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L'eterogenesi del Fini

di Franco Cardini - 22/12/2010

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È dunque già finita la troppo breve stagione dell’Idillio tra Gianfranco Fini e la sinistra? E si sono già esaurite le stesse speranze degli italiani di buona volontà (non solo di destra…), i quali hanno per qualche settimana avuto l’impressione  che una ventata di rinnovamento potesse sul serio nascere da colui ch’era stato – dopo Tatarella – il più politico tra i complici di Berlusconi, mentre gli altri erano una banda di gangsters, di bandoleros, di maneggioni, di puttanieri, di dipendenti aziendali, di politicastri di eterogenea origine, di professorucoli montati e mantenuti a colpi di università private,  di “segnorine” e di ballerini di fila convinte di aver la stoffa della  Madame De Pompadour? “Mi vergogno di aver collaborato con lui”; “Mi pento di aver fuso il mio partito col suo”: si può dire e pensare quel che si vuole, ma frasi come quelle erano inequivocabili e irreversibili. Fini le ha pronunziate. Suonavano coraggio, umiltà, chiarezza. Ci avevano illusi.

I maggiorenti  del PdL, da quelli che l’hanno sempre mal sopportato come Bondi ai suoi ex-colonnelli e ora forse suoi principali nemici come La Russa e Gasparri, non hanno esitato a rispondergli per le rime tirando al  centro del bersaglio: se era ormai così avverso al premier e al governo, se addirittura aveva varato quel “Futuro e Libertà” che, almeno nelle intenzioni, si profilava  come un partito dotato addirittura di caratteristiche “da prima repubblica”, come poteva Gianfranco Fini mantenere quella “terza carica dello stato” che avrebbe dovuto  vederlo, come presidente della Camera dei Deputati, super partes.

In realtà, era proprio questo il punto. Fini viene accusato da molte parti, e non a torto, se non proprio d’incoerenza quanto meno di essere un politico dalle convinzioni alquanto suscettibili di mutare anche radicalmente: e, dai tempi di Almirante in poi, i suoi critici più severi lo hanno colto parecchie volte in castagna. È grave? In fondo, il grande Giovanni Papini diceva che una persona intelligente ha il diritto di cambiar opinione tute le volte che vuole; e un crudo proverbio molto popolare tra i politici professionisti recita che “la coerenza è la virtù degli imbecilli”. Eppure, una certa fermezza su alcuni punti-chiave occorre: fa parte della propria identità; e poi, sulla Via di Damasco si resta fulminati una volta sola, non si può prenderci l’abitudine. Per aver un’idea di chi sia, può essere rivelatore il libro di Luca Negri, Doppi Fini (Vallecchi 2010); ma soprattutto un prezioso e magistrale articolo di Stenio Solinas, Fianfranco Fini. Dietro gli occhiali, il nulla, redatto da uno dei protagonisti  più originali della “Nuova Destra” tarchiana, oggi una delle poche penne efficaci, rispettabili e pulite di quel “Giornale” che fu già di Montanelli e che non meritava la squallida fine che ha fatto (ma Solinas vi scrive solo begli articoli di viaggio, senza compromettersi con le posizioni  politiche da quel foglio assunte).

Tuttavia Gianfranco Fini, accusato di aver sempre scaricato se non addirittura “tradito” gli amici e di aver affermato tutto e il contrario di tutto, su alcune cose ha mantenuto una sua coerenza fin da quando era il giovane pupillo di Giorgio Almirante, il quale lo aveva preferito a quel  vero e proprio mostro di cultura e d’intelligenza – tale fin da giovanissimo – che è  Marco Tarchi, di cui mostrava non a torto di aver paura e che oggi, dalla sua cattedra di scienze politiche dell’Università di Firenze, è del suo ex concorrente alla presidenza dei giovani del MSI degli Anni Settanta il critico più informato, inflessibile e risoluto.

