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La prima fabbrica del qualunquismo

di Filippo Ceccarelli - 01/02/2011

     


Filippo Ceccarelli propone un ritratto di Guglielmo Giannini, che durante la Seconda guerra mondiale fondò il settimanale “L’Uomo Qualunque”, da cui sarebbe nato un partito politico che ebbe un sorprendente ma brevissimo successo.
Giannini è sempre stato un personaggio molto discusso a causa della sua ideologia, il “qualunquismo”. Nel corso della sua carriera politica egli mutò frequentemente alleanze, passando dalla Dc al Partito comunista.


È proprio vero che dentro il passato, più ci si allontana e più si colgono i bagliori e le tenebre dell’oggi; come pure è vero che dagli scatoloni conservati nelle cantine spuntano spesso le sorprese dell’attualità. E allora: non si ha un’idea del tesoro di preveggente virtù e di spaventosa immondizia che viene fuori dalle carte dell’archivio di Guglielmo Giannini, fondatore di un settimanale, “L’Uomo Qualunque”, che nel dopoguerra arrivò a tirare fino a 850mila copie, prima di assumere la guida di un movimento che dopo essersi imposto, alla fine del 1946, più forte della Dc nell’intero Mezzogiorno, bruciò in meno di due anni tutta la sua energia per trasfigurarsi nella più sfolgorante meteora delle storia elettorale italiana. […]
A tanti anni di distanza la polvere di quelle carte sporca le mani solo agli archeologi dell’immaginario scandalistico nazionale, non di rado frutto di invenzioni, eppure anche per questo significativo. La Lancia Stura fuoriserie otto cilindri, «maniglie d’argento e pomi d’avorio», su cui girerebbe per Roma il Migliore, «che predica l’uguaglianza»; il «lussuoso appartamento di 12 stanze e accessori» in cui è andato ad abitare Nenni, «in un momento di gravissima crisi degli alloggi». Travolti i fascisti, ecco la scoperta e la delazione delle magagne antifasciste, e sono arricchimenti, doppi giochi, fedine penali sporche, beghe massoniche, «forti acquisti in gioielleria» da parte della moglie di questo o quel «papavero». Chissà come Giannini, scettico di natura, accoglieva tutti quei fogli su cui a volte, prima di pubblicare, appuntava a lapis: «Solo con le prove». […]
Amabile e irruente, per molti versi anche geniale e comunque eccentrico; uno che scriveva benissimo avendo solo la quinta elementare, come da diploma esposto provocatoriamente nel suo studio; un ardente difensore di Pio XII che in realtà non era nemmeno battezzato. Per metà napoletano e per l’altra metà britannico, parlava quattro lingue, suonava piano, chitarra e mandolino, componeva canzoni firmandosi Zorro, negli anni venti si era inventato una delle prime riviste di cinema, “Kines”, aveva scritto soggetti, sceneggiature e adattato parecchi film americani (sue le didascalie di Charlot), pure costruendosi una moviola che poi vendette per comprare zucchero e caffè alla borsa nera.
Ma soprattutto scriveva commedie: ne firmò cinquantaquattro, quasi tutte rappresentate con successo dai più importanti attori, a cominciare da Ermete Zacconi. Biondo, imponente, di un’eleganza insieme preziosa e vistosa, l’inseparabile monocolo, la sigaretta penzolante, una catenella che gli attraversava il panciotto e che Indro Montanelli ne Gli incontri (Rizzoli, 1963) descrive con dovizia di particolari per via del recondito amuleto a forma di pitale. Come portachiavi, d’altra parte, Giannini sfoggiava un piccolo ma visibile fallo d’oro, per giunta dotato di ali, che gettava con noncuranza sotto il naso delle signore della Roma bene negli anni del suo inatteso, istantaneo e rutilante trionfo.
Si accanì contro l’epurazione, portò trenta deputati alla Costituente, rese possibile il governo De Gasperi senza il Pci, ma dialogò anche con i comunisti, attrasse i monarchici, gli si appiccicarono addosso i neofascisti. Soprattutto, fu tradito dai suoi stessi seguaci, quindi abbandonato da La folla (il titolo del suo bestseller) e infine dagli elettori, come gli aveva predetto don Benedetto Croce. Dopo di che la parabola del «Fondatore», come veniva chiamato, incontrò la più crudele e in fondo inutile damnatio memoriae, a parte un libro dello storico Sandro Setta (Laterza, 1975), comunque per forza di cose pubblicato in mancanza dei tanti che gli devono qualcosa, da Berlusconi a Pannella, da Feltri a Di Pietro, da Bossi a Beppe Grillo.
