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Che brutto affare, non avere una politica estera mentre il Mediterraneo sta per saltare in aria

di Francesco Lamendola - 23/02/2011

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«È stato peggio di un crimine: è stato un errore», disse il ministro Talleyrand, uno che di politica se ne intendeva parecchio, quando Napoleone fece rapire, processare e condannare a morte il duca di Enghien, nell’ormai lontano 1804.
Parafrasando un po’ l’abate Talleyrand, si potrebbe dire che c’è solo una cosa peggiore dell’avere condotto una politica estera sbagliata, e cioè il non avere avuto affatto una politica estera, né giusta né sbagliata, ed il continuare a non averla.
Certo, non sarebbe giusto scaricare la clamorosa assenza di politica estera dell’Italia sul solo governo Berlusconi, né rimproverargli i suoi rapporti privilegiati con personaggi come il colonnello libico Gheddafi, visto che Prodi e D’Alema, prima di lui, non si erano regolati in maniera molto diversa, né avevamo mostrato una maggiore capacità di discernimento e lungimiranza.
È pur vero che, nella sciagurata partnership italo-libica degli ultimi anni, Berlusconi ci ha messo molto di suo: della sua rozzezza, del suo dilettantismo, della sua megalomania un po’ stracciona e parecchio fanfarona.
Sì, l’Italia ha bisogno del petrolio della Libia: per la precisione, dalla sua ex colonia (che allora non aveva alcun valore economico, era uno “scatolone di sabbia” che  costituiva una pura perdita per il nostro erario) proviene di che soddisfare il 24% del nostro fabbisogno di greggio, attraverso l’oleodotto che passa sotto il Canale di Sicilia, e il 10% di quello di gas naturale.
E tuttavia, una domanda: era proprio necessario adulare un tipo come Gheddafi, permettergli di fare il buffone nelle visite ufficiali a Roma, stile Disneyland, con tanto di cavalcate beduine; pagarlo fior di quattrini per i «danni di guerra», proprio lui, che nel 1969 ha derubato e cacciato i nostri coloni dal suo Paese, come l’ultimo dei predoni del deserto? E vendergli, anzi regalargli, le motovedette con le quali ha mitragliato i nostri pescherecci in acque internazionali, e per giunta con i nostri militari a bordo?
Oltre al danno, anche la beffa: nessun Paese consapevole della propria dignità sarebbe arrivato a concedergli tanto, a sopportare tanto.
Una cosa è tenersi buoni quei compagni di strada di cui non si può assolutamente fare a meno; un’altra cosa è adularli, ricoprirli d’oro, ostentare amicizia personale, stima e apprezzamento per dei cinici dittatori paranoici, che qualunque governo serio tiene a debita distanza e con i quali intrattiene soltanto i rapporti strettamente necessari.
Certo, non solo questo governo e non solo i governi italiani degli ultimi quarant’anni, ma un po’ tutto l’establishment culturale italiano ha sempre fatto la parte del coniglio, davanti a dittatori spietati, ma sostanzialmente sbruffoni, come Gheddafi: leggere l’opera in due volumi «Gli Italiani in Libia» del nostro massimo africanista, Angelo Del Boca, per vedere sino a che punto la vulgata di sinistra riesce a manipolare i fatti, per giungere alla scontata e marxiana conclusione che tutto il colonialismo italiano non è stato che una galleria di crimini, errori e inutili violenze e che, dopo il 1945, tutto quel che hanno fatto i governi delle nostre ex colonie è stato sempre giusto e sacrosanto, mentre tutto quel che ha fatto l’Italia, Paese di biechi ed infami ex colonialisti, è stato sempre turpe e vergognoso.
Si dice: ma l’accordo con la Libia era necessario per porre un freno alla immigrazione clandestina, perché solo quel governo poteva intervenire a monte del fenomeno, bloccando gli imbarchi.
Benissimo: e adesso che il dittatore fa mitragliare e bombardare i suoi concittadini, per restare al potere qualche altro decennio e poi lasciarlo nelle mani avide del figlio, come faremo a fronteggiare una ondata di immigrati clandestini che sarà dieci volte, venti volte più massiccia e incontenibile di quelle degli scorsi anni, allorché proveniva dall’Africa sub-sahariana e si serviva della Libia come di un mero Paese di transito?
