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Palestinian paper

di Roberto Zavaglia - 30/01/2011

Pur seguendo con una certa attenzione la questione, ammettiamo di non avere compreso se i cosiddetti colloqui di pace israelo-palestinesi siano, attualmente, in corso, se attraversino una delle tante fasi di “sospensione” o se abbiano subito un’interruzione “definitiva”. Laddove con tale  definizione si intende un’apparente rottura, fino a che Washington convince le parti a riprendere la commedia. L’ultimo negoziato di pace di cui ci ricordiamo, in era Obama, era quello annunciato dal segretario di Stato Usa con grande sicurezza. “Risolveremo entro un anno la questione palestinese”, aveva detto la Clinton. Dopo le strette di mano di rito, non c’è stato invece alcun progresso, al punto che è difficile rintracciare notizie sulla “trattativa”.

  Mentre mezzo Medio Oriente -dall’Algeria allo Yemen, passando per Tunisia, Egitto e Libano- è nel vortice di rivolte e di convulsi mutamenti politici dall’esito ancora incerto, in Palestina la situazione è immobile. A risvegliare l’attenzione sulla Terra Santa è però la pubblicazione dei cosiddetti Palestinian papers. Si tratta di 1.700 documenti segreti sui rapporti tra l’Autorità nazionale palestinese, Israele e gli Stati Uniti, in un arco di tempo dal 1999 al 2010, che la televisione “Al Jazeera” e il quotidiano britannico “Guardian” stanno rendendo noti. Se, come sembra, i documenti dovessero rivelarsi autentici, saremmo di fronte a notizie molto imbarazzanti per i soggetti coinvolti, in particolare per l’Anp. Abu Mazen e i suoi collaboratori vi appaiono come persone disposte ad ogni compromesso con il governo israeliano, pur di accreditarsi come gli unici negoziatori  possibili e di mantenere il proprio potere e i cospicui finanziamenti provenienti dagli Usa e dall’Europa.

  Sui giornali italiani si è parlato poco di queste rivelazioni. Si è discusso di più del libro “Lettera a un amico antisionista” dell’ex vicedirettore del Corriere della Sera Pierluigi Battista. Il fecondo editorialista del quotidiano di via Solferino sostiene che ci sia, in Occidente, “un furore unidirezionale che separa emotivamente ciò che riguarda Israele da ciò che accade nel resto del mondo”. Per violazioni del diritto, anche lievi, da parte dello Stato ebraico si scatenerebbe l’indignazione di intellettuali e giornalisti che, invece, si mostrerebbero disattenti riguardo a ben più gravi crimini di Stato compiuti altrove. A giudicare dall’attenzione che il suo giornale ha dedicato ai Palestinian papers sembra difficile dare ragione a Battista… 

  Non ci sono novità sconvolgenti in questi documenti per chi, in questi anni, abbia saputo interpretare gli avvenimenti senza farsi condizionare dalla propaganda “dell’unica democrazia del Medio Oriente”. I colloqui svelati, le dichiarazioni lontano dai microfoni e i commenti riservati confermano quel che si intuiva: Israele finge di trattare, l’Anp vuole solo giustificare la propria esistenza e gli statunitensi si prestano al gioco. A uscirne massacrata è la casta politica palestinese del dopo Arafat. Che Abu Mazen non fosse un rappresentante credibile del suo popolo era noto, ma verificare, in documenti ufficiali, il grado di sottomissione verso Israele a cui è giunto fa impressione. E, presumibilmente, lo farà ancora di più all’opinione pubblica palestinese.

  Per mostrare l’ arrendevolezza dell’Anp, si può citare la questione del futuro status della capitale contesa. Saeb Erekat non esita a concede ai suoi interlocutori israeliani “la più grande Gerusalemme della storia”, riconoscendo allo Stato ebraico tutti gli insediamenti illegali nella zona Est della città. Sulla questione dei profughi –il cui diritto al ritorno, lo ricordiamo, è sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu- lo stesso negoziatore dichiara di accontentarsi di “una cifra simbolica”: mille rientri all’anno per dieci anni. Sui soldi l’Anp è intransigente, in particolare su quelli che Usa e Gran Bretagna, insieme alle armi, le passano per combattere Hamas. Nei documenti la richiesta  dell’Anp di aiuti per mettere fuori gioco il partito religioso è costante. Eliminati gli islamisti, si potrà offrire a Israele una pace vantaggiosa.

