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Nel Sole

di Francesco Lamendola - 20/02/2011





È una bella giornata di febbraio, chiara e luminosa.
Le colline scendono verso il greto del fiume in un tripudio di luce, sotto un cielo spalancato su profondità abissali, terso e sgombro della più piccola nuvola.
Le montagne vicine s’inarcano come a descrivere un immenso anfiteatro che abbraccia ed accoglie tutte le membra sparse della pianura: i campi, i boschi, i vigneti, i paesi raccolti intorno ai campanili aguzzi e, più in alto, le colline ammantate di querce e di robinie.
Il fiume scorre tranquillo sotto la carezza dei raggi, specchiando gli aceri e i tigli nelle sue acque trasparenti, dimentico della sua furia limacciosa di qualche settimana fa, come trasformato in una creatura docile, serena, amichevole.
E la grande statua del Cristo dell’Isonzo, eretta a ricordo dei morti di una guerra tremenda che ormai pare così lontana, ma che proprio in questi luoghi infuriò con violenza inaudita, leva alte le braccia sul fianco del poggio, quasi a voler accogliere ed attirare fino a sé l’infinita lontananza di queste ore trasparenti d’una giornata che pare già di fine inverno, anche se altri cieli grigi dovranno venire nuovamente, altra pioggia ed altra neve.
Nell’aria calma del primo pomeriggio, quando tutte le cose sembrano ordinate e al loro posto, come se fossero state disposte per la gioia dello sguardo che le contempla e per la gratitudine dell’anima che le sa apprezzare, sembra che tutto sia come dovrebbe essere, come è giusto che sia e come realmente sempre è, solo che noi sappiamo comprenderlo.
I primi richiami risuonano in alto, i primi voli solcano il cielo: la natura pare sul punto di risvegliarsi e l’occhio cerca invano le primule sul bordo del fosso, là dove la luce si posa più a lungo e con più calore.
Anche il cuore si sente più leggero, in giornate come questa.
Si vorrebbe che questa dolcezza, questo senso di pace, non se ne andassero mai via; che rimanessero qui, a farci compagnia.
E su tutto, potente, splendido, ineffabile, il Sole.
Già abbastanza forte da rischiarare e da scaldare il mondo con vigore formidabile, ma non ancora tanto da impedire alla vista di posarsi su di lui, sia pure socchiudendo le palpebre, e da bearsi del suo magnifico fulgore.
«Questo - dice il saggio cacciatore siberiano Dersu Uzala al capitano russo divenuto suo amico - è “omo” forte, il più forte di tutti: se lui muore, tutto il mondo muore», nel bellissimo film omonimo di Akira Kurosawa, tratto dal libro di Vladimir K. Arsen’ev.
Sì, il Sole è un grande “omo”, un grande essere vivente, che dà vita a tutti gli altri esseri del nostro pianeta; senza di lui, non ci saremmo, perché le piante non potrebbero trasformare la sua energia in materia vivente e la Terra sarebbe solo un freddo corpo desolato e privo di vita, perso, come tanti altri, nell’immensità del cosmo.
E tornano alla mente le meravigliose espressioni del cantico di San Francesco, il testo più antico della letteratura italiana, traboccante di stupefatta trepidazione e d’incantata gratitudine, lieto ed estatico come un chiaro rivo di montagna:

«Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature,
spetialmente messer lo frate Sole,
lo quale è iorno, et allumeni noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.»
Come è bello rivolgere il viso al Sole, in queste giornate invernali in cui la sua forza è ancora moderata, e lo si può fissare, strizzando un poco gli occhi, lasciandosi inondare dalla sua luce e dal suo benefico calore.
Raggi smaglianti erompono da lui, si spandono nel cielo azzurro, lo adornano come un’areola, lo incoronano come un diadema di perle.
