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Gyula Gömbös non fu nazista né antisemita, semmai un nazionalista progressista

di Francesco Lamendola - 25/01/2011





«Di tendenze totalitarie e antisemite», lo definisce l’«Enciclopedia Europea» della Garzanti; «antisemita paranoico, propugnatore di confuse e generiche idee fasciste» è qualificato sul sito Internet «Olokaustos».
Chi era in realtà Gyula Gömbös, figura di spicco nell’Ungheria tra le due guerre mondiali: un fanatico reazionario e antisemita, come lo descrive la Vulgata democratica e filo-israeliana; oppure un rigido, ma onesto patriota, un nazionalista per niente antisemita e per niente reazionario, anzi, semmai, a suo modo progressista, e per ciò detestato dall’ala più conservatrice della destra magiara, che lo considerava troppo di sinistra?
Sappiamo, e l’abbiamo già osservato più volte, che la storia della Mitteleuropa fra le due guerre mondiali è tutta da riscrivere; e, in particolare, lo è quella dei Paesi successori dell’Austria-Ungheria; i quali, essendo caduti, nel 1945, sotto il tallone sovietico, solo da un ventennio possono coltivare in maniera seria e obiettiva il proprio recente passato.
Prima di bollare come “fascisti” o, magari, “nazisti” gli uomini politici polacchi, ungheresi, romeni, paragonandoli sempre alla “democratica” Cecoslovacchia di Masaryk, bisognerebbe ricordarsi che il loro dramma fu quello di doversi barcamenare fra il risorgente colosso germanico e quello sovietico, erede dello zarista; che la loro vita fu agitata da incessanti crisi economiche, debolezze strutturali e rivalità irredentistiche, diretta conseguenza dell’assurdo assetto geopolitico stabilito a Versailles; che la Francia, dopo aver seminato discordia fra essi ed aver aizzato la Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia) contro l’Ungheria, l’Austria e, in prospettiva, l’Italia, quando i nodi vennero al pettine con l’ascesa al potere di Hitler, li scaricò nel modo più cinico e, illudendosi circa l’inespugnabilità della Linea Maginot, lasciò campo libero a Hitler e Stalin per spartirsi lo spazio europeo centro-orientale.
Fra parentesi, fu ben questa la causa occasionale dello scoppio della seconda guerra mondiale: allorché l’Inghilterra rilasciò una cambiale in bianco al governo polacco per spingerlo all’intransigenza sulla questione di Danzica; e la Francia, a suo tempo fautrice di una Grande Polonia in funzione sia antitedesca che antisovietica, si associò a quella mossa sconsiderata che, dopo la firma del patto Molotov-Ribbentrop, non poteva significare che la guerra: con quali prospettive per la Polonia, presa fra l’incudine nazista e il martello staliniano, non occorreva essere dei geni militari per capirlo.
Come nel caso del romeno Mihai Antonescu, del quale ci siamo già occupati (cfr. l’articolo «Ma il mondo nel 1945 non ha reso giustizia al dramma politico e umano di Mihai Antonescu», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 22/07/2010), anche per l’ungherese Gyula Gömbös i giudizi storici sono stati frettolosi, schematici, brutali, ispirati da un vieto pregiudizio ideologico invece che da un reale desiderio di verità storica.
Egli era nato a Murga, presso Tolna, nel 1886 e morì in un clinica di Monaco di Baviera, a causa di una grave malattia renale, nel 1936.
Aveva servito come ufficiale nell’esercito austro-ungarico durante la prima guerra mondiale e si era battuto contro il governo sovietico instaurato, per circa tre mesi, dall’ebreo magiaro Béla Kun, nel 1919.
A quell’epoca aveva ricoperto la carica di sottosegretario nel governo di Szeged, che si opponeva, appunto, alle forze comuniste; indi, nel 1923, aveva fondato il Partito dell’Indipendenza nazionale, che poi, nel 1928, si fuse con il Partito dell’Unità Nazionale, fondato nel 1919 dal conte István Bethlen (destinato a spegnersi in un carcere sovietico nel 1946).
Prestigiosa figura di militare e di patriota, Gömbös aveva diretto il Ministero della Guerra sia nel gabinetto Bethlen (1929), sia in quello di Gyula Károlyi (1931), da non confondersi con il più noto Mihály Karoly, all’epoca in esilio.