Le dittature brutali, di tanto in tanto, cadono: davvero nessuno poteva immaginarselo, a Palazzo Chigi e alla Farnesina?
E i nostri ambasciatori, i nostri consoli all’estero, che cosa li paghiamo a fare, se cadono dalle nuvole come il più ignaro e sprovveduto dei nostri concittadini, che non legge mai la stampa e che al telegiornale preferisce i reality e  giochi a quiz?
Che dire, ancora, dei nostri addetti ed istruttori militari all’estero: servono solo come commessi viaggiatori delle armi che vendiamo, oppure, ogni tanto, si ricordano di inviare alle autorità militari e civili italiane anche qualche relazione su quel che bolle in pentola in quei Paesi, particolarmente ove abbiamo dei rilevanti interessi economici?
E che dire della dichiarazione di Berlusconi che, mentre già la Libia stava precipitando nel baratro della guerra civile a causa del feroce attaccamento del Rais al potere, non ha voluto telefonargli ed invitarlo a fermare la repressione, «per non disturbarlo»?
Che dire dell’intervista in cui Berlusconi ha definito Mubarak, quando già il popolo egiziano era in piazza a chiederne con forza la cacciata, «un uomo saggio», stimato e apprezzato da tutti i governi occidentali?
Che dire di Frattini, un ministro degli Esteri che si è accodato, goffamente e malvolentieri, alla nota congiunta dell’Unione Europea contro i massacri libici di Gheddafi, solamente dopo giorni e giorni di assordante silenzio?
Che dire del fatto che Frattini, in Parlamento, negli ultimi due anni, ci è andato una volta sola e non per riferire sui problemi internazionali ed, in particolare, sulle drammatiche tensioni sorte nella sponda sud del Mediterraneo e nel Medio Oriente, ma sulle carte provenienti dallo Stato di Saint-Lucia, paradiso fiscale dei Caraibi, concernenti la contestata proprietà della ben nota casa di Montecarlo: oltretutto, non a seguito di una formale richiesta da parte del governo italiano, ma del partito del presidente del Consiglio, deciso a silurare in ogni modo il presidente della Camera, Gianfranco Fini?
Quanta piccineria, quanto provincialismo, quanta penosa inadeguatezza traspaiono da siffatti comportamenti, da simili discorsi; quanta furbizia d’accatto, quanto machiavellismo di bassa lega, quanta assenza di prospettive a largo respiro.
I Paesi islamici, dal Marocco all’Iran, sono, oltretutto, i nostri principali partner commerciali; la Borsa di Milano è sensibile a quello che vi accade, come un sismografo di altissima precisione; una grande banca, come la Unicredit, è interessata da una forte presenza di capitale libico; imprese italiane aprono cantieri ogni giorno, si può dire, in quei Paesi, per la realizzazione di grandi opere pubbliche, strade, dighe, ponti.
Sono dati di fatto più che sufficienti a giustificare una attiva politica estera italiana in direzione di quell’area; Paesi occidentali che vi hanno interessi finanziari, commerciali e strategici assai più modesti, possiedono una linea diplomatica molto più definita, molto più articolata, molto più attenta e lungimirante della nostra.
E, se tutto ciò non bastasse, c’è la vicinanza geografica: le isole di Lampedusa e di Pantelleria giacciono a un tiro di schioppo dalla costa africana, il «popolo delle zattere» può giungervi persino con delle barchette a remi, quando il mare è calmo.
E il governo francese, il governo tedesco, il governo inglese, che cosa avrebbero fatto, se le motovedette tunisine o libiche avessero aperto il fuoco contro le loro flottiglie da pesca, come è avvenuto, per anni ed anni, a danno delle nostre?
Che avrebbero fatto, se un missile fosse stato sparato contro il loro territorio metropolitano, anche se, fortunatamente, senza colpire il bersaglio, come fece la Libia nel 1986 contro Lampedusa?
Sarebbero stati zitti e avrebbero incassato in silenzio, senza mostrare un minimo di fierezza e di energia, anzi, quasi con l’aria di domandare scusa all’aggressore?
Brutto affare, di questi tempi, non avere una politica nei confronti della sponda sud del Mediterraneo; non avere una politica estera verso il mondo islamico, che non sia servilmente appiattita su quelle degli Stati Uniti e d’Israele, come si è visto anche in occasione delle sedicenti «missioni di pace», tanto in Irak che in Afghanistan.
