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L’Avvocato, la Trilateral e il gruppo Bilderberg (PARTE V)

di Mario Consoli - 16/01/2011



 
Nel 1978 c’è la ristrutturazione del gruppo, che da quell’anno opererà attraverso Fiat auto spa (raggruppando Fiat, Lancia, Autobianchi, Ferrari e Abarth), Fiat ferroviaria, Fiat Avio, Fiat trattori e Iveco (raggruppando tutta la produzione di veicoli industriali). 
Nel 1986 Romano Prodi, presidente dell’IRI, praticamente regala l’Alfa Romeo alla Fiat. Erano in atto trattative molto avanzate con la Ford che, quanto meno, avrebbero potuto servire a far lievitare il prezzo. Ma Prodi non dà segni di voler approfittare di questa elementare regola commerciale e cede subito. A tifare per la Fiat erano stati in parecchi: dal segretario Dc Ciriaco De Mita al ministro delle Partecipazioni statali Clelio Darida, al capo dei comunisti torinesi Piero Fassino. 
La CEE protesta: “si tratta di un aiuto di Stato surrettizio e, come tale, proibito dal Trattato di Roma”, un comportamento incompatibile con le regole di concorrenza della Comunità. Il futuro presidente del Consiglio si giustificò dichiarando che quella era l’unica soluzione per salvare l’occupazione dei 16.000 dipendenti dello stabilimento di Arese. Ma già l’anno successivo 6.000 di quegli operai furono posti in cassa integrazione e le ultime Alfa uscite da quella fabbrica sono del 2000. Per l’enorme area - due milioni di metri quadrati - sin qui occupata da quell’industria, si parla di un futuro impiego come “polo logistico”. Per ora c’è rimasto solo il Museo storico delle auto.
Nel 1966 finì l’era di Vittorio Valletta. Il successore di Giovanni Agnelli aveva raggiunto, lavorando, gli 84 anni. Il 30 aprile è lui stesso ad annunciare all’assemblea degli azionisti l’inizio della gestione di Gianni Agnelli: “Da oggi il dottor Agnelli non è più soltanto il nipote di suo nonno”. Per l’anziano dirigente rimane la poltrona di presidente onorario. A novembre il capo di Stato, Giuseppe Saragat, lo nomina senatore a vita. Il 10 agosto1967 a Marina di Pietrasanta in Versilia, mentre è in vacanza, è colpito da emorragia cerebrale e muore.
Comincia l’era dell’ “avvocato”, che durerà 37 anni. Enzo Biagi ne fu uno dei più riverenti incensatori: “C’è sempre stata, a Torino, una famiglia che per gli italiani contava, e aveva un peso nelle decisioni importanti: si chiamava Savoia, adesso si chiama Agnelli”. Ma, nonostante l’agiografia redatta per questo personaggio abbia diffuso nella pubblica opinione l’immagine di un grande industriale e di un abile uomo d’affari, in questo periodo la Fiat – contrariamente a ciò che avvenne ai tempi di suo nonno e di Valletta – passò diversi momenti al limite della tenuta, sino a rasentare la possibilità – nel 1973 – di essere “irizzata”.
Nel 1980, mentre l’Opel costruisce 29 vetture per addetto all’anno e la Toyota 43, la Fiat ne produce solo 11. Le vetture invendute sono più di 50.000, l’indebitamento ha superato la soglia dei 6.800 miliardi e rappresenta più del doppio del patrimonio netto del gruppo. Agnelli arriva a ricorrere per sette giorni alla cassa integrazione di 78.000 dipendenti, praticamente i due terzi degli effettivi della Fiat auto. La Fiat ne uscirà solo grazie ai soliti aiuti di Stato e rocambolesche coperture finanziarie. Tra l’altro venderà il 10% dell’azienda alla Lybian Bank, la banca della Libia di Muammar Gheddafi.
Dopo vent’anni, all’inizio del secondo millennio, la situazione si ripete: le vendite calano dell’11%, il gruppo ha una perdita di 9.000 miliardi e l’indebitamento ha raggiunto i 60.000 miliardi.
Negli anni Novanta la Fiat aveva ricevuto dallo Stato oltre 10.000 miliardi di lire, mentre i suoi versamenti tributari raggiungevano a malapena i 6.500 miliardi; un’operazione, per l’Italia, in netta perdita. Inoltre, mentre gli azionisti in quello stesso periodo avevano versato – sotto forma di aumento del capitale – 4.000 miliardi, ne avevano prelevati, come dividendi, ben 5.700.
