Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Grane libiche in Italia

Grane libiche in Italia

di Roberto Zavaglia - 27/02/2011

L’italia deve affrontare gravi problemi in arrivo da quella che, un tempo, fu (o doveva divenire) la sua Quarta Sponda. Una delle maggiori ricadute internazionali del sanguinoso caos che scuote la Libia è, ovviamente, quella degli approvvigionamenti energetici. La Libia produce meno del 2% del petrolio mondiale, ma il nostro Paese ne dipende per il 24% del suo consumo totale. Anche se l’Eni e il governo rilasciano dichiarazioni tranquillizzanti, è chiaro che una sospensione prolungata delle importazioni di greggio ci metterebbe in difficoltà.
  Non solo per questo, l’Italia è lo Stato più coinvolto dalla crisi libica. Anche a non volere considerare la nostra, nel bene e nel male, “responsabilità storica” verso quel Paese, ci sono gli investimenti finanziari libici in Italia e i notevoli interessi di alcune grandi aziende nazionali nella nostra ex colonia a rendere speciali i reciproci rapporti. Il problema è che, in tutta evidenza, il governo italiano non sa che pesci pigliare. Come ha ammesso il ministro degli Esteri Frattini, “il problema della Libia è che a parte Gheddafi non conosciamo niente altro. E adesso ci è impossibile immaginare un futuro, dopo di lui”. Il che, anche se Frattini non se ne rende conto, non è certo una lode per il suo ministero, incapace di procurarsi informazioni su un Paese strategico.
  Il ministro si dice anche preoccupato per l’eventualità dell’instaurazione di un Emirato islamico nella Cirenaica liberata dagli sgherri di Gheddafi. E’ il solito pericolo islamista, evocato un po’ da tutti per i cambiamenti in corso in Medio Oriente, prima ancora che ve ne siano tracce evidenti. Le rivolte arabe, per il momento, non sembrano andare in quel senso e gli stessi dirigenti dei partiti islamici dichiarano continuamente di volere essere parte di nuovi sistemi pluralisti. Ammettiamo pure che si tratti di una diabolica finzione per ingannare l’Occidente, non ci sembra comunque che questo sia il problema principale di questi giorni nei quali migliaia di persone muoiono per liberarsi dei despoti al potere.
  C’è un altro motivo, attinente alla cronaca politica più che alla storia o ai grandi interessi economici, per cui oggi l’Italia si trova in difficoltà. Ci riferiamo all’ “amicizia” di Berlusconi con Gheddafi, che, sbandierata in ogni occasione, è presente nella mente dei libici sottoposti alla dura repressione ordinata dalla “Guida della rivoluzione”. Basterebbe ascoltare, su Al Jazeera in lingua inglese, i commenti di alcuni dei rivoltosi a questo proposito per esserne coscienti. Del resto, l’ultimo visita ufficiale di Gheddafi a Roma è stata indimenticabile. Chi non ricorda le sue lezioni sul Corano impartite a centinaia di hostess o il corso accelerato di democrazia, basato sui sacri principi della Jamahiriya, che si è degnato di concedere agli italiani? Più grave, per la dignità nazionale, fu l’esibizione del colonnello libico all’inaugurazione della mostra sugli “orrori” del colonialismo italiano, quando ci propose un’interpretazione unilaterale e piena di falsità di quella che è anche la nostra storia, senza alcuna replica da parte dei nostri esponenti di governo presenti.
  La diplomazia personalistica di Berlusconi -praticata come un rapporto diretto fra leader che si intendono grazie alle proprie capacità “straordinarie”, fuori dagli inutili formalismi- gli si sta, in questo caso, ritorcendo contro. E rischia di danneggiare l’Italia in quella che sarà la Libia del futuro. Essere conosciuti in tutto il mondo come un fraterno amico di un macellaio del suo popolo non è un bel biglietto da visita. Certo non ha migliorato la situazione la dichiarazione di Berlusconi sulla sua volontà di “non disturbare” Gheddafi, quando gli è stato chiesto se lo avesse chiamato per suggerirgli un atteggiamento più moderato. Come se si trattasse di fare una telefonata a un cugino per sincerarsi delle sue condizioni dopo un’operazione di appendicite…
