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Matteo Miotto, una morte al di sotto di ogni sospetto

di Giancarlo Chetoni - 09/01/2011


Le flagranti e pagliaccesche contraddizioni della versione ufficiale

Non ci stupisce che ad appena 24 ore dai funerali a S. Maria degli Angeli il Presidentissimo, influenzato e febbricitante – ci aveva fatto sapere – tanto da non poter essere presente alla cerimonia funebre di Matteo Miotto dopo aver disertato anche quella all’aeroporto di Ciampino, abbia avuto tutto il tempo per rimettersi in perfetta salute e raggiungere Napoli ancora sommersa dalla spazzatura, per farsi ciceronare insieme alla Sign.ra Clio in un evento culturale di grande richiamo come può esserlo una mostra del Caravaggio.
La morte dell’Alpino il 31 Dicembre ha avuto come effetto di disturbargli, oltre che il soggiorno a Villa Roseberry, anche il calendario degli appuntamenti familiari nei primi tre giorni dell’anno.
Il tutto mentre il suo Ministro della Difesa, visto che l’inquilino del Quirinale è anche Capo Supremo delle Forze Armate (almeno così dice), volava a rotta di collo a Herat per portare – questa la motivazione ufficiale del viaggio – il suo saluto al contingente italiano.
Un “corpo di spedizione“ ormai con il morale sotto i tacchi non solo per la morte dell’Alpino ma soprattutto per la nuova tattica, pretesa ed imposta dal generale Petraeus, di stare sul “terreno“ in Afghanistan.
L’allargamento delle “bolle di sicurezza“, che ci ricordano quelle di sapone, e la trasformazione dei reparti ISAF Italia in Task Force, sul famigerato modello 45, più l’approntamento di capisaldi fissi, in zone totalmente fuori controllo con necessità di rifornimenti logistici via aria e terra, non potevano non portare ad un incremento da capogiro delle nostre perdite.
Nel 2010 sono morti 10 militari italiani contro i 25 complessivamente caduti dal 2002, da Kost con la Folgore (base Salerno, confine Af/Pak) fino al 2009, portando il conto, per ora, a 35 morti ammazzati per una “missione di pace“ che fa sabbia da tutte le parti al di là dei costi stratosferici che impone ad uno sfiatatissimo erario pubblico.
Per capire il livello di autentica follìa raggiunto dal Governo basterà ricordare l’ultimo regalo da 6 milioni di euro a Dicembre dell’anno appena concluso, fatto dalla Cooperazione gestita dal Ministro degli Esteri Frattini per lo sviluppo dei progetti agricoli di Kabul, nello stesso giorno in cui Polizia e Carabinieri bastonavano nel porto di Civitavecchia il capo del Movimento Pastori Sardi Piras e la sua delegazione, in rappresentanza di 15.000 produttori ridotti alla fame, intenzionata a raggiungere Roma e protestare sotto Palazzo Chigi.
La visita di La Russa a Herat non ci ha affatto sorpreso. A dire il vero ce lo aspettavamo.
Con il Presidente della Camera in vacanza nell’Oceano Indiano, dopo la visita di Schifani al PRT di Herat non poteva mancare quella del D’Annunzio del XXI° secolo.
E poi la morte di Miotto necessitava di qualche urgente aggiustamento sul posto, vista la brutta piega che stava prendendo la faccenda in Italia quando sono cominciate a filtrare le prime indiscrezioni che smentivano la versione preparata a tavolino a Palazzo Baracchini: il rinvenimento di un proiettile in calibro 7.62 nella mimetica di Matteo Miotto in corrispondenza di un foro di uscita nella schiena.
Ed è così che si tenterà di fare e di impiastricciare.
Quando l’Ansa ha battuto il dispaccio del 31 Dicembre ha scritto inequivocabilmente “cecchino“. Un cecchino isolato, un terrorista che ha sparato un unico colpo all’indirizzo dell’Alpino e quella notizia è sicuramente partita dal Ministero della Difesa.
Versione poi confermata ufficialmente da La Russa. Letta quella dichiarazione siamo andati a cliccare “Dragunov“. Lo avevamo visto in Iraq nelle mani della guerriglia baathista.
Ne sapevamo qualcosa e abbiamo voluto rinfrescarci la memoria. Il primo filmato su Youtube che ne è uscito ci mostrava dei rangers USA che si addestravano al tiro con quel “fucile di precisione“ in Afghanistan con l’immancabile accompagnamento di caciara yankee.
In più eravamo certi di non averlo visto, nemmeno una volta, nella disponibilità di qualche formazione pashtun. Le decine di fotografie che via, via nel tempo abbiamo esaminato lo escludevano.
Il generale Marcello Bellacicco, attuale comandante del PRT di Herat, ha definito il Dragunov una “new entry“. Un linguaggio da Grande Fratello. Ma così è… se vi pare.
Un’arma che non ha mai destato allarme nelle forze della coalizione ISAF tanto da poter essere venduto come residuato di guerra nei suk delle principali città del Paese delle Montagne.
Il perché è semplice. I modelli in mostra non hanno ottica né diurna anni ’60 a ingrandimento 4, né notturna che necessita di una pila di alimentazione. Inoltre non è maneggevole, è impreciso nel tiro a media-lunga distanza, non dispone di bipiede di appoggio, ha limitate capacità di fuoco, il serbatoio contiene 10 colpi, e necessita di proiettili in calibro 7.62×54 che sono diversi nelle dimensioni dai 7.62×33 degli AK-47.
