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Democrazia in Medio Oriente: l’arma a doppio taglio degli Usa

di Alessandro Iacobellis - 15/02/2011

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Correva l’anno 2006. La guerra in Iraq era al suo apice sia per gli scontri tra l’esercito occupante e la guerriglia sia per le violenze settarie tra sunniti e sciiti, sfociate in una sanguinosissima guerra civile mai dichiarata nell’ex Mesopotamia.
In estate si incendiò nuovamente il conflitto mai realmente sopito tra Israele e Libano, con l’aggressione di Tel Aviv al Paese dei Cedri costata centinaia di morti civili libanesi e terminata con la sconfitta di Tsahal e una storica vittoria strategica per le milizie sciite.
In questo quadro l’allora Segretario di Stato statunitense Condoleeza Rice, in un raro momento di sincerità a margine della conferenza di Roma sul conflitto israelo-libanese, si lasciò andare a una serie di confidenze sui piani Usa per l’intera regione. L’obiettivo strategico di Washington prevedeva la normalizzazione l’area, instaurando una serie di democrazie aperte al mercato e ovviamente in pace con Israele. Nulla di particolarmente nuovo? Non proprio, perché storicamente l’assetto politico imposto dagli Stati Uniti nel Vicino Oriente si basava (e lo fa tuttora) sul sostegno a regimi di polizia che reprimono i loro stessi popoli e garantiscono uno stretto controllo sulle opinioni pubbliche, storicamente avverse alle ingerenze occidentali e al sionismo. In questo novero rientra gran parte di quelle stesse dittature che in questi giorni stanno subendo la rivolta delle proprie piazze: l’Egitto, la Tunisia, lo Yemen di Saleh, il regno hashemita di Giordania.
Tutte pedine fondamentali non solo per gli Stati Uniti, ma anche per i loro fiduciari in loco: Israele, ma anche l’Arabia Saudita, da sempre capofila e guida dei governi arabi filo-occidentali. Oggi questi stessi regimi (non ci voleva Wikileaks per saperlo) costituiscono il principale fronte di contenimento nei confronti dell’Iran e del suo progetto di influenza geopolitica; contenimento che per la verità si sta rivelando generalmente inefficace, come hanno dimostrato anche le recenti evoluzioni politiche in Libano, con il cambio del governo che ha sostituito nel ruolo di premier Saad Hariri (uomo di Riyad) con Najib Miqati, vicino al blocco nazionalista di Hezbollah e alleati.

Il Grande Medio Oriente

Facciamo un passo indietro: riunione del G8 a Sea Island, giugno 2004. In questa occasione la solita Rice espone per la prima volta il progetto di riorganizzazione politica del Vicino e Medio Oriente nella visione della Casa Bianca. Si sente per la prima volta nominare l’espressione “Grande Medio Oriente” (Greater Middle East), o in alternativa Nuovo Medio Oriente. Conseguenza diretta della dottrina geopolitica neo-conservatrice espressa già anni prima nel Project for the New American Century, il piano si basa sul concetto di esportazione della democrazia come mezzo attraverso cui pacificare duna volta per tutte la regione più instabile del mondo. Alla base vi è il concetto della governance globale, la teoria secondo cui la pace e la stabilità sono garantite soltanto fra democrazie compiute, mentre regimi illiberali sono per loro stessa natura imprevedibili e inaffidabili. Tale visione del mondo nasce da lontano: se ne possono già trovare i prodromi negli Accordi di Helsinki del 1975, in cui il nemico veniva identificato nel blocco geopolitico rappresentato dall’Unione Sovietica e dal socialismo reale, che andava scardinato e cooptato all’interno del paradigma occidentale (in quel caso l’Occidente riconobbe formalmente l’influenza sovietica nell’Europa orientale chiedendo in cambio a Mosca l’adesione al rispetto dei diritti umani, pietra fondante della società aperta descritta da Karl Popper). All’indomani della caduta dell’Urss e del crollo del sistema bipolare, il dibattito si fa ancora più vivace. Durante la fase di unipolarismo statunitense (che, attenzione, in molti all’interno degli stessi Usa sono coscienti di non poter reggere a lungo) la questione-chiave diventa come arrivare a un modello di cosmopolitismo democratico al fine di esportare il mercato unico globale anche nelle residue aree di resistenza, fra le quali il mondo islamico rappresenta quella principale. Interessantissimo per capire i termini del confronto un libro del 1995 scritto da David Held e Daniele Archibugi, “Cosmopolitan Democracy. An Agenda for a New Wolrd Order”.
