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Descolarizzare la società

di Carlo Conte - 02/03/2011

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Descolarizzare la società è dal punto di vista cronologico la prima opera importante di Ivan
Illich, ma la descolarizzazione può essere considerata anche la prima tappa necessaria
verso una società conviviale. Questa funzione “strategica” non viene però evidenziata, ma
solo accennata, in questo testo. Illich ne parlerà con maggiore enfasi, anche se solo
brevemente, in alcuni lavori successivi, in particolare nel saggio Capovolgere le istituzioni,
scritto cinque anni più tardi.
In questo contributo si descriveranno brevemente le ragioni per cui l’autore ritiene la
scuola un’istituzione dannosa, riprendendo sotto un’altra angolatura alcuni temi trattati da
Illich a proposito dei bisogni e degli strumenti-istituzioni dominanti, per poi evidenziare i
motivi che legano tale istituzione all’immobilismo sociale e politico. E’ comunque doveroso
ricordare che gli argomenti sollevati in Descolarizzare la società meriterebbero molto più
spazio (ad esempio non si farà accenno in questa sede alle proposte di Ivan Illich per
un’istruzione alternativa a quella scolastica). Allo stesso tempo è giusto sottolineare
l’attualità delle tesi di Illich ma anche la loro “pericolosità” dovuta ad un’originalità quasi
sovversiva. Non è un caso che in questi ultimi anni le principali opere di Illich siano state
ripubblicate, cosa che però non è (ancora) successa a Descolarizzare la società.
Innanzitutto la scuola pubblica obbligatoria per tutti ha miseramente fallito in quello che per
molti doveva essere la sua funzione principale, vale a dire l’emancipazione delle classi più
deboli.
“Il curricolo è sempre servito ad assegnare il rango sociale. In certi casi era prenatale: il
karma ti ascrive a una casta, il lignaggio all’aristocrazia. Oppure poteva assumere la forma
di un rituale, di una sequenza di ordinazioni sacre […] L’istruzione universale avrebbe
dovuto separare l’assegnazione del ruolo dalla storia personale; […] ma invece di
eguagliare le possibilità, il sistema scolastico ne ha semplicemente monopolizzato la
distribuzione.”1
Non solo gli elementi più poveri della società mediamente conseguono titoli di studio
inferiori rispetto ai ricchi, ma a ciò si è aggiunta la loro colpevolizzazione. E’ quello che
accade necessariamente ai servizi e alle istituzioni dell’era industriale, a quegli strumenti
che Illich definisce “dominanti”. Essi, tra le altre cose, producono la polarizzazione del
potere e la modernizzazione della povertà. Non solo le disuguaglianze sociali restano
intatte, ma a chi rimane indietro viene insegnato che ciò è dipeso da lui, e dunque “chi è
causa del suo mal pianga se stesso”:
“ […] la scolarizzazione a Puerto Rico era organizzata in modo tale che la metà degli
studenti – quella metà che proveniva dalle famiglie più povere – aveva una possibilità su
tre di portare a termine i cinque anni di istruzione elementare, cioè quelli obbligatori per
legge. Gran parte della discussione che si svolgeva intorno a me riguardava
l’innalzamento immediato degli anni della scuola dell’obbligo. Nessuno sembrava voler
fare i conti col fatto che la scolarizzazione serviva, almeno a Puerto Rico, a consolidare
l’originaria povertà della metà dei bambini con un nuovo, interiorizzato, senso di colpa per
non avercela fatta. Sono così arrivato alla conclusione che le scuole finiscono
inevitabilmente per essere un sistema che produce emarginati, anzi più emarginati che
integrati. E dato che la scuola offre sedici, diciotto, diciannove anni di carriera scolastica e
non chiude la porta in faccia a nessuno, non potrà che produrre un numero limitato di
successi e una netta preponderanza di fallimenti. […] le scuole […] funzionavano come
una sorta di lotteria dove quelli che non ce la facevano non perdevano soltanto ciò per cui
avevano pagato, ma rimanevano anche segnati per il resto della loro vita come individui
inferiori.”2