Ed in più i pashtun, per “ancestrale arretratezza culturale“, disprezzano il tiratore scelto e camuffato dell’Occidente che colpisce di nascosto.
L’ipotesi del cecchino isolato che aveva colpito Miotto, prima alla spalla, poi al fianco, e poi tra collo e spalla non riusciva a convincerci.
Anche perché il caposaldo Buji o Snow sta in una posizione sopraelevata di 250 mt sul terreno desertico, circostante, non ha torrette come Fort Alamo, ma piazzole, camminamenti ed alloggi approntati con materiale di fortuna ed una protezione passiva fatta di “ecobastian“ addossati l’uno all’altro a formare un cerchio su un area di 3-400 mq, trasportati sul posto con elicotteri CH-47.
Per quanto ne sappiamo, Buji è un avamposto in zona desertica privo di rampa di accesso per mezzi ruotati, rifornibile esclusivamente per via aerea anche per l’avvicendamento del personale, tenuto da un mezzo plotone scarso di militari che vivono in una costante condizione di isolamento psicologico e materiale dal Comando Centrale di Herat.
In alcuni capisaldi, dove il terreno lo consentiva, un quarto dei militari italiani sono stati costretti a scavare trincee con pala e piccone ed a mettere su alloggiamenti con travi, prefabbricati ed ondulati, tenendo le posizioni con temperature oscillanti tra il giorno e la notte tra i +40 ed i -5/-7 in estate ed i –15/-20 in inverno.
Ritenevamo invece che fosse indispensabile trovare il proiettile che aveva attinto Matteo Miotto perché poteva contenere un’enormità di informazioni utili: fattura, calibro, composizione delle leghe, rigature lasciate dalla canna e così via per poter essere certi che non fosse magari un proiettile 308W sparato da “fuoco amico“, molto ma molto simile al 7.62×54 sparato da un Dragunov.
Appena 3 millimetri di differenza in meno nella lunghezza del bossolo.
La ritenzione o meno del proiettile nel corpo di Miotto era un altro problema che avrebbe dovuto uscire dall’autopsia ma così non è stato. Dal momento che le pensiamo tutte ma proprio tutte ci è parso strano che il procuratore aggiunto Saviotti sia stato chiamato il giorno successivo a rapporto dal Copasir. Può essere che D’Alema voglia sentirlo per Calipari, come è stato annunciato, ma… qualche dubbio, di indebita pressione “altra“ non può non rimanere in piedi.
Dal leggìo delle grandi occasioni del PRT di Herat, dall’hangar alla presenza delle truppe schierate, un La Russa in tuta mimetica ha voluto farci sapere quale dovrebbe essere l’ultima versione della morte dell’Alpino del 7° reggimento della Julia.
Lo riportiamo per intero per far capire ai lettori la sfrontatezza con cui si dichiara il falso e le enormi difficoltà che incontra nel dare una spiegazione razionale, logica all’uccisione di Matteo Miotto e le flagranti, pagliaccesce contraddizioni in cui cade.
Le conclusioni le tireremo alla fine, anche se non siamo esperti balistici sappiamo leggere e capire.
“E’ stato ucciso da un cecchino, solo che questo non ha sparato un solo colpo ma diversi colpi. Si può pensare che non fosse solo, anzi è probabile che ci fossero altri 4-5 uomini di copertura ma è possibile che a sparare sia stato soltanto lui. E’ stato un vero e proprio scontro a fuoco. Gli insurgents che hanno attaccato la base, difficile dire quanti fossero, hanno cominciato a sparare con armi leggere [di pesanti non ne hanno mai avute - nda]. I militari italiani hanno risposto. Miotto che faceva parte di una forza di pronto impiego è andato alla garitta a dare manforte al soldato che c’era. Sparavano a turno: uno sparava e l’altro si abbassava. E proprio mentre si stava abbassando che Matteo è stato colpito al collo. Dall’esame del proiettile è stato possibile risalire all’arma che ha fatto fuoco. E’ un Dragunov degli anni ’50 di fabbricazione sovietica. Si trova anche al mercato nero di Farah“.
Dal canto suo il generale Bellacicco, nel tentare di dare due mani e due piedi al suo superiore, senza pensare di poterlo inguaiare ancora di più ha dichiarato con candore quanto segue:
“La battaglia alla base Snow si è conclusa dopo diverse decine di minuti anche in seguito all’intervento di un aereo americano che ha contribuito a bonificare l’area. Secondo indiscrezioni ci sarebbero state 4 vittime tra gli insorti. Non è chiaro se tra di loro ci fosse anche il cecchino“.
Un’ultima annotazione prima di chiudere. La Russa si è portato ad Herat 4 ragazzi sotto i diciotti anni di età che hanno già sperimentato la sua “mini-naja“, due maschi e due femmine che sono stati invitati ad indossare il cappello alpino. Il loro desiderio – ha detto La Russa – è di poter fare i militari ma ancora c’è tempo. Se non quì ad Herat altrove.
Il proiettile che ha ucciso Miotto La Russa dice di averlo trovato. Lo porti in Italia e lo consegni ai pm titolari dell’inchiesta. Il resto si vedrà. Relazioni dei ROS e dichiarazioni a verbale degli altri alpini del 7° Reggimento che erano con Miotto al momento del suo decesso nella base Snow comprese. Ci apettiamo che la Procura di Roma faccia per intero il suo dovere, senza guardare in faccia nessuno, dedicando grande attenzione anche al contenuto del suo testamento per valutare la concreta possibilità di “fuoco amico“.