Il problema dell’amministrazione Bush fu la goffaggine dimostrata nel perseguire il progetto: la democrazia-export in Iraq ne rappresentò l’apice e contribuì solamente ad aumentare lo storico sentimento anti-americano e anti-occidentale delle piazze arabe e islamiche. Stessa cosa si verificò anche sul fronte della guerra in Afghanistan, dove quello che nei piani doveva essere il “contagio democratico” a partire da Kabul ha finito per portare in realtà all’esito opposto, ossia il contagio del radicalismo e la destabilizzazione del vicino e strategico Pakistan. La guerra in Iraq dimostrò l’inadeguatezza dell’amministrazione repubblicana su vari piani: sia su quello squisitamente militare che su quello politico. Il risultato delle elezioni libere a Baghdad fu infatti l’affermazione di liste organizzate su linee etniche e religiose. Gli Stati Uniti si ritrovarono ad occupare Baghdad privi però di referenti politici che avessero un minimo di credibilità agli occhi della popolazione irakena: motivo per cui l’unica opposizione organizzata capace di vincere le prime elezioni “libere” fu quella dei partiti confessionali sciiti (lo Sciri, il Dawa e i sadristi), che hanno finito per avvicinare politicamente Baghdad a Teheran come non era mai accaduto nella storia moderna. Altro evento significativo in questo senso furono le elezioni legislative del 2006 in Palestina. Precedute dalle fanfare d’Occidente come una vittoria della democrazia, gli Usa avevano impiegato anni per costruire un’elite (o per meglio dire una cricca) capace di traghettare Fatah a una politica di compromesso con Israele. Avevano speso milioni di dollari per ingrassare una cerchia di tecnocrati distanti anni luce dalle istanze della popolazione palestinese stremata da decenni di occupazione sionista. La corruzione all’interno dell’ex partito di Arafat aveva da un lato portato all’emarginazione delle componenti nazionaliste del movimento, e dall’altro aveva sempre più alienato Fatah dalle simpatie del popolo. Motivo per cui lo sgomento nelle cancellerie occidentali fu enorme quando la vittoria annunciata nelle urne si rivelò una sconfitta pesantissima per mano di Hamas, che nel frattempo aveva saputo conciliare la resistenza senza sconti all’occupante con la vicinanza a tutti i settori della società civile e un’opera di assistenza da vero e proprio “stato sociale ombra”. Tutto questo mentre i quadri di Fatah restavano chiusi nei palazzi del potere di Ramallah a farsi irretire dagli inviati statunitensi e dai loro finanziamenti.
Così, dopo la retorica dell’esportazione democrazia che precedette l’aggressione all’Iraq, a Washington ci si cominciarono a porre delle domande: era consigliabile dare facoltà di scegliersi democraticamente i propri governi a popoli che per ragioni storiche, culturali e religiose non sono ancora stati conquistati al Pensiero Unico? Altra conferma a questo dubbio venne dal Libano: l’omicidio di Rafiq Hariri, prontamente addossato alla Siria senza prova alcuna (e, si saprà anni dopo, sulla base di false testimonianze) portò nel giro di pochissime settimane a manifestazioni di piazza e al ritiro delle forze di sicurezza di Damasco dal Paese. Ma alla prova delle urne quella che era già stata pretenziosamente definita “Rivoluzione dei Cedri” non è mai riuscita a sfondare, impantanandosi in governi di unità nazionale e perdendo progressivamente pezzi, fino ad arrivare agli sviluppi più recenti in cui il passaggio dei drusi di Jumblatt al fianco di Hezbollah ha spostato la bilancia in favore di questi ultimi.
D’altra parte, però, il problema di fondo rimaneva: il Medio Oriente nella sua configurazione politica attuale va ammodernato. Non certo per voler modificare gli equilibri di potere, quanto piuttosto per sincronizzare il Medio Oriente al passo del mondo circostante.
Va notato infatti che il quadro politico attualmente presente sulla sponda sud del Mediterraneo è ancora quello figlio della Guerra Fredda, di conseguenza obsoleto per il sistema mondiale attuale. Certo, il rischio è quello di un salto nel buio, quindi gli Usa hanno continuato ad affidarsi ai Mubarak di turno fino a che le proteste popolari non li hanno sfiduciati e resi di fatto inadeguati per continuare a svolgere adeguatamente il loro ruolo di mantenitori dell’ordine occidentale in loco.
