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Addentrarsi nei sentieri intricati della foresta

di Laura Brignoli - 15/02/2011

Fonte: nemetonmagazine

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Se è vero che la foresta è la nostra culla, è incontestabile il fatto che ce ne siamo allontanati e che la guardiamo con timore, talvolta con sospetto. Ma, da territorio in cui si rischia di perdersi, essa può trasformarsi, grazie all’arte, in luogo in cui ci si ritrova. Cedere al suo richiamo, lasciarsi guidare dalle sue voci, sentire il suo respiro può condurci in una zona vergine che abbiamo disimparato a riconoscere, ma che celebra il più profondo accordo fra noi e il mondo, come un tempo si credeva che potesse fungere da intermediario fra la terra, in cui l’albero affonda le sue radici, e il cielo, verso cui eleva i suoi rami.


Tra le molteplici foreste che popolano la letteratura di ogni epoca, da Dodona in poi, e di ogni latitudine, da Brocéliande all’Amazzonia, ne abbiamo scelto una vicina a noi, nella quale prende corpo tutta la carica simbolica che si suole attribuire alla foresta, fino al suo rimando più recente, quello che conduce verso l’inconscio. È una pagina tratta dal secondo volume dell’“autobiografia” di Alain Robbe-Grillet: Angelica o l’incanto. Il capofila del Nouveau Roman francese, colui che ha contribuito a scardinare le regole del romanzo di stampo ottocentesco nello stesso periodo in cui Beckett e Ionesco stravolgevano il teatro, negli anni ’80 del Novecento è ritornato al piacere della narrazione con la sua trilogia autobiografica che ha provocatoriamente intitolato “Romanesques”: tre volumi, nei quali i ricordi si combinano con i fantasmi della mente a evocare, tutti insieme, le fonti da cui è scaturita l’opera. E non stupisce, allora, che vi si trovi la foresta…


Questa specie di autobiografia immaginaria e riflessiva contiene pagine evocative, ricordi del passato, quadri fiabeschi popolati da eteree fanciulle per metà bambine, per metà ammaliatrici, cavalieri intrepidi e dragoni del re che si alternano a figure di famiglia, o personaggi della letteratura e dell’editoria francese in una mescolanza che, lungi dal separare il vissuto dall’immaginato, mostra la sottigliezza e la forza del loro legame. L’innegabile presenza dell’invenzione nella trama stessa del vissuto conduce lungo camminamenti apparentemente privi di legami causali. Ma forse la coerenza è da cercare altrove: forse si trova proprio in quella foresta che custodisce i segreti dell’umanità, una foresta in cui le tracce della Grande Guerra sono così esili da sparire sotto il dirompere delle visioni. Il suo nome inquietante, «Pertes», la foresta delle perdite, non frena i due dragoni che devono attraversarla trasportando su un carro una «giovanissima e molto graziosa prigioniera, di nome Carmina, che i contadini accusano di spionaggio, come un tempo c’era il sospetto della stregoneria». L. B.

«Il tempo è eccezionalmente mite per questa stagione. La bruma si è dissipata prestissimo e un gaio sole traccia raggi obliqui, paralleli o a fasci divergenti, fra i tronchi degli alberi e i rami bassi. La foresta - faggi e giovani olmi - è ancora poco invernale, molte foglie di un bruno lucente rimangono attaccate ai rami. È stata devastata solo in parte dai combattimenti e gli uccelli cinguettano sulle cime come in tempo di pace. Una capinera accompagna i viaggiatori, posandosi da arbusto in brindillo, sulla banchina del sentiero, levandosi in volo al passaggio del carro per posarsi di nuovo, pochi metri più lontano, sui ramoscelli coi loro delicati disegni, sottolineati da gocce a festone di brillante rugiada. […]

