamenti e transazioni con bisogni che né potevano estinguere o reprimere né  lasciar liberi e di sfrenati,…”. Peccato che la Chiesa non abbia pensato a formulare dogmi “pensabili” e “appieno risoluti nell’unità del pensiero”; cioè dogmi che non sono più tali, ma pure verità razionali! Croce giustifica la storia della Chiesa come quella di qualsiasi altro istituto terreno, dato che i FATTI non possono non giustificarsi, una volta accaduti.

Tuttavia la primitiva verità del Cristianesimo, malgrado la Chiesa e la sua miticizzazione, si è trasformata e accresciuta. Pertanto “continuatori effettivi nell’opera religiosa del Cristianesimo sono da tenere quelli che, partendo dai suoi concetti e integrandoli con la critica e con l’ulteriore indagine, produssero sostanziali avanzamenti nel pensiero e nella vita”. Tutti cristiani, quelli che hanno integrato “criticamente” la primitiva verità cristiana: Lutero, e Kant, Voltaire e Fichte, Hegel e Croce. Anzi gli unici veri cristiani sono solo costoro. Infatti il medioevo, “salvo sparsi conati e rare scintille”, ha fatto solo “lavoro banausico”; il Concilio di Trento ha sconosciuto e perseguitato i “severi fondatori della scienza fisico-matematica della natura” e gli assertori della religione naturale e del diritto naturale e della tolleranza, prodromo delle ulteriori concezioni liberali; il “Sillabo”ha condannato tutta quanta l’età moderna, “senza per altro essere in grado di contrapporre alla scienza, alla cultura e alla civiltà moderna del laicato, una sua propria e vigorosa scienza, cultura e civiltà”. Perciò, a parlar rigorosi, non possono dirsi cristiani S. Tommaso e Rosmini, gli apostoli e i santi, e meno ancora la Chiesa sdi Roma e il Papa, tutti incorreggibili creatori di “miti”, del mito della Rivelazione, dell’altro ancor meno “pensabile” di Cristo figlio di Dio, senza dire di dogmi e sacramenti. Invece, lo storicismo crociano, sì, che è cristiano, perché il Dio cristiano non lo adora più ”come mistero” e perché “sa” (e Croce, questo analfabeta di Dio, sa tutto) che “sempre esso sarà mistero all’occhio della logica astratta e intellettualistica, immeritatamente  creduta e significata come ”logica umana; “ma che limpida verità esso è all’occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi” divina, “intendendola nel senso cristiano” come quella alla quale l’uomo, di continuo, si eleva, e che, di continuo, congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo

E poi si vuol pretendere che il Croce vada preso sul serio anche quando scrive di religione e di filosofia, e si rimprovera, a chi onestamente non ce la fa, una presa di posizione eccessivamente polemica”.»

 

Che se poi a qualcuno venisse la curiosità di domandare al Croce come faccia, egli, a porsi dal punto di vista della “logica concreta”, cioè “divina”, ovvero di un Sapere assoluto e oggettivo, sì da vedere le cose con perfetta e sublime trasparenza, i suoi seguaci si vedrebbero forse costretti a rispondere dichiarando la divinità del loro Maestro: altra via intellettualmente onesta non esiste, infatti, per uscire dal paradosso.

Che, poi, è il medesimo paradosso di Hegel, laddove questi afferma che il momento della Religione si “supera” dialetticamente nella Filosofia e che egli stesso, rivelando i disegni dello Spirito Assoluto e perfino i suoi piccoli trucchi (come la cosiddetta “Astuzia della Ragione”), rivendica per sé stesso un grado di conoscenza più che umano, a paragone del quale personaggi come lo stesso Gesù Cristo sbiadiscono e impallidiscono, riducendosi al livello di modesti istruttori di masse illetterate e superstiziose, non certo di “filosofi” con l’iniziale maiuscola.

Croce, del resto, si mostra, se possibile, ancora più gonfio di presunzione dello stesso Hegel: la sua filosofia, infatti, muove dal presupposto di emendare l’hegelismo da ogni residuo aprioristico, in modo da realizzare in modo più coerente di quanto abbia fatto il pensatore tedesco l’unità di razionale e reale; e,  identificando la filosofia con la storia, afferma l’universale concreto, contro l’universale astratto di Aristotele e della Scolastica.

Dall’alto della sua scienza superiore, che gli permette di guardare con distacco e sufficienza sia alla filosofia greca che a quella cristiana medievale e, in particolare, al tomismo, “don” Benedetto, gelosissimo del ruolo di massimo filosofo italiano che si è ritagliato, sia pure attraverso alterne vicende, e della egemonia da lui esercitata nelle università e nelle scuole per mezzo di una rete innumerevole di solerti discepoli, neppure per un momento si domanda se una religione, dopotutto, non debba essere considerata «iuxta propria principia» e non secondo schemi e categorie mentali che si pongono rispetto ad essa con un atteggiamento di degnazione intellettualistica.

Neppure per un momento Croce si chiede se non sia per caso più giusto provare ad accostare il fenomeno religioso con gli occhi di quelle persone semplici che lui, intellettuale prestigioso e alquanto compiaciuto, considera con altezzoso paternalismo; né gli sorgono mai dubbi sulla liceità di una operazione come quella di razionalizzare il fatto religioso secondo le categorie del Logos dialettico dell’idealismo.

Singolare paradosso: Croce, spregiatore della scienza, le cui affermazioni gli sembrano nient’altro che “pseudo-concetti” empirici, e risoluto negatore di una interpretazione matematica della natura, finisce per porsi davanti a Dio e alla religione con la stessa boria intellettuale dello scientismo più esasperato; anzi, se possibile, con boria anche maggiore, considerata la sua pretesa di poter dire proprio ai credenti la parola definitiva sulla loro stessa fede.

In fondo, la filosofia di Croce è uno dei tanti sviluppi del fondamentale pregiudizio illuminista, e specificamente kantiano, secondo il quale «bisogna ricondurre la religione entro i limiti della ragione»: affermazione in cui non si sa se colpisca di più la tracotanza intellettuale, che pretenderebbe di circoscrivere ciò che, per sua stessa natura, è illimitato e insondabile, o l’estrema povertà e banalità speculativa, dato che non sembra neppure accorgersi dell’ossimoro, anzi della insanabile contraddizione logica, di cui - con involontaria autoironia - è  manifestamente portatrice.