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Cambiamenti anti-occidentali

di Roberto Zavaglia - 20/02/2011

Non appena si è capito che le rivolte in Tunisia ed Egitto avrebbero potuto abbattere i regimi, le agenzie intenzionali di rating hanno “declassato” i due Paesi. L’instabilità politica causa serie turbative ai mercati. Nonostante la pessima fama accumulata negli ultimi anni, Moody’s e le altre erinni della certificazione finanziaria hanno dettato la linea politica dell’Occidente. Stabilità è, infatti, la parola più pronunciata e l’auspicio espresso con maggiore insistenza da tutte le cancellerie a proposito delle crisi in Medio Oriente.
  Nel giudicare l’atteggiamento con cui l’Occidente guarda a quanto sta avvenendo sulla sponda Sud del Mediterraneo, bisogna distinguere tra i governi e il cosiddetto discorso pubblico. Con gli autocrati deposti e con quasi tutti i loro colleghi attualmente in bilico Stati Uniti ed Europa intrattenevano buoni rapporti: li hanno sostenuti economicamente e politicamente, hanno concluso affari reciprocamente vantaggiosi, se ne sono serviti per rafforzare la propria influenza. Non è quasi il caso di ricordare che i dogmi dell’ideologia dei diritti umani non hanno, in questi casi, turbato le relazioni con regimi che anche sulla galera e la tortura per gli oppositori si reggevano.
  L’Egitto in particolare, per le sue dimensioni e per i suoi rapporti pacificati con Israele, era considerato cruciale da Washington che vi ha riversato, negli anni, una quantità enorme di aiuti, soprattutto di carattere militare. Oggi, Obama, in una continua rincorsa agli avvenimenti, si congratula per la  libertà conquistata a piazza Tahir, dopo che il suo segretario di Stato, quando ancora sembrava che la rivolta potesse essere sedata, non aveva fatto mancare la sua solidarietà a Mubarak. Il presidente Usa si è mostrato più abile di Sarkozy che ha sostenuto Ben Ali quasi fino al momento in cui questi ha dovuto precipitosamente scappare in Arabia Saudita. Non è comunque sorprendente che gli europei e, soprattutto, gli Stati Uniti, la sola potenza che conta davvero nella regione, si preoccupino che ai regimi amici non se ne sostituiscano altri meno “affidabili”. Fa parte del realismo politico che uno Stato cerchi di tutelare i propri interessi e di mantenere la propria influenza all’estero.
  Anche l’Italia deve guardarsi dagli effetti indiretti, come il possibile arrivo di masse di immigrati sulle sue coste. Senza considerare che il nostro governo, nel caso dovesse cadere pure Gheddafi, si troverebbe in qualche imbarazzo dopo gli accordi politici ed economici firmati col bizzarro capo libico. Meno realistico è stato l’atteggiamento precedente dell’intero Occidente rispetto a personaggi e regimi ampiamente screditati a livello popolare. Si è mostrata grande sorpresa per le rivolte (ma come, il Pil sta crescendo in quei Paesi!) che invece, almeno in situazioni come quella egiziana, erano abbastanza prevedibili, anche se non con la forza e la rapidità viste. Sarebbe stato opportuno tenere qualche contatto discreto anche con i principali gruppi di dissidenti, dimostrando alle popolazioni che fare affari con i regimi non significava la totale acquiescenza nei confronti dei loro crimini. In fin dei conti, dovrebbe esistere una via intermedia tra l’esportazione a mano armata della democrazia e il sostegno incondizionato ai dittatori sparsi per il mondo.
  Se l’ottica dei governi oggi è comprensibile, diverso è il giudizio che occorre riservare alle prese di posizioni di opinionisti e commentatori vari. Ci raccontano sempre che da noi gli intellettuali hanno una funzione critica rispetto al potere. Invece, c’è stato un allineamento quasi assoluto alla richiesta di una stabilità da ritrovare al più presto per quei Paesi scossi da mutamenti ancora da decifrare. Il pretesto è stato quello del timore per un’eventuale affermazione dei fondamentalisti religiosi, incarnati da quei Fratelli musulmani spesso ignorati nella loro reale identità e talvolta pure sopravvalutati in merito alla loro forza.  
