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C’è un mistero, nella malattia, che non vuole essere spiegato, ma accettato

di Francesco Lamendola - 23/01/2011



Perché quell’uomo è stato colpito da un tumore? Stava bene; conduceva una vita regolata; era ancora giovane e pieno di energia: perché, dunque, proprio lui?
E perché quella donna è stata colpita dalla depressione? E perché la sua depressione ha preso quella particolare forma ossessiva, apparentemente inspiegabile? 
Il medico nel primo caso, lo psichiatra nel secondo, si affrettano a curare: il primo proponendo la chemioterapia, il secondo prescrivendo al proprio paziente tutta una serie di psicofarmaci e di sedute psichiatriche.
Non si domandano perché la malattia abbia colpito quelle persone; e, in un certo senso, hanno ragione a fare così. «In un certo senso»: perché, di norma, il loro atteggiamento non scaturisce da una profonda consapevolezza del mistero della malattia, ma dalla smania di agire, di manipolare senza riflettere adeguatamente, tipica della società moderna.
In effetti, però, è proprio così: l’origine della malattie che ci colpiscono è, in gran parte, misteriosa: proviene da un mistero che nessun Logos logico-matematico potrà mai sondare sino alla radice e tanto meno spiegare in termini razionali.
Dire che la malattia è una conseguenza del nostro stile di vita è una verità solo parziale, moralistica e insoddisfacente: perché vediamo persone che abusano del fumo e dell’alcool, eppure campano a lungo e sostanzialmente in buona salute; mentre altre, che hanno ogni i riguardo nei confronti di se stesse, si ammalano improvvisamente, senza un perché.
Vi sono perfino dei bambini che vengono colpiti da forme tumorali maligne, e non sappiamo perché: di certo, non per aver condotto uno stile di vita disordinato. Con questo non vogliamo dire che non si debbano evitare gli eccessi e che non significhi nulla condurre una vita sobria e morigerata; vogliamo solo dire che ciò non garantisce la salute, per il semplice fatto che niente e nessuno può offrire delle vere garanzie in questo campo.
Certo, vi sono dei casi nei quali crediamo di vedere un nesso molto preciso tra lo stile di vita e l’insorgenza della malattia. Ad esempio, se un accanito fumatore viene colpito da un cancro ai polmoni, pensiamo che sia stato questo a causare la malattia; e se una persona che ha subito una grossa delusione affettiva o professionale o un improvviso, catastrofico tracollo finanziario, piomba nella depressione, crediamo di sapere che ciò è la conseguenza di quelle vicende.
Ma è proprio vero?
Ogni giorno noi siamo esposti al contatto con milioni e milioni di microbi: le maniglie delle porte che apriamo, il denaro che tiriamo fuori dal portafoglio per pagare, i locali in cui entriamo e nei quali, magari, qualcuno sta tossendo o stranutendo: ovunque i microbi sono in agguato, pronti ad aggredirci. Eppure, normalmente, i nostri anticorpi li bloccano e li neutralizzano prima che possano intaccare il nostro organismo: le difese immunitarie ergono fra noi e loro una barriera pressoché insormontabile. 
Ma ecco che, a un certo punto, i virus e i batteri riescono a trovare una varco nelle nostre difese immunitarie, temporaneamente rilassate; e subito penetrano nel nostro organismo, provocando l’insorgenza della malattia. Che cosa è successo? E perché è successo proprio in quel momento e non in un altro? E perché quel virus o quel batterio hanno colpito proprio noi e non il nostro vicino di tavolo, il nostro compagno d stanza, uno dei nostri familiari?
Si dirà che la causa è stata un calo del nostro tono vitale, che ha indebolito l’azione degli anticorpi: ma si tratta realmente di una spiegazione? Quante altre volte ci siamo trovati in situazioni analoghe, eppure non ci siamo ammalati? Perché dunque è successo proprio in quel momento, e non prima né dopo?
Quando non sappiamo che cosa rispondere, invece di riconoscere la nostra ignoranza ci inventiamo dei nomi che dovrebbero spiegare tutto; ma, a ben guardare, non spiegano assolutamente niente. Ad esempio, di una persona che è caduta in preda a gravissimi disturbi della mente, diciamo che è impazzita: come se questo ci permettesse di sapere qualcosa più di ciò che sapevamo prima, ossia niente di niente. “Pazzo”, infatti, suona quasi come uno scongiuro: se uno è pazzo, che senso ha domandarsi cosa sia la sua pazzia? La pazzia, si sa, non ha logica.