Qual era quella sua coerenza? In sintesi – l’ho detto molte volte e lo ripeto adesso, anche se parrà una testimonianza a discarico – a differenza di Tarchi e di me stesso, che una strada analoga a quella di  Tarchi avevo percorso nel MSI (con meno rumore) una decina di anni prima, Fini non è mai, dico mai, stato fascista. Nemmeno quando diceva di esserlo. Le banali battute nostalgiche per ramazzar voti, i saluti romani, le visite alla tomba di Predappio, erano orpelli esteriori con i quali si gestiva il ghetto del 6% dei suffragi nazionali: ma a quel giovane bolognese laureato a Magistero, piuttosto refrattario ad adunate e manifestazioni, noto per la sua pigrizia e non già – badate – per la sua mancanza di cultura (ne aveva quanto un italiano medio e “per bene” ritiene utile e decoroso averne), bensì per il suo disprezzo  per quanto sapesse di dibattito culturale e di politica culturale, il fascismo non interessava né in quanto movimento che aveva proposto (che poi fosse riuscito ad attuarla, è un altro discorso) una conciliazione tra la dimensione nazionale e quella sociale  del mondo italiano primonovecentesco, né in quanto tentativo di modernizzazione del paese e di soluzione dei troppi problemi lasciati aperti dal cosiddetto Risorgimento, né in quanto forza politica nazionale che si era trovata – in una certa analogia con il socialismo di cui era nonostante tutto figlia – ad aver successo e  venir adattata in varie forme dall’Europa all’America latina al mondo arabo e a giocar un ruolo tragico finché si vuole, ma fondamentale nel XX secolo e nel suo grande problema, la gestione della società di massa. Fini era ed è fondamentalmente rimasto – come del resto molta altra gente più anziana di lui, che al fascismo a un  certo punto della sua esistenza ha pur cautamente e parzialmente accordato una certa simpatia ma che ne ha sempre frainteso l’intima sostanza – un conservatore benpensante e moderato, di idee vagamente liberali, sinceramente convinto che il bene comune si consegue attraverso  uno stato abbastanza forte, istituzioni sicure, una borghesia agiata in grado di arricchirsi e ceti subalterni che sappiano accontentarsi:  il tutto garantito da un “pensiero unico” conformista e da  un ordine per le strade gestito con l’aiuto di una polizia efficiente; poca cultura, che è un inutile e ingombrante lusso di pochi; una spolverata di religione, fattore stabilizzante quanto basta per poter tener buona la gente; nessuna politica estera, ché a questo ci pensano la NATO e gli americani. Questo è quel che Fini pensava quarant’anni fa nel MSI, una ventina d’anni fa quando liquidò un partito pericolosamente attraversato da brividi eversivi (e socialoidi) per sostituirlo con quell’Alleanza Nazionale che – come ben vedevano certi suoi esponenti e confondatori di spicco, quali Fisichella e Fiori – sperava di proporsi agli italiani come una buona Democrazia Cristiana di centro-destra, un partito che sarebbe piaciuto a Cavazzoni, forse a Pella, magari all’ultimo Tambroni, in fondo perfino a Fanfani (che però, da buon ex fascista e corporativista, aveva visioni sociali più “di sinistra”). Oggi, modificando ma non rovesciando queste sue posizioni, Fini ha spinto il suo perbenismo moralistico su posizioni un po’ più esplicitamente laiciste per quel che riguarda la politica familiare, la bioetica e l’eutanasia: in tal mondo si è alienato i pur ristretti margini di simpatìa dei quali godeva in Vaticano, e che ora gli preferiscono i “vecchi neodemocristiani” alla Casini e i convertiti o semiconvertiti alla Rutelli, se non addirittura i “cristianisti” (che non credono in Dio, ma ritengono che la Cristianità sia ancor oggi il nucleo forte dell’Occidente) e gli “atei devoti” che nella Chiesa vedono un fattore di stabilità e di “conservazione intelligente”.  Un pool di neodemocristiani, di semiconvertiti, di cristianisti e di atei devoti (che a me, socialeuropeista ma veterocattolico, sembra un circo equestre) sarebbe forse di qui a qualche mese in grado, se riuscisse a esprimere una formazione politica in grado di stare in piedi, di raccogliere una balla fetta dell’elettorato postberlusconiano. Qualche settimana fa Fini ha pensato di potersi proporre come partner indipendente e magari alla lunga perfino come leader di quel circo equestre al quale avrebbe recato il suo contributo di “laici intelligenti” – e il “Manifesto d’Ottobre” d’intellettuali di varia origine, da lui sottovalutato se non disprezzato, lo stava sostenendo in questo:  ma i fatti lo hanno scavalcato, mentre Casini, partner a sua volta  ambiguo e indeciso, si è subito proposto come nuovo alleato primario di Berlusconi – nonostante il veto  leghista –, ovviamente alzando la posta. Frattanto, rinfrancati dal successo del 14 dicembre, gli ex-colonnelli finiani passati al generale di Arcore danno sfogo ai loro peggiori istinti forcaioli proponendo addirittura divieti di manifestazioni e arresti preventivi. Il che, a mio avviso, è appunto l’esito d’una mentalità rimasta fascista nel senso più deteriore del termine: non siamo a Mussolini (che, piaccia o no, era ben altra cosa): siamo a Bava Beccaris.

Ora, questo panorama ha totalmente spiazzato ed emarginato in pochi giorni l’ex aspirante-compagno Fini. Il quale, dal canto suo, ha brillantemente contribuito alla propria emarginazione commettendo quattro madornali macroscopici errori che gli saranno forse definitivamente fatali.

Primo: in un primo tempo ha reso drammatico e violento lo “strappo” rispetto a tutti i vecchi complici di Berlusconi (dimenticando di esserne stato il primo) pretendendo anche da loro la  “vergogna” e il “pentimento” che egli diceva di provare per tale complicità, anziché tenere tatticamente per sé quei pur lodevoli sentimenti e offrire agli ex-berlusconiani, come si fa con i profughi politici che possano ancora servire (Togliatti lo face con gli ex fascisti) un’àncora giustificatoria che permettesse loro di cambiar bandiera in modo esteriormente dignitoso.         