Inoltre i titoli di studio sono tra le merci a maggior tasso d’inflazione. Perciò anche nei
paesi “sviluppati” raramente, e solo con grandi difficoltà, un povero può permettersi di
pesare sulla famiglia fino al conseguimento di una laurea. Coloro che vi sono riusciti, con
enormi sacrifici, hanno potuto rendersi presto conto di essere stati vittime di una truffa: il
possesso di una laurea, anche col massimo dei voti, non garantisce più un impiego di
prestigio, ma spesso nemmeno un lavoro qualsiasi. Alla scala dei titoli è stato aggiunto un
nuovo gradino, per cui oggi senza un master non si va da alcuna parte. In altre parole
anche l’istruzione ha un’anima capitalistica: è una merce che si accumula, così che si
avvantaggia chi ne ha accumulata di più. In questo senso si può affermare che, generando
gerarchie, essa ha anche un carattere autoritario. Dunque la scuola è un’istituzione
moderna che presenta i caratteri tipici degli strumenti dominanti: essa esercita un
monopolio radicale e si fonda sull’assunto della superprogrammazione. L’istruzione è
inoltre trattata come una merce, e per questo è un bene soggetto a scarsità: la richiesta di
istruzione aumenta sempre più, ma l’offerta non riesce a star dietro alla domanda. Illich
avvertiva già nel 1971 che non sarebbe stato possibile aumentare all’infinito gli
investimenti nella scuola:
“Bisogna rendersi conto che la scuola obbligatoria eguale per tutti è, almeno
economicamente, inattuabile.”3
Il welfare vive ormai da quasi un trentennio una crisi profonda: le entrate fiscali non sono
sufficienti a garantire servizi per tutti. Lo stesso accade alla scuola: il divario tra ciò che si
dovrebbe fare e ciò che è effettivamente disponibile cresce di anno in anno. Dalle proteste
per i mancati rinnovi dei contratti dei docenti siamo così passati a tagli che colpiscono la
scuola nel suo complesso. Illich osserva che la scuola pubblica si finanzia con le entrate
fiscali, e al contempo mantiene le disuguaglianze sociali. Così accade che i poveri
contribuiscono con le loro tasse a finanziare un sistema che permette ai più ricchi di
fregiarsi di titoli di studio superiori. Egli arriva così ad un proposta, come sempre carica di
elementi provocatori, che consiste in primo luogo nell’eliminare i finanziamenti pubblici alle
scuole
“così che la scolarizzazione potesse diventare un oggetto di lusso ed essere riconosciuta
come tale.”4
In secondo luogo bisogna porre fine all’obbligo scolastico:
“Non ho nulla contro la scuola! Sono contro la scolarizzazione obbligatoria. […] Sono
convinto che da sempre le scuole combinano il privilegio per nascita con un nuovo
privilegio, ma soltanto quando diventano obbligatorie possono combinare la mancanza di
un privilegio per nascita con una discriminazione autoinflitta.”5
Illich non è perciò contrario alla diffusione dell’istruzione, ma al fatto che essa venga fatta
coincidere con la scolarizzazione obbligatoria:
“Certo il dare a tutti eguali possibilità d’istruzione è un obiettivo auspicabile e raggiungibile,
ma identificare questo obiettivo nella scolarizzazione obbligatoria è come confondere la
salvezza eterna con la chiesa. La scuola è divenuta la religione universale di un
proletariato modernizzato e fa vuote promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica.
Lo stato nazionale ha fatto propria questa religione arruolando tutti i cittadini in un
programma scolastico graduato che porta a una successione di diplomi e che ricorda i
rituali iniziatici e le ordinazioni sacerdotali di tempi lontani.”6
Quest’ultimo passo ci richiama al fatto che la scuola, in quanto istituzione dominante,
esercita un monopolio radicale. Ciò significa che solo la scuola ha la possibilità di
trasmettere il sapere, che ciò che uno sa è solo ciò che viene certificato dalla scuola. Il
sapere dell’autodidatta non conta nulla, e se si insegna agli uomini che non possono
imparare da soli, a poco a poco la loro creatività, le idee innovative, la fantasia non
potranno che ridursi fino a scomparire: il mondo rischia l’appiattimento e l’omologazione.