Nel 1932 il reggente Horty, con il quale aveva collaborato fin dal 1919 e che aveva aiutato a sventare il tentativo di restaurazione di Carlo d’Asburgo, lo nominò primo ministro al posto dello stesso Gyula Karolyi. Questa altissima responsabilità segnò l’ultimo quadriennio della sua vita e il periodo più incisivo della sua azione politica.
Gyula Gömbös desiderava, come tutti i suoi connazionali, dal politico più accesamente nazionalista fino all’ultimo uomo della strada, la revisione dell’iniquo Trattato del Trianon, che aveva decurtato di due terzi il territorio dello Stato ungherese; ma, ostacolato con ogni mezzo dai governi della Piccola Intesa, si rivolse, com’era logico, là dove solo avrebbe potuto sperare di trovare ascolto: presso l’Italia di Mussolini e, dopo il 1933, presso la Germania di Hitler.
Non è esatto affermare che egli fosse un simpatizzante di Hitler; anche la circostanza, continuamente citata dai suoi detrattori, che egli fu il primo capo di governo europeo a recarsi in Germania per felicitarsi con il Führer della sua vittoria elettorale, non ha il significato che, tendenziosamente, gli si vorrebbe attribuire, bensì esprime la sua legittima preoccupazione di sondare le intenzioni del neocancelliere tedesco, specie riguardo al problema dell’Austria e della sua eventuale annessione al Terzo Reich.
Come i suoi predecessori, Gömbös era un convinto fautore di uno stretto legame doganale, commerciale e politico con l’Italia e con l’Austria, contro le tendenze naziste all’”Anschluss”; pensava che solo così avrebbe potuto contrastare la Piccola Intesa e perseguire il recupero delle province perdute nel 1919: Slovacchia, Transilvania e Croazia.
Tale azione diplomatica sarebbe culminata nel cosiddetto protocollo di Roma del 17 marzo 1934, sottoscritto da Mussolini, Dollfuss e dallo stesso Gömbös, con il quale i tre uomini di governo si impegnavano a coordinare le rispettive politiche estere. Secondo lo storico inglese Gordon Brook-Sheperd (in: «L’Anschluss», 1963, trad. ital. Milano, Mondadori, 1966, pp. 22-23), «con questo atto Mussolini, allora all’apice del suo potere, si dichiarava patrono e protettore dell’Austria e dell’Ungheria e tracciava le rivendicazioni a lunga scadenza dell’Italia per l’influenza nel bacino danubiano, di contro alle pressioni già esercitate in questo delicato settore dalla Francia e dalla Germania».
Se poi le cose andarono diversamente, ciò fu dovuto alla mutata politica estera italiana che, dopo la guerra d’Etiopia e le sanzioni da parte della Società delle Nazioni, si riavvicinò alla Germania, fino al punto da lasciarle mano libera in Austria e consentire ad Hitler quell’Anschluss che, ancora nel 1934, all’epoca del colpo di stato nazista contro Dollfuss, Mussolini aveva sventato, inviando in tutta fretta alcune divisioni al confine del Brennero e di Tarvisio.
Gömbös, dunque, non era affatto un nazista, né un simpatizzante del nazismo; a rigore, non lo si dovrebbe definire nemmeno filofascista, perché, per lui, l’alleanza strategica con Mussolini era una necessità vitale e non una forma di infatuazione ideologica.
Non è nemmeno vero che egli fosse un antisemita; non nel senso - questo è il punto - che si dà comunemente a questo termine nella cultura liberaldemocratica odierna; a meno di definire antisemiti, più o meno convinti e più o meno feroci, uomini politici come Jozef Pilsudski in Polonia, Ion Antonescu in Romania o Josef Tiso in Slovacchia.
Il fatto è che il problema ebraico esisteva ed era molto sentito in ciascuno di questi Paesi, ove le comunità giudaiche formavano delle minoranze alquanto influenti e, sovente, malviste dalla popolazione, che le incolpava, a torto o a ragione, di dominare l’economia e specialmente le finanze e il commercio, con riflessi negativi per la vita nazionale nel suo complesso. È stato calcolato, per fare solo un esempio, che nella Slovacchia di monsignor Tiso, divenuta Stato indipendente nel 1939 (ma sotto la protezione del Terzo Reich, che l’aveva salvata dall’invasione ceca), gli Ebrei detenevano qualcosa come il 40% del patrimonio nazionale, sebbene costituissero non più del 4% della popolazione.
