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Il mirtillo patagonico della "Aristotelia Maqui" e le sue virtù anti-ossidanti

di Francesco Lamendola - 08/12/2010


In alcuni distretti della Patagonia cilena e nelle remote Isole Juan Fernandez, poste a circa 600 km. dalle coste occidentali del Sud America, cresce un arbusto sempreverde, dalle graziose bacche di colore viola purpureo, cui è stato dato, in omaggio al filosofo greco Aristotele, il nome suggestivo di «Aristotelia maqui».

La corteccia è liscia, i rami sono abbondanti e il tronco si presenta diviso; le foglie sono opposte, semplici, pendule, ovali-lanceolate, glabre, con i margini seghettati; il fiore, piuttosto piccolo, è disposto in cime ascellari; le bacche brillanti, tendenti al viola, hanno un diametro di circa mezzo centimetro, e sia per la grandezza, sia per il sapore, ricordano molto il nostro mirtillo, ma anche il sambuco e sono molto gradite agli uccelli.

Il nome scientifico esatto è «Aristotelia chilensis» ed è una essenza originaria del versante sud-occidentale del continente americano, diffuso dalla provincia dio Coquimbo al settentrione a quella di Aysén nel meridione, dunque da nord di Santiago fino al Golfo di Penas e alla Penisola di Taitao (ed esclusa, quindi, la provincia più meridionale, quella di Magallanes, perché caratterizzata da un clima troppo inclemente di tipo sub-antartico).

Nelle Isole Juan Fernandez questa pianta è giunta accidentalmente al seguito dell’uomo e ha assunto carattere infestante, invadendo le valli inferiori e risalendo lungo le montagne, fino a minacciare seriamente la sopravvivenza della flora indigena di questo arcipelago, che è di straordinaria antichità ed interesse dal punto di vista botanico.

La sua invadente presenza era stata segnalata già tra la metà del XIX secolo ed il principio del successivo da eminenti botanici e naturalisti cileni ed europei, da Federico Johow a Claudio Gay, a Carl Skottsberg (vedi F. Johow, «Estudios sobre la flora de Juan Fernandez», 1896; e C. Skottsberg, «The Islands of Juan Fernandez», 1918, e «The Natural History of Juan Fernandez and Easter Islands», 1952).

Non insisteremo oltre su questo aspetto, perché ne abbiamo già parlato in un ampio saggio che, a quanto ci risulta, è il maggior contributo in lingua italiana alla conoscenza della flora straordinaria di quell’arcipelago, intitolato «Un santuario della natura unico al mondo: le isole Juan Fernandez» (e che è consultabile, in versione parziale, sul sito di Arianna Editrice, ove è apparso in data 11/08/2008).

La «Aristotelia chilensis» è chiamata anche «maqui» dalla denominazione indigena del frutto,  che appartiene al vocabolario del popolo Mapuche, formato dai discendenti di coloro che i colonizzatori spagnoli chiamarono Araucani, i quali ben conoscevano ed apprezzavano le proprietà medicinali delle bacche e delle foglie e che ne facevano, perciò, largo uso nella loro farmacopea, oltre che nella loro alimentazione quotidiana.

Si tratta di un piccolo albero, o piuttosto di un arbusto, che raggiunge l’altezza di circa cinque metri (fino a un massimo di otto metri in altre specie del medesimo genere) e che ha saputo adattarsi meravigliosamente alla diversità delle situazioni climatiche e ambientali. Lo si ritrova, infatti, in habitat alquanto diversificati, che variano dal livello del mare alle vallate interne e alla cima delle montagne costiere, anche di considerevole altezza.

In pratica, cresce dalle rive dell’Oceano Pacifico fino a 2.000 e anche 2.500 metri d’altezza o, comunque, fino al limite superiore della foresta - il cosiddetto «bosco valdiviano» - che, nel Cile meridionale (come in Norvegia, altro Paese caratterizzato da fiordi modellati dall’erosione glaciale) varia rapidamente a seconda delle condizioni locali, ma si abbassa notevolmente quanto più ci si avvicina alle alte latitudini.

La «Aristotelia chilensis» è una angiosperma dicotiledone, appartenente all’ordine delle Malvales o Oxidales ed alla famiglia delle Eleocarpaceae, che conta 10 generi, con qualcosa come quattrocento specie, presenti un po’ in tutti i climi tropicali dell’emisfero Sud, ad eccezione dell’Africa; una di queste è la Aristotelia.