  Il richiamo alla stabilità di giornalisti e studiosi deriva, in realtà, dalla convinzione che i futuri cambiamenti debbano fermarsi al minimo indispensabile, non oltrepassando la soglia del conosciuto. E’ con sollievo, dunque, che è stata salutato l’intervento dell’esercito che, tanto in Tunisia come in Egitto, si è fatto garante della transizione. Governino dunque i militari finché i popoli non siano pronti per la democrazia come la si intende a casa nostra. L’auspicio della grande stampa è quello che, alla fine, possano uscire dalle urne governi intenzionati a mantenere l’apertura dei mercati e le regole del liberismo garantite precedentemente. A quel punto la “libertà” potrà dispiegarsi nel modo più ampio. Ovviamente, un altro elemento che il futuro Egitto dovrà conservare è l’amicizia con Israele.
  Noi la pensiamo diversamente. Per quanto riguarda Israele, non auspichiamo certo una guerra, ma siamo convinti che, se il popolo egiziano potesse esprimersi davvero liberamente, metterebbe da parte il collaborazionismo del precedente regime. Più in generale, crediamo che i Paesi arabi, non di stabilità, ma di cambiamenti radicali abbiano bisogno. La presenza israeliana e l’influenza statunitense nella regione non devono più essere una scusa per la sopravvivenza di classi dirigenti  incapaci, corrotte, roboanti nelle dichiarazioni, ma inette nel governo. Le rivolte non sono delle rivoluzioni politiche, mancando di una “visione ideologica” complessiva, ma potrebbero essere l’inizio di una rivoluzione culturale. Sarebbe ora che in questa regione, afflitta da molti problemi, ma ricca di cultura e spesso anche di ricchezze naturali, la società civile si muovesse per migliorare lo standard di governo della cosa pubblica che, attualmente, è fra i peggiori del mondo.
  Oggi, i popoli in rivolta, sia pure in maniera confusa e contraddittoria come sempre avviene in questi casi, chiedono trasparenza nelle decisioni, libertà civili, maggiore giustizia sociale, fine del potere amministrato da clan tribali e familiari. E’ con un taglio netto e non con piccoli cambiamenti, che conservino intatto il peso economico e sociale delle vecchie classi dirigenti, che, forse, si potrà muovere qualche passo su questa via. Le piazze esprimono una  speranza che –non siamo dei sognatori- verrà in buona misura disattesa. Non spetta all’Occidente, però, reprimerla. In Europa, invece, l’idea di un cambiamento di sostanza nella vita pubblica appare incomprensibile, avendo la politica perso le sue prerogative essenziali. Sugli altri popoli gettiamo lo stesso sguardo rassegnato con cui osserviamo le nostre società.
  Abituati a una democrazia quasi del tutto formale, non crediamo nella possibilità di sistemi politici differenti dal nostro. La stabilità invocata in Occidente sottende la convinzione che non possano esserci alternative di valore, ma solo scelte differenti di efficienza economica. La nostra idea-guida, che vorremmo esportare ovunque, è quella della “governance”, un termine, sempre sulla bocca dei politici di destra e di sinistra, di origine aziendale, che impone le regole della gestione privata alla cosa pubblica. La miseria della nostra politica, il suo progressivo esaurirsi, esclude che ci si possa confrontare su differenti modelli di sviluppo e di convivenza civile. Le elezioni sono lo sfogo delle varie tifoserie per decidere quali differenti cordate di potere amministreranno l’indiscusso sistema economicista pre-impostato. Ma forse quelli che stanno rischiando la pelle in Medio Oriente, dal futuro, si aspettano di più di qualche talk-show televisivo e dei pettegolezzi sulla vita del proprio capo di governo.