Inoltre Illich ci invita a riflettere sul fatto che le cose più importanti ogni persona le impara
invece proprio fuori della scuola, casualmente, semplicemente facendo cose, scambiando
esperienze ed opinioni, incontrando persone: non è lo studio della grammatica che ci fa
imparare una lingua, ma l’ambiente in cui viviamo con gli stimoli che offre (in Italia, ad
esempio, si studia la lingua inglese dalle elementari all’università, ma i risultati sono a dir
poco disarmanti).
“Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi
apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti.
[…] E’ fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad
amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di
un insegnante.”7
Un’istruzione uguale per tutti non può che mortificare le potenzialità umane, eppure
nessuno mette in discussione il monopolio radicale quando esso coincide con l’istruzione
scolastica obbligatoria. Pochi sono disposti ad ammettere che lo scopo della frequenza
scolastica è quello di conquistare un titolo che possa permettere l’accesso a qualche
posizione lavorativa, non certo quello di imparare qualcosa.
“E’ difficile sbarazzarsi del monopolio una volta che esso ha gelato la forma del mondo
fisico, sclerotizzato il comportamento e mutilato l’immaginazione.”8
Ma questa difficoltà aumenta esponenzialmente quando l’oggetto del monopolio radicale è
la scuola:
“La stessa persona che s’indigna vedendo uno stabilimento della Coca-Cola in una
bidonville dell’America Latina, spesso è orgogliosa della nuova scuola normale che sta
sorgendo lì accanto. […] La frode perpetrata dai piazzisti delle scuole è meno evidente ma
assai più sostanziale dell’affare concluso dal compiaciuto rappresentante della Coca-Cola
o della Ford, perché l’uomo di scuola avvezza la gente a una droga molto più impegnativa.
Frequentare la scuola elementare non è un lusso innocuo, ma assomiglia piuttosto
all’abitudine dell’indio delle Ande di masticare coca, che aggioga il lavoratore al padrone.”9
Ecco perché, secondo Illich, il cammino verso una società conviviale non può che partire
dalla descolarizzazione. La scuola obbligatoria finisce col causare il blocco
dell’immaginazione, ingessa la società costringendola entro i binari dello sviluppo: questo
è l’effetto di quello che Illich chiama “programma occulto”, cioè il rifiuto di qualsiasi sapere
alternativo in quanto potenzialmente destabilizzante:
“Una volta che ha accettato la necessità della scuola, un uomo, o una donna che sia,
diventa facile preda di altre istituzioni. Una volta che hanno permesso che la loro
immaginazione venisse plasmata da un insegnamento rigidamente pianificato, i giovani
sono inevitabilmente condizionati ad accettare qualsiasi forma di pianificazione
istituzionale. La cosiddetta istruzione soffoca gli orizzonti della loro immaginazione. Non è
neppure da dire che vengano traditi, ma semplicemente sono defraudati, perché gli è stato
insegnato a sostituire le aspettative alla speranza. Non avranno più sorprese, buone o
cattive, dagli altri, perché gli è stato insegnato che cosa possono aspettarsi da qualunque
persona che abbia ricevuto il loro stesso insegnamento. Da qualunque persona come da
qualunque macchina. Questo trasferimento di responsabilità dall’individuo all’istituzione,
specie quando lo si è accettato come un obbligo, è una garanzia di regresso sociale.”10
Inoltre la scuola, avendo un’essenza capitalistica, gerarchica e autoritaria, trasmette questi
suoi caratteri a tutti coloro che la frequentano, i quali svolgono inconsapevolmente la parte
delle oche di Lorenz:
“La scuola serve efficacemente a creare e difendere il mito sociale grazie alla sua struttura
di gioco rituale di promozioni graduate. L’ammissione a questo rituale di gioco è molto più
importante di ciò che si insegna o del modo in cui lo si insegna. E’ il gioco in sé che
ammaestra, che entra nel sangue, che diventa un abito mentale. Tutta una società viene