Secondo: dopo aver fatto tutto ciò, anziché rendere irreversibile lo strappo se ne è uscito con dichiarazioni ambiguamente distensive e un po’ furbastre (tipo: Berlusconi si dimetta, dopo di che vedremo se sarà il caso di metter su un Berlusconi Due; il che era improponibile da parte di uno che aveva dichiarato di essersi pentito e vergognato), salvo tornar alla durezza una volta battuto il 14 dicembre in Parlamento, dando l’impressione di far come la volpe con l’uva.

Terzo: ha unilateralmente insistito, forse per paura di perdere una parte della pattuglia che aveva messo insieme, sul fatto di non voler in alcun modo abbandonare la sponda del centrodestra e l’obiettivo del “partito liberale di massa”. Ma, in tempi di crisi e di rapido mutamento, bisogna aver il coraggio di spezzare gli equlibri e di guardarsi attorno a trecentosessanta gradi. Con una sinistra quasi allo sbando e alla ricerca di leaders, un Fini che avesse mostrato coraggio e apertura nei confronti della politica sociale e di quella estera avrebbe probabilmente raccolto consensi pluripartisans. Ha preferito continuar a nuotare nel suo piccolo stagno conservatore, frattanto diventato una morta gora. Ma per giocar bene una carta diversa avrebbe dovuto avere un coraggio, un’energia e una forza culturale che non gli sono mai appartenuti. Sono state queste le doti che avrebbero potuto far di lui un grande leader: la spregiudicatezza e la fortuna da sole non bastano.

Quarto: una volta sceso sul terreno politico impugnando la bandiera della moralizzazione, e visto che il paese rispondeva (specie a sinistra), avrebbe dovuto far lui subito e per primo il gesto di abbandonare la Presidenza della Camera per  rientrare a vele spiegate, come leader, nella politica. Sarebbe stato un gesto che gli avrebbe fatto conquistare consensi straordinari e fatto esponenzialmente crescere il suo prestigio politico. Non lo ha fatto: la sua ben nota abilità tattica stavolta lo ha tradito. Ora dovrà mollare, lasciando nella gente l’impressione di esserci stato costretto: una sconfitta irreparabile, dalla quale la sua immagine esce compromessa.

Il bilancio della sua carriera, come “politico di lungo corso” non ancor sessantenne e parlamentare da circa la metà dei suoi anni, è quella di un “buon secondo” con una buona dose di fortuna personale (senza la quale, come diceva Napoleone, non si va da nesuna parte), di forte abilità tattica e che si è sempre saputo scegliere abilmente i suoi boss: Almirante prima, Cossiga poi, quindi Tatarella, infine Berlusconi. Raramente ha fatto “di testa sua”: quando ciò è accaduto – una breve e disgraziata esperienza come segretario del MSI, quindi l’idea dell’“elefantino conservatore” insieme con Mariotto Segni –, è stato un disastro.

Il suo tatticismo gli ha alienato, pezzo per pezzo, tutti gli antichi sostenitori: gli almirantiani-di-ferro, riuniti attorno a donna Assunta, lo giudicano un furbastro e un “traditore”; i “duri-e-puri” alla Rauti e dintorni un voltagabbana da quando ha parlato del fascismo come “male assoluto” (per la verità, parlava del razzismo); la Destra Sociale ha sempre visto in lui un avversario atlantista e filoliberista, al punto che ha finito col preferirgli Berlusconi; quanto ai suoi colonnelli, egli li ha sempre disprezzati in quanto sapeva che i colonnelli hanno bisogno di un generale, ma ha sottovalutato il fatto che un generale di riserva c’era, e a portata di mano. Gode fama, non so quanto meritata, di essere uno che molla amici e alleati quando gli conviene. Una fama che gli si è ritorta contro.

Oggi risuona  attorno a lui un coro di eterogenea origine, ma concorde nel chiamarlo a gran voce “Traditore!”, come i sacerdoti chiamano Radames nella scena-madre della verdiana Aida. Un’accusa  melodrammatica  e romantica, invecchiata e quasi ridicola: ma che in tempi di carenza di valori seri può fare il suo effetto.

L’ultima volta che parlai con lui con tranquillità e franchezza, qualche mese fa nel suo studio di Montecitorio, gli dissi  che lo ritenevo capace di mollare la politica, se la fortuna – che allora sembrava arridergli – avesse  cambiato direzione. Mi  rispose con molta cordialità che era proprio così. Aveva da poco avuto dalla sua compagna una bambina e ne era felicissimo: un atteggiamento  che sembrava simpaticamente derogare dalla non ingiustificata leggenda della sua abituale “freddezza”. Mi parve, in quella circostanza, sincero, sicuro di sé e riconoscente a un “amico” che aveva colto bene un aspetto segreto del suo carattere. Spero che avessimo ragione entrambi, in quella circostanza. Ora, se il vento non cambia repentinamente e decisamente, è il momento di dimostrarlo.