  C’è anche la conferma, già anticipata da Wikileaks, che Abu Mazen venne informato in anticipo dell’operazione “Piombo fuso” contro Gaza. Evitando di avvertire la popolazione della Striscia, si limitò a rispondere che “non sarebbe andato a Gaza su un carro armato israeliano”. La collaborazione tra le forze di sicurezza del presidente palestinese e quelle israeliane non si è fermata nemmeno davanti all’omicidio dei militanti palestinesi.  Nel 2005, durante un incontro a Tel Aviv, Shaul Mozaf, all’epoca ministro della Difesa dello Stato ebraico, chiede a Nasser Yousef di collaborare all’assassinio di Hassan al-Madhoun e il ministro dell’Interno palestinese gli assicura di occuparsene. Il 5 novembre dello stesso anno, il combattente delle brigate al-Aqsa viene dunque ucciso in un attentato nel quale morirà anche un militante di Hamas e altri tre rimarranno feriti. A conferma di questi sistemi, Erekat, nel settembre del 2009, confida a un diplomatico statunitense che “dobbiamo uccidere palestinesi per guadagnare autorità, armi e principio di legalità”.

  Ci si potrebbe chiedere come mai gli israeliani, con una controparte così “flessibile”, non abbiano  firmato uno straccio di accordo. La risposta è che per loro nulla è sufficiente: nella debolezza altrui vedono le ragioni della propria sopraffazione. Sembrerà un giudizio troppo radicale, ma è ciò che emerge anche in questi documenti, dove ci sono esempi di arroganza spinti fin quasi al comico. Come quando, l’allora premier Olmert, discutendo di scambi di territori, mostra ad Abu Mazen una mappa di cui, però, rifiuta di lasciargli una copia cosicché l’altro è costretto a schizzarla alla bell’è meglio su un pezzo di carta. Sul tavolo, a rappresentare l’alternativa offerta, è ben visibile un’altra cartina in cui lo Stato di Israele comprende pure Gaza e Cisgiordania…

  Dopo la cacciata di Ben Ali, alcuni si sono chiesti come mai un personaggio del genere sia stato sostenuto dall’Occidente. E’ stato risposto che si è costretti ad appoggiare i regimi arabi odierni perché la sola alternativa sarebbe l’islamismo più radicale. Questa posizione si è già dimostrata sbagliata. Avere accolto di buon grado che il regime algerino interrompesse il processo elettorale ha prodotto un’enorme mattanza e non ha scoraggiato le frange terroristiche del mondo arabo. Forse, se si fosse invece aperto un dialogo con il Fis, che stava vincendo, si sarebbe potuto fare emergere le sue componenti più ragionevoli. In Turchia, gli islamisti, giunti al governo dopo le dure repressioni subite, si sono mostrati tutt’altro che dei folli estremisti.

  L’islamismo politico è oggi una delle componenti ineliminabili delle società mediorientali. In molti casi, si tratta di movimenti che hanno incominciato un’ “evoluzione democratica”: aiutare gli autocrati al potere che li massacrano non servirà, alla lunga, a garantire la stabilità. Anche perché i regimi amici dell’Occidente non consentono che emergano altri raggruppamenti civili diversi dall’islamismo, che invece, come si è visto in Tunisia, esistono e hanno il diritto di essere rappresentati. L’Autorità nazionale palestinese, in cui ancora si finge di confidare sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico, è ormai fatta della stessa pasta di quei ceti arabi di potere, sclerotizzati e corrotti, che oggi sono contestati un po’ ovunque. Ma pur di compiacere Israele, ci si rifiuta di riconoscere questa realtà fin troppo evidente.