  Nei rapporti con il capo libico, Berlusconi ha mantenuto, in sostanza, la linea di tutti i precedenti governi che intendevano tutelare gli interessi italiani, offrendo collaborazione e chiedendo commesse per le nostre aziende, come del resto facevano gli altri Paesi europei. Ci ha però aggiunto qualcosa di più sia, come detto, sul piano della forma, come su quello della politica. Il Trattato di amicizia italo-libico prevede, per esempio, una sia pur generica cooperazione militare della quale non si avvertiva il bisogno. Berlusconi, con tutte le sue smancerie verso l’autore del “Libro verde”, ha recato inoltre un’offesa alle migliaia di italiani espulsi dalla Libia, che ancora attendono i  risarcimenti per i beni espropriati. Quelle persone, in un certo modo, ricevettero dalla Patria la stessa accoglienza indifferente, se non ostile, con cui furono trattati, anni prima, i profughi istriani e dalmati. A testimonianza di un ignobile tratto di continuità della nostra storia, in cui la Seconda Repubblica non si differenzia dalla Prima.
  Il realismo che ha ispirato le relazioni dell’Italia con il regime di Gheddafi dovrebbe ora continuare, mutando completamente di segno. Dopo i tentennamenti dei primi giorni della rivolta, occorre schierarsi senza ambiguità dalla parte dei ribelli. Il nostro ministro degli Esteri dovrebbe liberarsi delle sue trepidazioni su inesistenti Emirati islamici e concentrarsi nella preparazione di un grande piano di aiuti da inviare nelle regioni della Libia già liberate, dove c’è bisogno di viveri e di medicinali. Potremmo così guadagnare punti presso quelle forze politiche che si stanno organizzando e si candidano a guidare il Paese. Se anche Gheddafi riuscisse, per un certo periodo, a mantenere il controllo di una parte del territorio, non si potrebbero mantenere con lui i rapporti precedenti, ora che si è macchiato di tanto sangue. Occorre, dunque, rischiare e assumere una posizione netta in un Paese che per noi rimane strategico.
  C’è poi il problema dei profughi sul cui numero non c’è certezza. La Lega araba parla di 300mila persone che potrebbero fuggire dalla Libia, mentre fonti dell’Unione europea indicano una cifra tra i 500mila e il milione e mezzo di immigrati diretti verso le coste dell’Europa meridionale, in seguito alle rivolte nel Nordafrica. Come spesso accade in sede comunitaria quando un problema minaccia solo una parte degli Stati aderenti, a Bruxelles si assiste a uno scaricabarile di responsabilità. Il nostro governo lamenta che l’Unione non ci abbia ancora garantito gli aiuti necessari. Eppure, dal 2004, è attiva l’agenzia europea Frontex, sorta, tra l’altro, per “aiutare gli Stati membri che devono affrontare circostanze tali da richiedere un’assistenza tecnica e operativa rafforzata alle frontiere esterne”.  
  Nella malaugurata evenienza di un’invasione di disperati, vedremo se, almeno in questo caso, gli organismi europei servono a qualcosa oltre che a pagare lo stipendio dei propri dipendenti. Il ministro degli Interni Maroni ha quantificato in 100 milioni di euri l’aiuto finanziario di cui avremmo bisogno. Una cifra tutto sommato non gigantesca che si potrebbe trovare stornandola da un’altra ingente spesa della nostra politica estera. Mercoledì scorso, infatti, il Senato, con il solo voto contrario dell’Idv, ha rifinanziato la missione in Afghanistan, con un costo,  per i soli primi sei mesi di quest’anno, di 395 milioni di euri. Se fossimo davvero un Paese libero e sovrano, cancelleremmo quegli investimenti utili solo per gli interessi degli Usa e ce ne serviremmo per difendere il nostro di interesse nazionale, compiendo pure una meritoria azione umanitaria di grandi proporzioni.