Nella settimana dell’icona del Bambino appena nato, accudito dalla madre e dal padre, i commenti dei media sono stati dedicati ad una notizia che presenta un’immagine diversa. In una delle cliniche pilota per le nascita in Italia, la Mangiagalli di Milano (ma metà delle donne viene da altre città), il 23% circa delle partorienti non indica chi sia il padre del bimbo. La notizia ha suscitato per lo più commenti osannanti all’emancipazione femminile. Siamo sicuri che si tratti di questo?
L’apprezzamento incondizionato di molti commentatori era dovuto al fatto che un buon numero delle madri single sembra avere un lavoro adeguato e titolo di studio. Si tratterebbe di donne appunto «emancipate», che arrivate attorno ai 35 anni e sensibili all’«orologio biologico», dopo essersi dedicate con buoni risultati alla carriera decidono di soddisfare il desiderio di un figlio, senza la fatica e la complessità di una relazione stabile, e senza comunque condividere l’esperienza della genitorialità, e i suoi onori ed oneri, con un’altra persona.
La situazione è, in realtà, molto più complessa, come risulta anche dalle storie personali raccolte nei vari centri di osservazione pubblici e privati, e da quelle ascoltate nelle psicoterapie.
Le madri autosufficienti ed affermate non hanno cancellato, purtroppo, le altre, le donne abbandonate; quelle che non possono dichiarare un padre perché lui è sparito o non vuole assumersi responsabilità. Queste donne portano spesso un elemento di novità positivo, di cui però poco si parla: la determinazione crescente, soprattutto tra le giovani, a non abortire, utilizzando gli aiuti offerti da Centri di aiuto per la vita (come quello appunto presente in quella clinica, tel.0255181923), sobbarcandosi così, anche se a malincuore, le difficili responsabilità del genitore unico.
Ci sono anche molti altri casi che spingono a nascondere il padre, per le ragioni più diverse: spesso non è libero, oppure la decisione è presa perché la madre single guadagna posizioni nelle graduatorie degli asili, o per ragioni fiscali.
Appiattire questa realtà variegata dietro l’immagine di comodo della donna «vincente ed emancipata» è una nuova violenza alla ricchezza e complessità dell’universo femminile.
C’è però una ragione più sostanziale per considerare inappropriati, comunque, i commenti che presentano come una vittoria del femminile l’immagine della madre col bambino senza padre. Come ha ricordato, infatti, la psicologa clinica Silvia Vegetti Finzi, la maternità non «riguarda solo le donne e il loro desiderio di autorealizzazione. Ci sono anche i figli, spesso dimenticati nei dibattiti sulla procreazione». E i bambini, desiderano ed hanno bisogno di avere un papà e una mamma. Lo sa bene chiunque abbia seguito le loro difficoltà, ma anche chi, lavorando sui problemi psicologici degli adulti, si ritrova a scoprire che molti di questi derivano proprio dall’assenza o dalla scarsa presenza nell’infanzia di uno o l’altro dei genitori.
Il «fare un bambino» non può essere ridotto solo alla realizzazione di un desiderio individuale, darsi un oggetto di consumo costoso e forse un po’ delicato, che ci si concede quando «ce lo si può permettere».
Il bambino, come nell’icona del Natale, presente in modi diversi anche in altre culture, è al centro di una relazione triadica, madre-padre-bambino, che lo nutre e che, a sua volta cresce, anche affettivamente e psicologicamente, per la sua presenza. Lo sviluppo positivo del bambino non dipende dalla ricchezza della madre o del padre, ma dal fatto che entrambi lo amino, e si amino. Il resto è slogan.