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La bancarotta di una intera classe dirigente

di Francesco Lamendola - 17/01/2011




C’è un passato, in Italia, che non passa, che non vuol mai passare; ma forse sarebbe più giusto dire che non PUÒ passare, perché da moltissimo tempo il nostro Paese ha smesso di andare avanti, si è fermato nel passato e vi si sta fossilizzando.
Un Paese che non ha mai fatto chiarezza né sul Fascismo, né sulla Resistenza, né sul “miracolo economico”, né sugli “anni di piombo”, è un Paese che non vive nel 2011, ma nel 1911: un Paese morto e imbalsamato.
Non è mai emersa la verità sul 25 luglio del 1943, né sul 25 aprile del 1945, né sulla morte di Enrico Mattei, né sulle stragi degli anni 1969-70, né sul ruolo occulto svolto dalla C. I. A. e dal Mossad, né sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, né sulla strage di Ustica, né sulla P2, né su Licio Gelli, Michele Sindona e Roberto Calvi; e nemmeno sulla mafia, sull’assassinio del generale Dalla Chiesa e su quelli di Falcone e Borsellino: insomma su nessuno dei nodi cruciali della nostra storia recente e meno recente.
Ed è così che ritornano sempre le stesse situazioni, sempre le stesse insufficienze, sempre le stesse ambiguità: uno spettacolo che sarebbe perfino monotono, se non fosse tragico.
Quello cui ci tocca assistere è sempre lo stesso desolante spettacolo di degrado della vita pubblica: sempre le stesse tangentopoli e parentopoli; sempre le stesse montagne di rifiuti sulle strade, con le relative connessioni camorriste; sempre gli stessi intrecci perversi fra potere economico, potere politico, potere dell’informazione e, sotto banco, poteri criminali organizzati.
Le recentissime vicende della F.I.A.T. sono un ennesimo ritorno del passato: precisamente, un nuovo, un ennesimo 8 settembre della nostra classe dirigente. Tutta allegramente in fuga dalle proprie responsabilità, dal proprio dovere, dal più elementare senso dell’onore; tutta quanta più che decisa a scaricare ogni difficoltà sul soldato semplice, ossia sul comune cittadino.
La cosa veramente scandalosa non è che gli operai siano stati messi di fronte a un referendum ricatto, con la pistola di Marchionne puntata alla tempia; la cosa intollerabile è che il presidente del Consiglio, prima ancora che si conoscesse l’esito del voto, già dicesse che la F.I.A.T., in caso di vittoria dei “no”, avrebbe avuto ogni ragione di andarsene all’estero.
Proprio quella F.I.A.T. che, da più di un secolo, è stata foraggiata dalle commesse statali, dai finanziamenti statali, dalle agevolazioni statali; la F.I.A.T. che è divenuta un colosso industriale grazie alle due guerre mondiali e al Fascismo, e che ha ripianato i suoi debiti e le sue difficoltà con fiumi di denaro pubblico, ora sente odore di crisi e vuole andare all’estero, dove gli operai sono ansiosi di fare il terzo turno: gente seria, che vuole lavorare, mentre gli operai italiani, come è noto, non sono seri e non hanno voglia di lavorare.
Peccato che, tanto per fare un confronto con un Paese a noi vicino, un operaio tedesco della “Volkswagen” guadagni il doppio di un operaio italiano della F.I.A.T. e che goda di tutta una serie di eccellenti servizi a carico dell’azienda, non dello Stato: per esempio, degli asili nido gratuiti per i propri figli. 
Sta di fatto che la Germania marcia al ritmo di una crescita economica del 3,6% annuo e sta per raggiungere la piena occupazione; né ci si deve meravigliare che in un simile contesto, scioperi e altre forme di conflittualità sociale siano ridotti al minimo: e ci si chiede perché mai gli operai italiani debbano rassegnarsi a vivere e lavorare in condizioni così diverse.
Certo, ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più da un amministratore delegato, come Marchionne, che percepisce uno stipendio oltre quattrocento volte superiore a quello di un operaio: per esempio, che parlasse il linguaggio del 2011 - innovazioni tecnologiche, miglioramenti nella catena distributiva, penetrazione in nuovi mercati - e non quello del 1911 - ulteriore abbattimento del costo del lavoro, aumento dei ritmi di fabbrica e taglio di una serie di diritti sindacali - per ridare competitività all’azienda.