Gömbös, del resto, rinunciò ufficialmente all’ideologia antisemita, su richiesta del reggente Horty, nell’ottobre del 1932, al momento di accettare l’incarico di Primo ministro.
Quanto alla politica interna, pur essendo vicino a un’ideologia di tipo totalitario (cosa che, nell’Europa del tempo, era la regola, mentre la democrazia di Masaryk era l’eccezione: democrazia che non esitava ad opprimere alcuni milioni di cittadini allogeni, tra i quali tre milioni e mezzi di Sudeti), non corrisponde a verità definirlo un reazionario.
Al contrario, erano molti, negli ambienti della destra ungherese, a giudicarlo fin troppo progressista. Lo si potrebbe definire, piuttosto, un radicale di destra: la riforma sociale fu, come osserva lo storico Stanley G. Payne (che pure propende a classificarlo tra i “fascisti”), un punto cruciale del suo programma politico, con la legislazione che fissava rispettivamente la giornata lavorativa di otto ore  e la settimana di quarantotto. Non altrettanto incisiva risultò invece la sua riforma agraria; ma qui bisogna tener conto delle fortissime resistenze opposte dalla classe aristocratica, proprietaria da secoli di vastissimi latifondi.
Un uomo politico italiano che lo vide da vicino e ne ebbe una conoscenza di prima mano fu il triestino Fulvio Suvich, che fu sottosegretario italiano agli Affari Esteri dal 1932 al 1936 (con Mussolini in qualità di ministro “ad interim”) e che, per ragioni professionali, lo conobbe personalmente ed ebbe modo di incontrarlo più volte e di valutarne a fondo la personalità e il disegno politico.
Ed ecco come lo descrive Fulvio Suvich nel suo libro di ricordi («Memorie, 1932-1936», a cura di Gianfranco Bianchi, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 98-101):

«Ho letto da qualche parte che Gömbös, che già da tempo era attivo nella politica ungherese, era conservatore e antisemita; credo che non lo fosse, né l’uno né l’altro. In politica interna, se mai, era più avanzato degli uomini del’antica classe nobile nei quali c’era ancora qualcosa di un feudalesimo paternalistico (una posizione del tutto particolare è quella del conto Miháhly Károlyi, che per ragioni non chiare si era gettato a un sinistrismo spinto). Si poteva forse qualificarlo un progressista; aveva uno spirito militare spiccatissimo, ma aveva anche delle indubbie qualità da uomo di Stato, con un carattere forte e deciso e, come tale, era poco gradito alla Piccola Intesa; il suo tratto ispirava simpatia per la evidente franchezza e, anche se nel tono era militaresco, risentiva ella tradizione cavalleresca ungherese.
La sua nomina tuttavia non era stata accolta con troppa simpatia dal Ministero [quello italiano degli Affari Esteri, n. b.]  ed aveva anzi destato qualche preoccupazione e diffidenza, perché Gömbös  era, e non lo nascondeva, un ammiratore dei tedeschi; tale preoccupazione, sopita per il momento dopo dichiarazioni tranquillanti di Gömbös, si era ridestata più tardi, quando aveva nominato ne gennaio 1933  il suo uomo di fiducia e vecchio diplomatico Kánya ministro degli Esteri in sostituzione di Puky; Kánya ci era stato descritto come filotedesco e poco benevolo per gli italiani, tanto che io avevo fatto un tentativo, con un telegramma a Budapest, di farlo silurare, ma senza risultato. Dal comportamento successivo di Kánya la nostra diffidenza non è apparsa giustificata, anche se qualche ombra è sempre rimasta.
Sempre a proposito di tali sue presunte tendenze, Gömbös , in uno dei primi incontri avuti con lui, mi disse: “Io sono amico de tedeschi al di là della Leiha [il fiume che divide l’Austria dall’Ungheria] e loro nemico al di qua”.  Era, credo, una frase che risaliva ai temi della Monarchia austro-ungarica, quando i magiari, pur essendo legati all’Austria nel duplice Stato, non volevano sentir parlare tedesco a casa loro e non rispondevano, o rispondevano di mal garbo, a chi indirizzasse  loro la parola in quella lingua: parlo per esperienza della mia gioventù durante una mia permanenza in Ungheria. Comunque, come opposizione alla politica germanica, la dichiarazione di Gömbös  non voleva diore gran che.