Poi, mentre lo sguardo più e più si addentra e si perde in tutta quella luce che si fa quasi liquida, ecco che il disco incomincia a vibrare ed i suoi raggi si fanno ora di un acceso rosso porpora, ora di un verde smagliante, ora di un rosa dalle profondità abissali, ultraterrene: sembra che sia sempre lo stesso e che, nel medesimo tempo, cambi continuamente, come un caleidoscopio, in un vortice multicolore che non si ferma, né cessa di stupire e di sorprendere.
Intanto, dai due lati del disco, si proiettano lontano e s’incurvano in una parabola incredibile, elegantissima, degli archi di luce che paiono fiotti di arcobaleno, nei quali brilla e tremola l’intera gamma dei colori dell’iride, per poi tornare indietro e riflettersi donde erano partiti: dal rosso all’arancio, al giallo, al verde, al blu, all’indaco e al violetto.
Poi la vista si annebbia, non riesce più a sostenere lo sguardo accecante del Signore del cielo, come Psiche non poté sostenere il fulgore di Eros: la sua forza è di troppo superiore all’umana, la sua rivelazione rischia di bruciare la retina; la coscienza della nostra piccolezza ci riporta nei limiti dell’umiltà e del rispetto davanti a qualcosa che è tanto più grande di noi.
Sì, dovremmo sempre scriverlo con la lettera maiuscola, il Sole: e non solo perché è il nome di una stella in particolare, ma perché è quello di un essere vivente: tutti gli astri lo sono, ma il Sole è quello a noi più vicino, il più necessario e provvidenziale.
E questo essere vivente, che esisteva già da molto prima non di noi soli, ma della Terra stessa che ci ospita, e che continuerà ad esistere molto dopo che noi ed essa non ci saremo più, ci è anche padre, in un certo senso; così come la Terra ci è madre.
Noi siamo parte di una infinita vita cosmica e i raggi del Sole, che ci avvolgono e ci riscaldano, sono parte del suo immenso respiro: come il respiro di un genitore che si trasmette al figlio e gli comunica la preziosissima scintilla vitale.
È una vera e propria cerimonia religiosa, quella che celebriamo quando offriamo il viso allo splendore del Sole: un rito di ringraziamento e di lode che, dal Sole benefico e possente, risale fino alle sorgenti dell’Essere, dalle quali ogni cosa trae origine e si dispiega alla ricerca della propria vocazione e del proprio destino.
In questa cerimonia religiosa al cospetto del Sole, che ha per scenario un tempio a cielo aperto, più meraviglioso di quanti mai ne potrebbero innalzare l’arte ed il genio umano, per quanto sublimi, noi siamo chiamati ad un mistero ineffabile: quello di accogliere in noi ciò che è più grande di noi, ciò che esisteva prima di noi.
È necessaria una grande umiltà: bisogna sapersi fare veramente piccoli, perché solo così può accadere che noi, minuscoli vasi, siamo messi in grado di accogliere un fluire incomparabilmente maggiore di ogni nostra immaginazione. Se tentassimo di farci grandi, non riusciremmo e ogni sforzo si sì rivelerebbe vano e pietosamente inadeguato.
Perché il Sole ci è padre, ma non bisogna prendersi troppa confidenza con lui: egli è un potente Signore, che va accostato con molto rispetto.
E mentre la sua sfera luminosa abbaglia il nostro sguardo e gli offre, per così dire, una prefigurazione dell’altra vista, quella che si spalanca sull’immensità dell’altrove, fuori dal tempo e dallo spazio, una ulteriore verità ci fa presente: il qui ed ora.
Il Sole è qui, ora, davanti a noi, dentro di noi: non domani, non ieri; semplicemente, la sua luce brilla nel presente, nel nostro presente, e la inonda di bellezza.
Chi vive pensando a ieri è un voluttuoso; chi vive pensando a domani è un illuso: solo chi vive nel presente, memore di ieri e fiducioso nel domani, è veramente un cittadino della realtà, e non un pallido fantasma alienato, che si aggira senza pace e senza meta.
Che cosa vogliamo essere, i cittadini di un mondo che non esiste più, in nome dei ricordi, belli o brutti che essi siano? Allora saremmo soltanto i miseri abitanti di una città morta, la cui aria sa di chiuso e di corruzione.