Questa foresta ha una brutta reputazione nel paese: la gente del villaggio, indicando loro la strada da seguire, non ha mancato di mettere in guardia i due dragoni contro i molti errori possibili. Il nome “Pertes”, diceva, verrebbe del resto dall’estrema facilità con cui il viaggiatore si sperde, se non conosce perfettamente i luoghi. Alcuni taglialegna, che pure da anni lavoravano lì ogni stagione, addirittura si sarebbero persi in uno dei loro settori familiari, dove a un tratto non riconoscevano più niente, come per effetto di un sortilegio, e avevano errato così per vari giorni, credendo di andare diritto ma ripassando incessantemente negli stessi punti, tornando allora indietro e girando di nuovo in tondo; quasi morti di sfinimento e sull’orlo della follia, dovevano in definitiva la salvezza solo a un piccolissimo uccello canoro, una capinera dalla testa rossiccia che, posandosi di ramoscello in ramoscello davanti a loro e voltandosi per chiamarli quando esitavano a seguirla, li avrebbe ricondotti al loro accampamento cui erano inspiegabilmente vicini. Il capitano, evidentemente, davanti al suo attendente parigino, non ha voluto accordare il minimo credito a queste leggende.

Una cosa, nondimeno, lo preoccupa: già da un certo tempo, non ha più visto le tracce del tombarello. Eppure, il terreno male imbrecciato dei sentieri forestali, senza essere imbevuto di acqua, poiché non ce n’è più da quasi una settimana, rimane in ogni caso sufficientemente umido perché l’impronta delle ruote rivestite di ferro vi resti impressa, almeno a tratti. Tanto più che l’assenza del più debole vento, una volta caduta la brezza leggera che ha fugato la bruma al levar del giorno, impedisce che nuove foglie morte abbiano già cancellato il discreto solco lasciato dai cerchioni metallici.

Adesso, nel sottobosco, regna una strana pace. Non si sentono più del tutto i rumori, anche lontani, del cannoneggiamento, nettamente percepibili la mattina attraverso la pianura, e che a tratti sembravano raddoppiare d’intensità. Si direbbe che si siano zittiti anche gli uccelli, che pure, meno di un’ora fa, gorgheggiavano ancora allegramente sulla cima degli alberi, nel bel sole di questa finta primavera. I suoi raggi dorati, che filtrano tra i rami in fasci sulpiziani, in linea di principio dovrebbero consentire ai due dragoni di orientarsi. Sfortunatamente, la strada è diventata subito troppo sinuosa, tra i mammelloni, le rocce e i borri; si sarebbe dovuta prendere fin dall’inizio la precauzione di fissare una rotta per l’intero percorso e di annotare con esattezza ogni flessione…

Proprio a causa di questo quasi inquietante silenzio che li avvolge, Corinthe, con l’orecchio teso a ascoltare un eventuale cigolio dell’assale di un carro davanti a sé, adesso percepisce sulla destra un colpo regolare, periodico, rapido, che potrebbe corrispondere alla scure di un taglialegna… No, è un rumore più chiaro, più vicino, anche, e meno pesante, più simile a battimani… In ogni caso, non può essere prodotto dal becco di un picchio verde o da qualche altro animale selvatico e, per un attimo, Corinthe pensa di lasciare la strada per avventurarsi nel bosco, raggiungere quell’uomo che lavora e chiedergli se stanno andando nella direzione giusta. Ma non lo fa, poiché riflette subito sui gravi inconvenienti di tale deviazione: forse rischia di perdersi, e questa volta del tutto, se il suono non proviene dalle immediate vicinanze, cosa difficilissima da giudicare.

Pochi passi più avanti, cambia di nuovo parere e per un motivo quasi inconfessabile, anche soltanto a se stesso: sulla destra, a circa venti metri, un uccellino solitario dalla testa rossiccia si è messo improvvisamente a cinguettare. La canzone è discreta, frammentata su poche note incerte dagli andamenti dubitativi o nostalgici o senza speranza o soltanto distratti. Ma, nonostante gli spazi bianchi variabili che bucano a caso la breve melodia, ripete sempre più o meno la stessa frase e questa costanza, insolita nella bruna capinera, pare inquietante all’ufficiale bretone, abituato fin dalla più tenera infanzia a ricevere segnali in codice, provenienti dall’al di là. Ferma il cavallo, ascolta ancora. Dice al compagno, che a sua volta ha fatto la sosta:


“Senti questo rumore d’ascia nella foresta? Aspettami qui. Voglio andare a vedere se c’è qualcuno che possa assicurarmi di essere sulla buona strada”.