Pianta eliofila, amante dei terreni umidi e, dunque, dei climi discretamente piovosi e costantemente ventilati, oltre alle bacche di colore scuro brillante, possiede dei bellissimi fiori bianchi che accendono una allegra nota di luce nel verde monotono della foresta magellanica o subantartica, caratterizzata da festoni di muschio pendenti dai rami, dalla rigogliosa presenza delle felci e da una straordinaria quantità di tronchi caduti in putrefazione, licheni, sfagni e tappeti di erbe fradice simili a torbiere.

Pianta commestibile dagli svariati usi medicinali, i suoi frutti sono utilizzati per produrre la “chicha” - una bevanda fermentata a bassa gradazione alcolica, molto comune in Cile -, ma possono anche venire ingeriti crudi; i Mapuche li utilizzavano per preparare la “chicha”, come ha documentato il botanico Claudio Gay già nel lontano 1844, nel suo volume «Atlas de Historia Física y Política de Chile»". Li adoperavano - e li adoperano - anche per la tintura dei loro vini, naturalmente poveri di colore.

I frutti possono essere anche mangiati crudi; pare costituissero, anzi, un alimento essenziale nella dieta degli antichi Araucani. Il sapore è dolce e ricorda da vicino quello del nostro sambuco («Sambucus nigra»), pianta alla quale il «Maqui» somiglia anche per le tinture rossastre che se ne ricavano.

Si tenga anche presente che, nella cultura araucana di un tempo, questa pianta era considerata addirittura sacra e che rappresentava le intenzioni pacifiche di colui che la offriva, un po’ come, nella cultura europea, la pianta dell’olivo.

Il legno, di colore bianco, è particolarmente ricercato ed apprezzato per la fabbricazione di strumenti musicali.

Dalle foglie, invece, si ricava un infuso per curare l’irritazione della gola e per la cicatrizzazione delle ferite; è anche analgesico e febbrifugo.

Ma è il succo che si ottiene dalle  bacche a possedere le più importanti proprietà medicinali, oltre ad essere utilizzato per la confezione di gustose marmellate, succhi di frutta e gelati e oltre ad offrire le sostanze coloranti, le antocianine, presenti nelle bacche rossastre.

Non solo il succo ricavato dai frutti possiede proprietà toniche e astringenti, efficaci contro la diarrea e la dissenteria, ma è anche utile nella cura delle ulcere della bocca, mediante gargarismi con l’infuso; inoltre, le foglie sono ricche di alcaloidi indolici, ciò che ha attirato l’attenzione delle industrie farmaceutiche, interessate alla cura dei radicali liberi.

La pianta di «Maqui» fiorisce da settembre a dicembre, periodo che, nell’emisfero australe - a causa del rovesciamento delle stagioni - corrisponde alla nostra primavera. Non ha particolari esigenze, tranne quella di un suolo ricco di humus e, come si è detto, di un costante apporto di umidità; non è troppo sensibile al freddo e non teme di essere coperta dal manto nevoso in inverno, purché per un periodo non troppo prolungato.

Si è osservato che riesce a sopportare perfino temperature di dieci gradi centigradi sotto lo zero, il che la dice lunga sulle sue sorprendenti capacità di adattamento alle condizioni ambientali più severe, come lo sono nella sezione più meridionale delle Ande.

Poiché germoglia e cresce molto facilmente e con notevole velocità, si è pensato di trapiantarla a scopo industriale sia in Europa, in Spagna e specialmente nell’Inghilterra sud-orientale, già nel XVIII secolo, sia, molto più recentemente (al principio del XX secolo), negli Stati Uniti d’America, sulla costa del Pacifico, dalla zona di Seattle, nello Stato di Washington, fino alla California, ove il clima è abbastanza simile a quello dell’habitat originario. Quivi essa è comunemente conosciuta con il nome di «Chilean Wineberry».

Si sapeva da tempo, grazie ai Mapuche, che i frutti di questo arbusto possiedono proprietà antitumorali e antibatteriche; ricerche assai recenti hanno però mostrato che l’infuso ricavato dalle foglie ha pure delle notevoli proprietà antiossidanti, a causa degli alcaloidi in esse presenti, cosa che ha attirato su questa esotica pianta simile al mirtillo un vivo interesse da parte della medicina sportiva e del fitness.