Anche Kánya, in una conversazione avuta con lui alla Legazione di Ungheria a Roma, mi aveva detto che sapeva di essere preceduto dalla fama di amico della Germania nazista, ma mi aveva assicurato di essere convinto della giustezza della nostra politica e che l’accettava in pieno, compreso l’atteggiamento di opposizione alla politica nazista come conseguenza della difesa dell’Austria.
Se Gömbös aveva potuto conservare qualche speranza che un avvicinamento alla Germania lo avrebbe potuto aiutare nella sua contesa con i Paesi della Piccola Intesa, che erano sempre sul chi vive contro ‘Ungheria, si era dovuto persuadere ben presto che ambiguità non potevano essere ammesse: o con la Germania anschlussista, con l’Italia e con l’Austria nella difesa della sua indipendenza; lealmente aveva accettato quest’ultima posizione; del resto, penso fosse persuaso che l’Ansclus non era nella convenienza dell’Ungheria, soprattutto dal lato politico, perché la fierezza ungherese non accettava vassallaggi, ciò che sarebbe stata una conseguenza di una estensione tedesca fino alla Leitha.
Anche il tono dei rapporti con l’Italia non si è allontanato mai da quello generale dei rapporti fra Stato sovrani. Consigli venivano accettati, e alle volte richiesti; ma non più di ciò,.
Però Gömbös  aveva coltivato l’illusione - e ciò non parla a favore della sua perspicacia - che, ad onta delle posizioni antitetiche, si sarebbero potuti persuadere i tedeschi ad appoggiare la politica di Dollfuss; a tal fine aveva inviato alla fine di marzio 1933 un messaggio a Hitler (non era ancora al potere)  e aveva anche fatto un viaggio a Berlino nel giugno dello stesso anno; credo abbia sempre accarezzato l’idea della possibilità di un accordo a quattro: Germania, Italia, Austria, Ungheria; però nei fatti ha seguito la politica nostra di esclusione della Germania dall’accordo. Anche Mussolini ha accennato alle volte a un accordo a quattro, ma egli per ragion i tattiche - non ci ha mai pensato seriamente.
Anche Kánya, animato dalle stesse illusioni, aveva inviato un messaggio a von Papen che fu portato a conoscenza di Hitler, il quale ultimo in tale occasione ha affermato che non farà nulla per l’Anschluss, ma combatterà contro ciò che potrebbe portare pregiudizio allo stesso.
Mentre però per Gömbös ci affidavamo alla sua lealtà, per Kánya, forse a torto, siamo stati su un piede di diffidenza permanendo quelle ombre di cui ho parlato sopra.
Gömbös, chiamato al governo del suo Paese il 19 settembre, non aveva perduto tempo, e a metà novembre era già a Roma in visita a Mussolini.
In un colloquio avuto con il Capo del Governo il giorno 10 novembre, al quale ho assistito, fece un’esposizione riassuntiva del suo programma.
In tale colloquio Gömbös  anzitutto volle mettere in luce l’identità di vedute fra il reggente Horthy, il conte Bethlen, suo predecessore, e lui, per dare l’idea della continuità della politica ungherese.
Il reggente aveva affidato a lui il Governo per galvanizzare lo spirito pubblico.  Riteneva la situazione politicamente buona:  intendeva fare alcune riforme di tipo italiano, come per esempio la Carta del lavoro: doveva preoccuparsi delle questioni economiche e soprattutto della condizione dei contadini. Contava per migliorare la situazione economica sui un più intenso scambio commerciale con l’Italia; nel problema del latifondo avrebbe agito con energia per meglio mettere in valore l’agricoltura ed evitare l’emigrazione.
Ha dovuto intervenire per migliorare la situazione finanziaria esigendo energicamente un più severo introito delle imposte e per introdurre delle economie: ha ridotto drasticamente le spese statali.
Nel campo militare ha sostituito l’esercito mercenario, previsto dal Trattato, con la coscrizione. Francia e Piccola Intesa hanno saputo, ma non hanno dato fastidi.
Per ora non si pone la questione monarchica: il reggente è perfettamente a posto e gode di popolarità.
Venendo a parlare dell’Austria […] Gömbös  non vede il futuro della politica dell’Austria che in un accordo più stretto con l’Italia e l’Ungheria.
Egli è fautore di una unione doganale fra Italia, Austria e Ungheria; ne ha parlato al cancelliere che sarebbe d’accordo, ma vorrebbe evitare la forma dello Zollverein, che certamente gli creerebbe dei fastidi nel campo internazionale: preferirebbe l’allargamento degli accordi del Semmering che porterebbero allo stesso risultato.