Gianni Agnelli non fu dunque in grado di dare un’impronta personale continuativa, sempre in espansione, nella gestione della Fiat. Nonostante fosse presentato come “ultimo Re d’Italia”, fu costretto ad avvalersi di numerose collaborazioni, talvolta in disaccordo tra di loro, che produssero risultati alterni. Sul piano finanziario fu determinante l’assistenza di Enrico Cuccia di Mediobanca e sulle più importanti poltrone della Fiat si sono avvicendati, oltre al fratello di Gianni – Umberto – ,Vittorio Chiusano, Gianluigi Gabetti, Cesare Romiti, Carlo De Benedetti, Vittorio Ghidella, Paolo Cantarella, Roberto Testore, Luca Cordero di Montezemolo, Giuseppe Morchio e Paolo Fresco.
L’ “avvocato” privilegiava, a quello di Villar Perosa, il soggiorno nella sua casa di New York. A chi lo chiamava “un americano imprestato a Torino piuttosto che un piemontese in prestito a Manhattan” rispondeva con un sorriso sornione. Adorava collezionare quadri di grande valore e lo faceva anche quando ciò rischiava di compromettere la sua immagine di capo della Fiat, come accadde nel 1972. Mentre i comunicati aziendali denunciavano una crisi al limite del tracollo, Agnelli acquista, per la sua personale galleria, un Rousseau, Les Tropiques, alla cifra di 600.000 dollari. La notizia apparsa sulla stampa negli Usa e in Italia ha un forte effetto negativo. L’Unità titola: “Agnelli è il solo metalmeccanico italiano che non abbia problemi di quattrini”. L’ “avvocato”, a questo punto, a malincuore, commissiona due riproduzioni fotografiche dell’opera, da appendere nei suoi uffici, e vende l’originale ai giapponesi.
Ma Gianni Agnelli si piccò di essere – e lo fu – uomo di potere; dietro la scrivania appese un grande quadro rappresentante una tigre, che gli era stato donato dal principe Bernardo d’Olanda, presidente della Trilateral Commission – una specie di governo-ombra degli uomini più potenti del mondo fondato nel 1973 da David Rockefeller e Zbigniew Brzezinski – della quale l’ “avvocato” fece parte fin dall’inizio. Agnelli partecipò anche al Gruppo Bilderberg, che si riunisce una volta all’anno per discutere – e decidere – sulle grandi questioni del mondo.
Durante i suoi frequenti soggiorni americani, gli amici di cui circondarsi, Gianni Agnelli li scelse soprattutto fra gli ebrei, particolarmente tra quelli molto influenti: l’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger, David Rockefeller, il finanziere André Meyer, l’editrice del Washington Post Katherine Meyer Graham. La sede della Fiat Usa fu affidata al giornalista Furio Colombo – considerato l’ambasciatore di Agnelli negli Stati Uniti – che, al suo rientro in Italia, andrà a dirigere l’Unità.
Un “ultimo Re d’Italia”, dunque, sempre meno italiano e sempre più uomo d’affari internazionale. Negli anni Novanta fece l’accordo con il gruppo francese PSA. Anche in questi ultimi mesi, in perfetta sintonia con quell’agire, dopo aver messo le mani sulla serba Zastava e sull’americana Chrysler, la Fiat ha iniziato in Italia a chiudere gli stabilimenti del Sud e diminuire i posti di lavoro. All’estero, mentre conferma la sua presenza produttiva in Polonia, Brasile, Argentina, Turchia e India, sta sviluppando progetti in Serbia, Russia e Cina.
L’internazionalizzazione della Fiat la si individua, oltre che nella dislocazione dei suoi stabilimenti e nella scelta dei mercati, anche nella storia della dinastia degli Agnelli. 
Una dinastia movimentata e anche funestata da molte tragedie, sulle quali indagare è sempre risultato molto difficoltoso a causa dell’estrema riservatezza dimostrata dagli Agnelli per le vicende legate alla famiglia. Quando la Rai decise di realizzare – per la regia di Mauro Bolognini – uno sceneggiato in quattro puntate ispirato al libro di ricordi di Susanna, Vestivamo alla marinara, il fratello Gianni non esitò a comprare – senza badare a spese – i diritti della fiction per sospenderne le riprese e impedirne la trasmissione.