Ma insomma, cosa ci si poteva aspettare da uno che già aveva dichiarato, senza arrossire, che, se lavorasse solo per l’Italia, la F.I.A.T. sarebbe in deficit?
Il suo orizzonte culturale è quello di un piccolo commerciante di provincia, il quale dica (legittimamente):  «Io vendo macchine; a me basta che, nella partita doppia delle entrate e delle uscite, i conti tornino: e non chiedetemi altro».
Sì, con uno stipendio che è quattrocento volte e passa quello di un operaio, ci si poteva aspettare che nel cervello del grande manager spuntasse qualcosa di più originale, di più articolato, di più intelligente, per dirla tutta, di quel che ha detto e fatto sino ad ora; ma insomma, ripetiamo, questo è l’orizzonte culturale della nostra classe dirigente - socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti - e in fondo è logico, anche se un po’ triste, che la maggiore azienda made in Italy non riesca a pensare nemmeno un pochino più in grande.
Anche la presa di posizione della Confindustria, per bocca di Emma Marcegaglia, è stata tutt’altro che una sorpresa: tutto rientra, per così dire, nella norma: nella norma italiana, sia ben chiaro, non in quella europea, né statunitense.
Ma che il presidente del Consiglio dica, ad urne ancora aperte: «Certo, fa benissimo Marchionne a dirottare gli investimenti all’estero, se passa il “no” al referundum»: ebbene, questo è più che scandaloso; è, alla lettera, qualcosa di inconcepibile.
Ma ve lo immaginate un Sarkozy che dica, in circostanze analoghe: «Certo, fa benissimo la Renault ad andare all’estero»? O una signora Merkel che dica: «Certo, fa benissimo la Volkswagen ad andare all’estero»? O un Obama che dica: «Certo, fa benissimo la General Motors ad andare all’estero?». Qualcosa di inconcepibile, ripetiamo: qualcosa che non si riesce nemmeno ad immaginare, tanto enorme sarebbe lo scandalo, se ciò accadesse.
Eppure da noi accade e pochi ci trovano qualche cosa di strano o di reprensibile: e tuttavia stiamo parlando dei destini del più grande gruppo industriale nazionale, l’unico che si possa paragonare ai colossi internazionali, come quelli che abbiamo sopra nominato.
Si dirà che il nostro presidente del Consiglio è essenzialmente un imprenditore e che ragiona da imprenditore: come per Marchionne, per lui tutto quello che conta è vendere la merce, in modo da avere il saldo aziendale in attivo, prima di qualunque altra considerazione.
Infatti: e proprio questo è il male.
Un presidente del Consiglio non dovrebbe ragionare da imprenditore, ma da presidente del Consiglio: dovrebbe, cioè, avere a cuore il bene della comunità nazionale, non di questa o quella azienda. Per lui, il fatto che la F.I.A.T,. voglia andare all’estero dovrebbe presentarsi come la massima sciagura che possa colpire il nostro Paese: una sciagura da evitare in qualsiasi modo e con qualunque mezzo. 
E non solo perché la F.I.A.T. ha usufruito per decenni del pubblico denaro (ivi compresi gli incentivi alle rottamazioni) e ora vuol tagliare la corda nel momento della difficoltà, come fecero il re, Badoglio e i generali l’8 settembre 1943; ma anche perché, per un presidente del Consiglio, il primo pensiero dovrebbe essere quello del lavoro, degli operai e delle loro famiglie, per non parlare delle cento e cento aziende dell’indotto: non quello per i conti di Marchionne. Il quale, i suoi conti, li sa fare benissimo anche da solo.
In tutti i Paesi seri del mondo, i manager vengono pagati per cercare delle soluzioni alla crisi economica mediante un salto di qualità delle strategie industriali, basato sulla ricerca, sull’innovazione, sulla razionalizzazione dei processi produttivi; solo da noi sono pagati per porre gli operai davanti a un ultimatum brutale: o rinunciare a tutta una serie di diritti sindacali, oppure restare senza lavoro. 
Solo da noi pensano ad esportare le fabbriche dove il costo del lavoro costa la metà, come in Serbia, o dove la classe operaia è meno permeata dalla cultura dei diritti sindacali, come in Canada (a fronte, però, di un trattamento economico assai migliore).
Ora la domanda che ci si dovrebbe porre è se vi sia bisogno di affidarsi a simili teste d’uovo per elaborare questo genere di strategie industriali.