“Sì, capitano”, risponde soltanto l’attendente, senza permettersi di fare commenti sulla discutibile origine di un suono, che nemmeno un cittadino può confondere con quello di una scure che intacchi la base di un fusto, non più di quanto possa confonderlo con quello della roncola del potatore.

Corinthe ascolta il ritornello sempre simile della capinera, che però ha acquistato un po’ più di ampiezza, come se fosse ormai consapevole dell’attenzione che le si presta. Ma tutta la buona volontà dell’uditore non è sufficiente per trovare, nelle sonorità di quel linguaggio musicale, una qualsiasi somiglianza con sillabe umane, in francese come in tedesco. Dice:

“Se chiamo una volta, grida anche tu. E mi orienterò sulla tua voce per ritrovarti. Se chiamo più volte di seguito, vieni subito a raggiungermi”

“Sì, capitano”, ripete il cavaliere poco incline alle chiacchiere e che, evidentemente, non ha l’abitudine di scambiare riflessioni personali con il suo capo.

Appena Henri de Corinthe si avvicina al fragile messaggero dall’incomprensibile messaggio, questo si alza in volo e va a posarsi venti metri più in là, nella direzione da cui sembra provenire quel rumore di mani che batterebbero con vigore l’una contro l’altra. Senza aspettare, di nuovo voltato verso l’ufficiale che lo segue, l’uccello riprende l’insistente interrogazione o la messa in guardia o il richiamo… Il terreno, agevole benché piuttosto molle e anche, a tratti, un po’ spugnoso, sale in dolce pendio. I vecchi faggi hanno il vantaggio d’impedire ai loro piedi qualsiasi vegetazione, tranne i muschi, e di non avere quasi rami bassi. Il cavallo bianco, sullo spesso tappeto di foglie rossicce che sprofondano sotto gli zoccoli, sale sul leggero declivio senza molta fatica.

Ancora venti metri, e il conte Henri adesso sospetta che quei colpi ripetuti provengano dal battitoio di una lavandaia, che percuota con lena la biancheria umida. Del resto, si direbbe che, trenta passi più in là, sia percepibile anche un mormorio d’acqua viva, che, per la scena immaginata, costituisce un adeguato fondo sonoro e che rafforza così la nuova ipotesi del cavaliere. Nei dintorni, però, non c’è traccia di ruscello e il terreno continua a salire fino alle grosse rocce grigie dove è appena atterrata la capinera, per ricominciare instancabilmente le stesse sette note, su un ritmo sempre più sicuro.

Ma ecco levarsi all’improvviso una melodia umana, e senza dubbio femminile, vicinissima, che è scandita dai colpi del battitoio e che si mescola al canto dell’uccello. È una voce gradevolissima, giovane, fresca, dal sapore della frutta, carezzevole, con dolcezze vellutate in mezzo forte, gorgheggi appena udibili, riprese appassionate, tenere modulazioni, risonanze calde e profonde nelle note basse. Corinthe si è fermato, stupefatto per quella presenza immateriale e miracolosa. Si sente, a non più di cinque o sei metri, una giovane che canta, ma che rimane invisibile; si sente l’onda scrosciare e la paletta di legno battere in cadenza le camicette di lino bianco, mollemente arrotolate, ma non ci sono né torrente né rivolo né lavatoio; si sente sempre la capinera rossa, ma è scomparsa, forse appollaiata in alto nelle ramosità, dove si confonde fra le ultime foglie cupree dei faggi con i rami d’argento.

In una luce bionda, improbabile di questa stagione, artificiale o fiabesca, l’impressione d’immobile serenità quasi soprannaturale è ancora accresciuta dal maestoso scenario del bosco d’alto fusto, pittoresco e roccioso come su un quadro del diciottesimo secolo: Hubert Robert o Jean-Baptiste Huet o, forse, Corot che, cinquant’anni più tardi, dipinge la foresta di Brocéliande. L’insieme del paesaggio e del suo armonioso accompagnamento pare tanto più irreale quanto più la guerra è assente da esso e non ha lasciato la minima traccia, come se quei luoghi magici fossero stati dimenticati dai combattimenti, dimenticati dalla storia, dimenticati dal tempo.


[estratto dal libro Angelica o l'incanto, di Alain Robbe Grillet, edito da Spirali]