iniziata al mito del consumo illimitato di servizi. Al punto che la partecipazione simbolica al
rituale senza fine diventa obbligatoria e coercitiva dappertutto.”11
Il breve passo che segue ha il potere di far rabbrividire il lettore per la sua attualità a
distanza di quasi quarant’anni:
“In una società scolarizzata trovano una giustificazione didattica persino la guerra e la
repressione civile. Le guerre pedagogiche tipo Vietnam saranno sempre più accettate
come l’unico modo per insegnare alla gente il valore supremo del progresso illimitato […] a
meno che non cominciamo sin d’ora a liberarci dalla nostra arroganza pedagogica e dalla
convinzione che l’uomo possa fare ciò che non è possibile a Dio, e cioè manipolare gli altri
per la loro salvezza.”12
Il potere della scuola è così forte e subdolo da agire come un vero e proprio lavaggio del
cervello di massa. E’ questo il motivo per cui il cambiamento verso un mondo conviviale
non può che partire dalla descolarizzazione, come l’autore sostiene qui di seguito:
“La scuola fa dell’alienazione una preparazione alla vita. […] La nuova chiesa universale è
l’industria del sapere […] Per questo la descolarizzazione è la premessa indispensabile di
qualunque movimento per la liberazione dell’uomo.”13
Illich altrove afferma che il capovolgimento delle istituzioni, perché possa essere efficace,
deve essere simultaneo. Tuttavia da un punto di vista strategico il primo passo deve
consistere nel rovesciare la scuola obbligatoria:
“Ci sono delle ragioni strategiche per scegliere la “descolarizzazione” come prima tappa di
un programma più generale del capovolgimento delle istituzioni.”14
““La scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così
com’è”. Illich sa qual è il formidabile valore rivoluzionario della cultura come progressivo
processo di autocoscienza e quindi di acquisizione del giudizio critico, e per questo
denunzia la scuola come altrettanto formidabile disarmo di questo potenziale esplosivo.”15
Un altro motivo per modificare radicalmente il sistema di trasmissione del sapere consiste
nel fatto che una società ideale ancora non esiste, e dunque se si vuol tentare di arrivarci
è necessario fondere il sapere con la politica, facendo di quest’ultima una sorta di attività
di ricerca. Qui di seguito cercherò di chiarire questo aspetto.
Vi sono alcune domande che vengono spontanee dopo la lettura dei testi di Illich e della
sua analisi critica della civiltà industriale: a quale modello di società politica vuole aspirare
l’autore? Qual è il ruolo della tecnica ? Quest’ultima è giunta a superare i limiti della natura
al punto da essere ormai totalmente fuori controllo? E se un controllo è possibile, a chi
spetta? Può questo prescindere dalla stessa tecnica? Nonostante la forza della sua critica
nei confronti del mondo industrializzato, il pensiero di Illich sembra lasciare dello spazio
alla speranza. Egli, infatti, è cattolico, sia pur a modo suo, ed è probabilmente da questa
tradizione che trae un atteggiamento di speranzosa fiducia. Il concetto di speranza,
secondo Illich, va recuperato e deve riprendere il suo posto, oggi occupato dalle
aspettative. Quando parla di politica l’autore non invita per la verità a sperare in un mondo
migliore, ma a ragionare sui mali della società industriale per poi intraprendere un
cammino faticoso di liberazione. Ma in cuor suo egli nutriva questa speranza, e dovrà
ammettere nei suoi ultimi interventi di aver peccato di ottimismo. Spesso nei saggi scritti
nei primi anni settanta Illich sosteneva di scorgere la volontà di cambiamento da parte
della gente, ma negli anni successivi ha, in alcune occasioni, dichiarato di essersi
sbagliato:
“ […] all’incirca nel 1972, sono arrivato quanto più vicino possibile a stabilire alcuni principi
per una azione politica. Mi aspetto di fare meglio oggi? No. Allora credevo nella possibilità
di un vero e proprio balzo nelle coscienze, del quale parlavo alla fine de La convivialità.