E la stessa cosa facciamo anche in altri ambiti, di fronte ai misteri della natura. Prendiamo, ad esempio, le migrazioni degli uccelli. Nessuno sa esattamente come avvengano; nessuno sa come gli uccelli mantengano la giusta direzione di giorno e di notte, con il sole e con la nebbia, continuando a volare perfino mentre stanno dormendo: eppure è così. 
Sappiamo, anzi, di casi documentati di cani che sono tornati in cerca della casa e del padrone lontani e hanno percorso distanze immense, fino a ritrovare la giusta destinazione: come hanno fatto? Non lo sappiamo; e allora, per coprire la nostra ignoranza, invece di confessarla apertamente, ci siamo inventati la parola “istinto”. È stato l’istinto, si afferma; come se questa espressione, di per sé, dovesse sciogliere ogni dubbio, chiarire ogni interrogativo: ma che cosa vuol dire? Ne sappiamo esattamente quanto prima: cioè meno di niente. 
La verità è che non sappiamo perché ci si ammala; non sappiamo perché, a un certo punto, le cellule del nostro organismo impazziscono e incominciano a riprodursi con folle progressione; né sappiamo perché, a un certo punto, una persona che conduceva una vita sana e normale, piomba in preda alle ossessioni più strane, è terrorizzata dagli ambienti chiusi o dagli spazi aperti, teme la bomba atomica oppure la caduta di un meteorite: e nessun ragionamento, nessuna medicina sembrano giovargli.
È come se in tali persone, più o meno improvvisamente, si fosse spezzata la volontà di vivere, di lottare, di dare un senso alle cose; è come se una forza oscura e gigantesca le avesse afferrate, sbattendole come fuscelli e svuotandole di ogni energia vitale, di tutto ciò che rende bello o, almeno, interessante, il fatto di essere al mondo. È come se un sortilegio fosse caduto su di loro, della cui origine nulla sappiamo e nulla mai sapremo.
Chi può dire che cosa stia accadendo nelle cellule del loro corpo, che cosa stia accadendo negli abissi della loro mente sconvolta? Un muro si è alzato fra loro e noi; un muro di incomunicabilità e di estraneità, che le rende, per noi e per se stesse, simili a degli alieni. «Non si sa come, ma accade», potremmo dire, parafrasando il titolo di un dramma di Luigi Pirandello.
Un mistero, dunque, è la malattia: un mistero nel più grande mistero della vita, del nostro esserci, del nostro perenne e incessante interrogarci.
D’altra parte, il fatto di accettare l’origine misteriosa della malattia e, quindi, della sofferenza che essa porta nelle nostre vite, non significa che ci si debba rassegnare alla sua signoria, o, peggio, a credere nella sua assurdità, alla sua mancanza di senso.
La malattia ha sempre un senso, perché nulla viene dal caso e tanto meno la malattia, un elemento che viene a incidere così profondamente nel tessuto delle nostre vite. 
Una cosa è il senso e una cosa è la causa.
La causa ultima è al di là della nostra comprensione; ma il senso, nelle linee generali, è abbastanza chiaro: porci davanti alla serietà della vita, richiamare la nostra attenzione su ciò che è essenziale, distogliendoci dal superfluo.
Dobbiamo imparare ad accettare ciò che è più grande di noi, deponendo tutta la nostra boria scientista; dobbiamo imparare ad accettare la malattia, così come, del resto, facevano i nostri bisnonni e i nostri antenati: persone tanto più semplici di noi, tanto più illetterate, ma tanto più profondamente sagge.
Tuttavia, si badi: accettare il mistero della malattia non significa né che ci si debba arrendere ad essa, né che ci si debba rassegnare al male. Al contrario, bisogna lottare e bisogna rifiutare il male: ma la sofferenza, quando diventa inevitabile, allora va accettata anch’essa, accettata ed ascoltata: perché certamente ha qualcosa da dirci.
Non ci si ammala per caso e non si soffre senza un significato.
L’uomo moderno non vorrebbe soffrire mai; vorrebbe scacciare la sofferenza con ogni mezzo, perché ritiene di avere il “diritto” alla felicità. Si sbaglia, e di molto: la vita non riconosce alcun diritto del genere; semmai, essa darà in premio la felicità a colui che avrà saputo rispondere degnamente alla chiamata e avrà svolto con onore il proprio compito, verso gli altri e verso se stesso.
Fino a quando è possibile allontanare il calice della malattia e della sofferenza, è giusto farlo o tentare di farlo, perché noi siamo stati fatti per la vita e non per la morte. Ma quando la malattia persiste e la sofferenza diventa cronica, allora dobbiamo ascoltarla e interrogarla, ed essa ci risponderà e ci aiuterà a trovare il modo di sopportarla.