Ricordiamo che gli antiossidanti sono sostanze capaci di neutralizzare i radicali liberi e di proteggere l’organismo dalla loro azione negativa. I radicali liberi sono molecole chimicamente molto reattive a causa della presenza, nell’orbitale esterno, di uno più elettroni spaiati; sono esse a danneggiare le strutture cellulari, come la membrana plasmatica e il DNA, con ripercussioni sulla salute dell’intero organismo.

In particolare, i radicali liberi sono responsabili dell’accelerazione del processo di invecchiamento cellulare e, inoltre, favoriscono l’insorgenza di svariate malattie e forme tumorali. L’organismo umano reagisce a tale azione negativa sia attraverso la produzione di speciali sostanze antiossidanti endogene, ossia sintetizzate autonomamente, sia con l’assunzione di sostanze antiossidanti esogene, cioè ricavate dall’esterno, attraverso gli alimenti.

È sorto così il business del «Maqui», prodotto anti-età destinato alla guerra bandita contro l’invecchiamento, che, in Europa e negli Stati Uniti, ha raggiunto dimensioni notevoli e sta entrando a far parte della cultura medica di vasti strati della popolazione, specialmente in relazione allo sport e alle pratiche rivolte al benessere fisico, un po’ come vi era stato, già alcuni anni or sono, il “boom” dell’aloe, per le sue proprietà immunostimolanti.

Anche in Italia il «Maqui» si trova in commercio sia sotto forma di capsule ricavate dalle bacche, sia sotto forma di succo frullato.

È anche parte di un integratore alimentare appositamente studiato per gli atleti e per tutti quanti praticano lo sport con una certa intensità, perché l’esercizio fisico aumenta il fabbisogno di ossigeno da parte dell’organismo e provoca il trasferimento al fegato dell’acido lattico, che può essere prevenuto solo assicurando una adeguata ossigenazione muscolare, attraverso la circolazione sanguigna.

In Gran Bretagna e soprattutto negli Stati Uniti è un prodotto largamente commercializzato, anche grazie alla vasta campagna pubblicitaria televisiva condotta con l’ausilio di volti assai noti di personal trainers e persone di spettacolo, come la bella californiana Jillian Michaels, classe 1974, dal sorriso smagliante e dai tonici addominali.

E tutto questo è facilmente comprensibile, se si pensa a come la società occidentale odierna sia letteralmente ossessionata dal mito dell’eterna giovinezza e dal bisogno compulsivo di combattere in ogni modo i segni esteriori dell’invecchiamento.

È piuttosto curioso, invece, ma - in fondo - abbastanza caratteristico, il fatto che nel suo Paese d’origine, il Cile centro-meridionale, l’arbusto «Aristotelia maqui» non sia divenuto oggetto di una coltivazione industriale, ma solo di raccolta delle piante selvatiche (una pianta adulta produce circa 10 kg. di frutti ogni sette anni).

Tale raccolta ha luogo nei mesi che vanno da dicembre a marzo, ossia nell’estate australe; in alcuni casi può prolungarsi fino ad aprile, cioè all’inizio dell’autunno. Si stima che la raccolta annua fornisca qualcosa come 90.000 kg., una cifra non indifferente, trattandosi di una attività non industriale (ricaviamo questo dato, insieme ad alcuni altri, dall’articolo del dottor Guido Coppari dell’Università di Padova, presente sul sito Internet di cultura ambientale «Elicriso»; così come rimandiamo il lettore che desideri approfondire ulteriormente l’argomento, alla bibliografia ivi indicata).

Una conclusione ci sembra lecito trarre, arrivati a questo punto.

La vicenda della «Aristotelia Maqui», insieme a numerose altre di carattere analogo, ci ricorda che noi occidentali moderni siamo giunti, buoni ultimi, ad apprendere dalla natura dei preziosi segreti officinali che i popoli nativi, spregiativamente definiti “barbari” o “selvaggi” fino ad un passato alquanto recente, conoscevano invece benissimo, da tempi immemorabili.

Speriamo almeno di saperne fare buon uso: senza abusarne, sia in senso medico che economico.