Repubblicano, europeista e anti-retorico, alternava intemerate apocalittiche a storielle e barzellette, una volta minacciò di intonare canzoni napoletane a Montecitorio per contrastare vani ritualismi. Riempiva le piazze e in un comizio a Cagliari portò trentamila persone a cantare Dove sta Zazà. Ma gli scrivevano da tutta Italia sulle casse dell’Ovra e sul carteggio Petacci, sugli apparati militari dei partiti e sulle spie che ruotavano attorno al Pci: ciò che fa del suo archivio anche una specie di buca delle lettere della guerra civile che non ci fu; e al tempo stesso pure un formidabile osservatorio sul brulichio di un Paese che non appena ha ottenuto la democrazia, si sforza di replicarla in versione carnevalesca.
Le due figlie che adorava, la bellissima Gloria e soprattutto Ivonne, giornalista, decorata con la croce di guerra nella lotta partigiana, ne hanno coltivato una memoria in cui è ancora oggi difficile separare l’uomo pubblico da quello privato. Il nipote Mario Ciuffini, che insieme al mandolino e a un busto di marmo bianco smagliante si è ritrovato tutte queste carte in casa, dedicandovi amore e lavoro, ha scoperto dei filmati da cui si capisce che suo nonno aveva anticipato di una decina d’anni anche la comunicazione televisiva. I ricordi di famiglia sono irresistibili. Come certi consigli a Ivonne sulla necessità di dimenticare l’accento napoletano, nel caso ne fosse stata «infettata». «È terribile: essere napoletano dà un senso di sventura. Io, che non posso dimenticare di esserlo, ogni tanto mi riprendo e mi umilio e cerco di farmi piccino: poi come accade in questi speciali momenti, mi credo di nuovo superiore a tutti, e proclamo che solo la mia terra partorisce gente degna. Tutto il resto dell’umanità mi appare allora composto di stomachevoli burattini. Noi, almeno, abbiamo il pernacchio».
Il leader dell’Uq era naturista, passava ore in un enorme bagno dove pure riceveva, e pranzava avendo il suo amatissimo gatto, dal nome Gatto, sulle spalle. Come un artista componeva le sue celeberrime “vespe”, brevi e pungenti note, in modo del tutto estemporaneo, avvolto in una vestaglia di cammello. Non era mai stato fascista, anzi, né mai ebbe particolare passione ideologica, a parte quel fondo anarcoide così italiano nella sua dimensione individualistica ed esistenziale. All’impegno pubblico si sentì chiamato dal dolore per la morte del figlio Mario, aviatore di ventuno anni rimasto ucciso in un incidente di guerra. Da quel momento pose tutto il suo indubbio talento a combattere i politici di professione che per loro vampiresca natura entrano nella vita altrui rovinandola. Così il programma minimo dell’Uq si ridusse a una massima della quale al giorno d’oggi, purtroppo, pur nella sua pesantezza si rischia di avvertire tutto il fascino: «Non vogliamo avere i coglioni rotti da nessuno». I suoi lettori lo vivevano come un leader antipolitico insofferente e sanguigno, un vendicatore all’occorrenza anche volgare, per il resto trepido, gigione, cavalleresco e onesto fino all’autolesionismo. Sulla base delle risorse narrative che vanno per la maggiore oggi, senza pregiudizi di schieramento postumo ci si sorprende di fronte a un personaggio di assoluta e quasi profetica modernità.
Sia Togliatti che il giovane Andreotti lo liquidavano come «il commediografo», ma proprio il fatto che venisse dallo spettacolo contiene forse il segreto della sua vicenda; così come il tramonto delle ideologie consente di rileggerne la parabola sotto una nuova luce, la stessa che impone prudenza e pazienza nei riguardi dei tanti scomodi ospiti della democrazia.