Di Hitler Gömbös pensa che sia un tribuno, ma non uomo di Stato […].

Gömbös  è poi molto interessato ai movimento di indipendenza croata e crede che Pavelic agisca seriamente: la situazione in Jugoslavia è molto delicata anche nel campo militare per antagonismi e beghe nel seno delle organizzazioni militari fra le diverse nazionalità; non esclude che la Jugoslavia per diversivo possa ricorrere a una guerra.
Era un puntctum dolens per Gömbös la Croazia, che per nove secoli aveva fatto parte dell’Ungheria…»

Da questo ritratto non emerge per nulla l’immagine di un uomo politico paranoico, filonazista e neppure filofascista; ma, semmai, quello di un patriota vecchi stampo, di un progressista di destra, espressione che probabilmente non esiste nel vocabolario del politicamente corretto, dato che si dà per scontato che il progressismo sia solo e unicamente una merce di sinistra.
Lo studio dei regimi e degli uomini politici dell’Europa centro-orientale, tra la prima e la seconda guerra mondiale, presenta un particolare interesse per noi, oggi, poiché infrange il tabù ideologico della dicotomia e dell’alternativa secca fra destra e sinistra: in essi, infatti, si trova spesso una singolare mescolanza di elementi che siamo abituati a considerare di destra, come il nazionalismo,  e di altri che siamo soliti classificare di sinistra, come il progressismo.
Del resto, se la nostra storiografia e la nostra riflessione politica fossero state intellettualmente più oneste, già da un pezzo ci saremmo accorti, negli ultimi sessant’anni, che tale compresenza era già stata evidente in fatti e situazioni di casa nostra della prima metà del XX secolo: e non alludiamo solo al Fascismo, specialmente il Fascismo delle origini - quello, per intenderci, di Piazza San Sepolcro - ma anche al futurismo, all’interventismo, all’arditismo e all’esperienza fiumana dei legionari di D’Annunzio; per non dire della Repubblica di Salò, che non fu solo uno Stato fantoccio al servizio dei Tedeschi, ma anche il tentativo di riprendere la linea sociale del fascismo di sinistra, insabbiatasi durante il Ventennio per i numerosi compromessi del regime.
Possibile, ad esempio, che la nutrita presenza di sindacalisti rivoluzionari, anarchici, democratici e mazziniani nell’interventismo del 1914-15 non abbia insegnato niente in proposito?
Possibile che la Carta del Carnaro (scritta da Alceste De Ambris!) non abbia fatto sorgere qualche interrogativo di più ampia portata?
Possibile che il fatto che il fascismo sia andato a prendere il proprio Duce dalle file dell’estrema sinistra socialista, sia stato considerato poco più che una specie di curiosità?
No, così non va: troppo poca onestà intellettuale ha caratterizzato la riflessione storiografica su quelle vicende e su quegli anni. Dimenticando - fra l’altro - il patto Molotov-Ribbentrop, si è voluto dipingere la storia d’Europa, ieri come oggi, in termini di netto chiaroscuro: da una parte le forze cui la Storia ha dato ragione (la liberaldemocrazia e, fino al 1989, il comunismo); dall’altra, quelle cui la storia ha dato torto (il fascismo e il nazismo). «Tertium non datur».
È a causa di questa ipocrisia, di questa mistificazione, che il passato non passa, non vuole mai passare; e noi restiamo prigionieri dei suoi fantasmi e dei suoi incubi.
Altri Paesi, che hanno sofferto anche più del nostro, hanno saputo fare i conti con il proprio passato e ne sono usciti purificati, più uniti di prima; si pensi alla Germania, che visse sulla propria carne il dramma della divisione e della guerra fredda, con la capitale occupata addirittura da quattro eserciti stranieri.
Bisogna dire, però, che non solo la storiografia italiana, ma anche - e sia pure in misura minore - quella di numerosi altri Paesi, non è stata ancora capace di confrontarsi serenamente con il dramma della Mitteleuropa fra il 1919 e il 1939.
E, fino a quando ciò non avverrà, non sarà neanche possibile valutare serenamente, «sine ira et studio», figure come quella di Gyula Gömbös.
Peccato: perché dallo studio del passato c’è sempre qualcosa da imparare per il presente.