Quello di Washington nei confronti delle rivolte arabe si può inquadrare come fare buon viso a cattivo gioco e come opera di influenza sugli scenari che seguiranno. Il presidente perfetto per un’operazione politica del genere è proprio Barack Obama, il cui famoso discorso del Cairo puntava proprio a questo: cautelarsi presso le opinioni pubbliche arabe, blandirle in vista di un loro futuro ingresso nella società aperta. Ovviamente tutta facciata, in quanto come detto gli equilibri di potenza nell’area non dovranno essere intaccati, così come il ruolo di Israele, la cui supremazia militare ed economica sui vicini non può essere messa in discussione, al pari della sua “sicurezza” (vero mantra ripetuto da tutti i politici statunitensi e non solo di ogni colore politico). Anzi, l’obiettivo del Grande Medio Oriente così come concepito in origine andrebbe proprio a tutto vantaggio di Tel Aviv, che si ritroverebbe circondata da democrazie che ne riconoscono l’esistenza come entità statuale e con cui intrattenere normali relazioni commerciali (diversamente dall’isolamento cui Israele è sottoposto sin dalla sua imposizione nel 1948). Una normalizzazione che rimpiazzerebbe l’attuale condizione di “pace fredda” con i vicini Stati arabi, anche quelli scesi a compromessi (fra cui lo stesso Egitto) e che garantirebbe una volta per tutte l’esistenza di Israele. E’ ormai da decenni che Israele, nonostante la propaganda che lo descrive costantemente sotto minaccia e a rischio cancellazione, ha risolto ogni eventualità di conflitto convenzionale con i Paesi confinanti (l’eccezione è il Libano, ma in questo caso si parla della Resistenza e non dell’esercito nazionale), anche con quelli con cui persistono contese territoriali, come lo stesso Paese dei Cedri e la Siria. Eppure la situazione dopo decenni è ancora bloccata, e vive uno stato di empasse politica ed economica ormai inaccettabile tanto per Tel Aviv quanto per i suoi padrini atlantici. La soluzione ideale sarebbe appunto quella del Grande Medio Oriente, con un effetto-domino di democratizzazione che finirebbe per avere ripercussioni sull’intero sistema globale, in quanto aprirebbe definitivamente al libero mercato un’area vastissima che va dal Maghreb fino alle porte dell’Asia, in cui attualmente il livello di corruzione endemico degli apparati statali e burocratici è ormai diventato scomodo anche per i suoi stessi alleati in Occidente. In un momento di crisi strutturale del capitalismo globale, l’apertura totale dei mercati della regione sarebbe certamente una boccata d’ossigeno, in primis per gli stessi Usa sull’orlo della bancarotta (altro retroscena del discorso di Obama al Cairo).
C’è però un inconveniente di non poco conto in questo progetto, che è rappresentato dalla Repubblica Islamica dell’Iran. Se come si auspicano a Teheran i popoli della regione quando interpellati difficilmente scelgono movimenti graditi a Washington e ai suoi sudditi (come dimostrano Libano, Palestina e in un certo senso anche Iraq), ciò significa la partita è ancora tutta da giocare. La dimostrazione lampante di ciò è il terrore espresso in questi giorni dai vari commentatori allineati su una possibile affermazione dei Fratelli Musulmani in caso di libere e regolari elezioni in Egitto. Lo stesso identico percorso che ha seguito un altro Paese musulmano (anche se non arabo), la Turchia. E’ stato proprio attraverso l’apertura alla democrazia che al governo di Ankara è giunto l’Akp, partito islamico moderato non certo anti-americano, ma comunque fuori dalle vecchie logiche bipolari che rendevano la Turchia un regime privo di qualsiasi politica autonoma e legato per necessità oggettive a Israele in quanto unico altro gendarme atlantico nell’area. Finita la Guerra Fredda, terminata l’epoca dei golpe militari atti a garantire l’ordine di Jalta, Ankara è tornata a fare i propri specifici interessi in un’ottica di multipolarismo, allontanandosi sempre più da Israele e avvicinandosi viceversa ai propri vicini arabi e all’Iran.
Come estremo paradosso storico e politico, la stessa democrazia che ha sottomesso l’Europa può diventare al contrario l’arma attraverso cui il Vicino e Medio Oriente possono ritrovare sovranità e libertà. E a perderci sarebbe solo Israele, che sugli equilibri bloccati del mondo a guida statunitense ha costruito la sua stessa esistenza.