Peggio ancora: bruttissima cosa non avere affatto una politica estera; non averne alcuna, né bella né brutta: perché dagli errori si può sempre imparare e poi, se si è coerenti, si guadagna la stima degli stessi avversari; ma, se si vuol fare troppo i furbi e trovarsi sempre dalla parte del più forte, si guadagna solamente il disprezzo generale.
E qui si arriva al nocciolo del problema. Per avere non diciamo una politica estera saggia e coerente, ma una politica estera qualsiasi, bisogna essere uno Stato sovrano: le colonie e i protettorati non hanno una politica estera, né ce l’hanno gli Stati vassalli e gli Stati fantoccio.
L’Italia, dopo il 1945, è un Paese a sovranità limitata; e lo è ancor più da quando, nel 1949, ha deciso di aderire all’Alleanza Atlantica.
Ammettiamo che tale scelta abbia offerto protezione all’Italia, durante gli anni della Guerra Fredda, contro possibili minacce dall’Est: invero abbastanza improbabili, visto che già dal 1948 Tito aveva rotto con Stalin e, dunque, la Cortina di Ferro non passava per la nostra frontiera orientale; e, per il ritorno di Trieste alla madrepatria, nel 1954, dovemmo sbrigarcela sostanzialmente da soli (e perfino il governo Scelba, in quella occasione, si era mostrato più risoluto di quanto lo saranno i governi successivi, dato che non aveva esitato a mettere l’esercito in stato di allarme, in vista di un possibile confronto con la Jugoslavia).
Ammettiamo, dunque, ma senza crederci troppo, che l’adesione alla N.A.T.O. sia stata una vitale necessità per la nazione in tempi di Guerra Fredda (e sorvoliamo, per carità di patria, sul coinvolgimento U.S.A. in molti gravi episodi di terrorismo degli «anni di piombo»).
Resta il fatto che dal 1989, con la caduta del Muro di Berlino e la successiva disintegrazione dell’Unione Sovietica, quella necessità ha avuto fine, non essendoci più il Patto di Varsavia a minacciare il nostro Paese, così come gli altri dell’Europa occidentale.
A partire da quel momento, gli interessi strategici degli Stati Uniti si sono sempre più differenziati da quelli dei Paesi europei, spostandosi in direzione dei Balcani, del Nord Africa, del Vicino e Medio Oriente, dell’Asia centrale. Lo schieramento missilistico e aeronavale statunitense si è riposizionato, trasferendo il proprio baricentro dall’Europa continentale (Germania) al Mediterraneo (Italia) e facendo di Aviano, in provincia di Pordenone, la maggiore base missilistica ed aerea dell’intero continente europeo: una pistola puntata verso l’Est, come si è visto in occasione della guerra contro la Serbia del 1999.
I nostri uomini politici dovrebbero, però, domandarsi: la politica estera americana è ancora un elemento di sostegno e di difesa dei nostri interessi nazionali, o è divenuta un fattore di ostacolo e di impedimento?
Il nostro coinvolgimento militare in Irak e in Afghanistan, all’ombra della bandiera N.A.T.O., ma, in realtà, al servizio di interessi strategici puramente americani, è davvero compatibile con i nostri interessi strategici vitali?
La politica filo-israeliana e, di fatto, anti-palestinese, dei nostri governi più recenti, e particolarmente di quelli guidati da Berlusconi, è davvero in linea con l’interesse nazionale, tanto a livello politico quanto a livello economico, visto che ci mette in una posizione a dir poco ambigua nei confronti di tutto il mondo islamico?
Sono queste le domande che dovremmo farci; che i nostri governanti si dovrebbero fare; che i nostri sedicenti esperti, politologi, storici, economisti, opinionisti e tuttologi dovrebbero sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica.
Non sarebbe ora, a oltre sessant’anni da quando le Forze Amate statunitensi ci hanno generosamente liberato dal Fascismo, cioè da noi stessi, che se ne tornassero a casa loro; e che noi ritrovassimo la dignità e la fierezza di riappropriarci della nostra politica estera, non da gregari che si possono mortificare in qualunque momento (vedi l’affaire Calipari), ma da protagonisti dello scenario mediterraneo e anche di quello centro-europeo, cui pure apparteniamo di fatto e di diritto?