Lo stesso mistero riguarda i casi nei quali si manifesta il Male per eccellenza, vale a dire quelli di possessione diabolica. Poco importa se la scienza ufficiale non vi crede: questo è un suo problema; ma essi esistono, anche se sono relativamente rari. Non si sa perché il Diavolo scelga una certa vittima piuttosto che un’altra: è un mistero. 
In certi casi vi è stato un invito nei suoi confronti, ad esempio nel corso di messe sataniche e operazioni di magia nera; ma in altri casi non vi è stato nulla del genere. Perfino dei bambini possono essere oggetto di possessione, come nel celebre caso dei fratellini di Illfurt; alcuni casi riferiti da padre Gabriele Amorth sono particolarmente impressionanti e la loro evidenza si impone al di là di qualsiasi ragionevole dubbio. 
Ricordiamo quel passo del Vangelo di Giovanni (9, 1-3): «Camminando, Gesù passò accanto a un uomo che era cieco fin dalla nascita.  I discepoli chiesero a Gesù: “Maestro, se quest’uomo è nato cieco, di chi è la colpa? Sua o dei suoi genitori?”. Gesù rispose: “Non ne hanno colpa né lui né i suoi genitori, ma è così perché in lui si possano manifestare le opere di Dio”.» 
Più in generale, la malattia e la sofferenza che colpiscono i bambini costituiscono un arduo problema teologico all’interno del più vasto mistero di cui stiamo trattando. Si potrebbe obiettare che, se la malattia è una forma di linguaggio che cerca di comunicare qualcosa a chi ne è colpito, ciò non è ammissibile quando si tratta di un fanciullo di pochi anni. 
Tuttavia, a parte il fatto che noi crediamo di sapere fin nei minimi particolari come funzioni la mente di un bambino, mentre invece ne sappiamo pochissimo e, in genere, tendiamo a sottovalutarne le potenzialità, bisognerebbe considerare se, in quei casi, il messaggio non sia diretto proprio ai genitori e, in una certa misura, agli adulti che ne vengono coinvolti, a cominciare dai medici e dagli psicologi. 
Un’altra obiezione potrebbe essere che, in un messaggio, oltre al codice di cui si serve, deve esistere necessariamente un emittente, cioè qualcuno che lo abbia concepito ed inviato; a meno che si sia adoperata la parola “messaggio” nel senso più generico ed improprio. A questa obiezione si può rispondere che l’emittente varia da caso a caso: molte volte è il soggetto che invia il messaggio a se stesso, come nel caso del corpo che si ribella a determinate situazioni, oppure la mente che protesta per aver subito repressioni e fallimenti che la coscienza esita a riconoscere. 
D’altra parte, non è detto che l’emittente sia sempre chiaramente riconoscibile: noi possiamo ricevere una lettera o una telefonata da un perfetto sconosciuto, ma non possiamo dubitare di aver ricevuto un messaggio. Vi sono molte più cose fra la terra e il cielo di quante ne possa sognare tutta la nostra filosofia, dice Amleto ad Orazio. 
Quando, dunque, la malattia bussa alla nostra porta, il nostro atteggiamento dovrebbe essere duplice: di lotta contro di essa, nella misura del possibile (ma non dell’impossibile, come avviene nei casi di accanimento terapeutico), però, al tempo stesso, anche di attenzione, di ascolto e, in un certo senso, di accoglienza. Per poter ascoltare qualcuno, bisogna accoglierlo: poi decideremo che cosa fare delle sue parole. 
Facciamo un esempio banale: il mal di testa. L’istinto sarebbe quello di volerlo respingere, di non volerlo ascoltare: si prende un’aspirina e così lo si manda via. È un atteggiamento legittimo, ma forse non è quello giusto. Forse, se ci si prende la briga di accogliere quel mal di testa e di ascoltarlo con attenzione, concentrando la mente su di esso, dopo aver superato una fase di intensa sofferenza, esso se ne sarà andato, sarà scomparso, perché avrà “visto” che noi non abbiamo avuto paura di lui. Spesso la malattia si accanisce sui deboli che tentano di sfuggirla, li insegue e li perseguita; ma toglie il campo quando viene affrontata a viso aperto. 
Non esistono regole di carattere generale, comunque; ogni caso ha la sua ragion d’essere, ogni persona fa le proprie scelte. Vi sono persone che, pur imbottendosi di medicine, in realtà non credono alla propria guarigione e, in fondo, non vogliono realmente guarire: vogliono continuare a punirsi e si rotolano nella propria sofferenza, anche se, a parole, affermano che farebbero qualsiasi cosa pur di liberasene. 
Anche questo è un mistero. Si può amare in segreto la propria malattia, così come si può amare in segreto il proprio sequestratore, il proprio torturatore, il proprio carnefice. 
Quante cose non sappiamo, che crediamo di sapere…