Chi soffre eternamente per un dolore del passato o chi eternamente rimpiange una gioia del passato, non vivono la propria vita, ma quella di un altro: quella del loro io di un tempo, vicino o lontano, ma pur sempre passato, irrevocabilmente trascorso.
Oppure vogliamo essere i cittadini di un mondo che non è ancora e che non sarà mai, sempre un passo davanti a noi stessi, sempre in anticipo rispetto a noi stessi e sempre protesi verso qualcosa che non è in noi, ma fuori di noi e che, per definizione, non saremo mai in grado di cogliere, di sperimentare?
Infatti, “domani” è sempre al futuro: quando il domani arriva, non diventa mai “oggi”, ma continua, con elusiva indeterminatezza, ad essere un nuovo “domani”.
Mai lo stringeremo fra le dita, mai potremo dissetarci alle sue sorgenti: esso sarà sempre un passo davanti a noi, pronto  a sottrarsi non appena accostiamo le mani e le labbra, come nel supplizio di Tantalo.
Solo il presente è veramente: noi siamo in esso ed esso è in noi.
Il Sole che splende, il Sole che arde nel cielo e che investe il nostro viso con i fiotti della sua luce, rappresenta l’eterno presente della nostra vita.
I suoi raggi ci scaldano adesso, la sua luce ci inebria adesso: non ieri, non domani; e non altrove, ma proprio qui, qui dove siamo noi ora, con i piedi ben piantati al suolo e, tuttavia, con l’anima già predisposta ad accogliere il dono dell’Altro.
Questa è la dialettica della vita: che il presente non esclude, ma include il passato ed il futuro; e che il qui non esclude, ma include l’altrove:;per dir meglio: che il qui ed ora sono solo una porta, una porta per entrare nella dimensione dell’Assoluto.
Ma attenzione: una porta, non una scorciatoia; non si può scambiare il punto d’arrivo per il punto di partenza.
Chi vuole fuggire dal qui ed ora, non è degno di varcare quella porta; solo chi sa attraversare il qui ed ora in tutta la sua pienezza, con tutte le sue ombre e sue luci, con le sue gioie e i suoi dolori, solo costui ne è realmente degno.
Non si può sapere quanto la strada sarà lunga.
Perciò è da stolti calcolare i giorni e le ore che ci separano dalla meta, come è da pavidi scoraggiarsi perché non la si scorge all’orizzonte.
Non si possono fare calcoli, non esistono tabelle di marcia; e, soprattutto, non esistono trucchi o scorciatoie, furbizie o piccoli espedienti.
Arriveremo quando sarà il momento; o, per parlare in modo più appropriato: la meta ci verrà incontro quando noi saremo pronti.
Infatti, non siamo noi che ci avviciniamo ad essa, ma essa che brilla sempre davanti a noi: ma, per rendersene conto, è necessario fare molta strada.
E tuttavia non siamo noi a fare tutta quella strada, ma la forza che è in noi e che guida i nostri passi lungo la via dell’Amore.
È un mistero: noi crediamo di camminare e, a tratti, ci sentiamo davvero molto affaticati, come se fossimo stanchissimi: i nostri piedi sono piagati e sanguinanti. Ma la verità è che non siamo andati avanti neppure di un metro: abbiamo camminato sul posto.
Non è stato inutile, però; nulla è mai inutile.
Se i nostri piedi non si fossero piagati, testimoniando l’ardore della nostra ricerca, i nostri occhi non si sarebbero aperti, a un certo punto, permettendoci così di vedere.
La luce era sempre lì, davanti a noi; ma noi non eravamo capaci di vederla, perché i nostri occhi erano chiusi.
Chiusi dall’ignoranza e dalla presunzione; chiusi dalla paura e dalla brama; chiusi dalle mille voci e dai mille rumori del nostro piccolo Ego.
Solo allora capiremo che eravamo già arrivati, che eravamo già nell’Assoluto: ma non lo sapevamo.