Certo, i problemi del lavoro e della produzione cui ci troviamo oggi di fronte sono di portata mondiale e, per molti aspetti, inediti: nessuno può pretendere di avere la bacchetta magica per risolverli su due piedi.
Certo, il progresso tecnologico erode inesorabilmente posti di lavoro, come ha sempre fatto, fin dall’inizio, quando i telai meccanici spingevano alla disoccupazione e alla disperazione gli artigiani tessili inglesi del tardo XVIII secolo e del principio del XIX.
Certo, la globalizzazione procede inarrestabilmente nella direzione di ridurre i diritti sindacali: perché, con un enorme serbatoio di mano d’opera a bassissimo costo sempre disponibile (gli immigrati dai Paesi del Sud della Terra), il posto di lavoro retrocede dallo status di diritto - e sia pure teorico - a quello di mera possibilità, se non, addirittura, di privilegio.
E tuttavia, resta il fatto che, nei Paesi ove esiste un capitalismo serio, questi processi vengono gestiti dalle classi dirigenti con un certo grado di accortezza, di elasticità, di lungimiranza; con un minimo di sensibilità per le loro implicazioni sociali. 
Questo, per quanto riguarda i massimi esponenti della nostra classe imprenditoriale: «Armiamoci e partite» è sempre stato il loro motto; inutile aspettarsi che, dopo generazioni di assistenzialismo statale, improvvisamente si scoprano la stoffa dei lottatori, che sappiano osare e rischiare qualcosa in proprio, oltre che sulle tasche dei contribuenti. 
Inutile anche aspettarsi che mostrino un sia pur minimo amor di Patria: saper coniugare il proprio interesse di classe, almeno in qualche misura, con quello nazionale, è una dote del capitalismo serio, non del capitalismo cialtrone; né la si può improvvisare, se non la si è mai avuta.
Quanto al nostro sistema finanziario, alle banche e ai loro dirigenti, il discorso è lo stesso: abituati a giocare sul piccolo risparmio per accrescere gli utili senza fatica e senza rischio, a speculare in borsa e a prestare il denaro dove ce n’è già tanto e non dove ce ne sarebbe bisogno, di tutto sono preoccupati, tranne che di farsi carico di sostenere le imprese in difficoltà, dalle quali dipendono il lavoro di migliaia di operai e la sopravvivenza delle loro famiglie.
Ma che la classe politica, ai suoi massimi livelli istituzionali, supporti ed approvi pubblicamente una simile condotta, questo è veramente scandaloso e intollerabile. 
Nei Paesi ove esiste un capitalismo serio, davanti ai conflitti di lavoro i governi hanno due possibilità davanti a sé: o restare rigorosamente neutrali, in omaggio al perfetto liberismo; oppure svolgere una funzione mediatrice, invitando le parti intorno a un tavolo e sforzandosi di favorire un accordo fra di esse - almeno quando si tratta di problemi dalle vaste ripercussioni a livello nazionale.
Ma il nostro governo non ha seguito né l’una, né l’altra di queste due strade: per bocca del suo capo, non ha saputo fare di meglio che buttare là un commento la cui estrema rozzezza e povertà intellettuale sono pari soltanto alla sua inverosimile arroganza.
E ciò mentre tutto il Paese, anzi tutto il mondo, sono costretti ad occuparsi dei festini a luci rosse del premier, nei quali spariscono allegramente somme di denaro che un onesto lavoratore non riuscirebbe a vedere nell’intero corso della propria vita.
A questo punto, vorremmo sbagliarci, l’orizzonte della nostra vita nazionale si va facendo sempre più fosco e minaccioso.
La pazienza e la capacità di sacrificio dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani disoccupati, sono grandi, ma non infinite, né possono durare in eterno.
Stiano attenti questi manager strapagati, ma che sanno solo pensare vecchio; stiano attenti questi politici abbarbicati alle loro poltrone, ai loro privilegi e alle loro immunità: non si può tirare la corda illimitatamente. Prima o poi si spezza.
Il presidente tunisino Ben Alì è stato costretto a fuggire ignominiosamente, sotto l’incalzare di una irrefrenabile protesta popolare.
Anche Craxi, che - insieme ad Andreotti - lo aveva pilotato al potere in sostituzione di Bourghiba, era stato costretto a fuggire ignominiosamente, egli pure travolto da un’ondata di sdegno popolare verso gli abusi e l’arroganza della Casta.
Ma forse è vero che la storia non insegna mai niente a nessuno e che Dio rende ciechi coloro i quali ha deciso di perdere…