Oggi temo che molte delle cose che me lo facevano credere siano cambiate.”16
Illich era in particolare convinto che la prima tappa verso la liberazione dallo sviluppo,
ovvero la descolarizzazione, fosse imminente. Ma anche su questo punto ha ammesso:
“Mi sbagliavo. […] Non pensavo che così tante persone fossero disposte a tollerare
un’assurdità simile. Ora che dopo venticinque anni sono tornato negli Stati Uniti e ho di
nuovo a che fare con la popolazione studentesca, talvolta la sera sono così triste che
faccio fatica ad addormentarmi.”17
Il suo modo di spingere con i suoi scritti verso un cambiamento politico e sociale può
richiamare in qualche modo la tradizione religiosa e filosofica classica: infatti la si potrebbe
definire politologia negativa, parafrasando (in modo sicuramente un po’ forzato) la teologia
negativa di Plotino e dei mistici medievali. Come il filosofo neoplatonico afferma, nello
scritto V, 3, delle Enneadi, che di Dio possiamo dire soltanto quello che Egli non è, ma non
diciamo quello che è, così Illich non ci descrive un mondo ideale e perfetto, ma soltanto
quali caratteristiche esso non dovrebbe assolutamente avere. Ma rispetto alla teologia
negativa qui la motivazione di fondo è diversa: non si tratta dell’impossibilità per la ragione
umana di determinare un concetto che è fuori dalla sua portata, ma della ricerca di
coerenza rispetto a quanto affermato a proposito della società conviviale. La forma
particolare che una società conviviale può assumere non può infatti essere decisa a
tavolino, perché essa è proprio quella società che ha deciso di non delegare agli esperti,
che si fonda sulla libertà delle persone di crearsi il mondo come meglio credono. La
società conviviale è una forma radicale di democrazia partecipativa che esige
l’emancipazione da qualsiasi forma di delega, e forse anche di rappresentanza (ma a
questo riguardo Illich non si esprime). La democrazia liberale, infatti, fondata sulla
separazione dei poteri, è diventata
“ […] l’eufemismo di un management pubblico di regole amministrative convalidate da una
congiura fra burocrazie pubbliche e agenzie professionali.”18
“In una democrazia deve derivare dai cittadini il potere di fare le leggi, di attuarle e di
amministrare la giustizia; con l’ascesa delle professioni costituite in chiese, questo
controllo dei cittadini sui poteri fondamentali è venuto a restringersi, a indebolirsi, e in certi
casi a cadere del tutto. Il governo esercitato da un’assemblea che basi le proprie
deliberazioni sui giudizi pronunciati da tali professioni può essere un governo per il popolo,
ma mai del popolo.”19
Illich perciò non vuole e non può ergersi al ruolo di “esperto” ma coerentemente invita le
donne e gli uomini ad essere protagonisti; egli si limita soltanto a mettere in guardia contro
quegli errori che necessariamente finirebbero col vanificare il cambiamento. Non edifica
una teoria preconfezionata, ma posa una prima pietra alla quale spera se ne
aggiungeranno altre. Nell’introduzione a La convivialità afferma:
“Vorrei che questo saggio contribuisse alla formazione di una tale teoria”20
Si potrebbe accusare Illich di essere stato poco chiaro, forse un po’ evasivo e poco
concreto. Ad esempio, a proposito della convivialità G. Cavallini ha scritto:
“Questo concetto è quanto mai vago. Oscilla tra la nostalgia arcadica di una presunta
innocenza della società preindustriale e il richiamo religioso alla purezza minacciata
dall’eterna ingordigia umana – oggigiorno espressa nel consumismo”.21
Ma si può rispondere che se è vero che il male del mondo industriale dipende
essenzialmente dal superamento dei limiti dettati dalla natura, dai suoi eccessi, allora una
critica ben fondata di questo male può già essere considerata una teoria politica, così
come lo scultore crea l’opera d’arte semplicemente togliendo materia da un blocco
informe. Su questo punto sembra, ed è strano per un cattolico, che Illich concordi con
l’intellettualismo etico socratico, concezione in base alla quale il male è causato
unicamente dall’ignoranza del bene. La conoscenza del male dovrebbe perciò essere
sufficiente ad evitarlo:
“ […] il capovolgimento strutturale delle nostre istituzioni principali […] non può verificarsi
finchè la gente non si è resa conto dell’illusione sottintesa dall’economia moderna. Una
volta che si è squarciato questo velo d’illusioni, tutte le istituzioni, come sono attualmente,
diventeranno vulnerabili.”22
Tra pochissimo, inoltre, si vedrà che un ruolo fondamentale per il raggiungimento di una
società conviviale spetta alla conoscenza, intesa come attività di ricerca libera. Ma prima
qui di seguito riporto alcuni passi che chiariscono quanto appena affermato a proposito
dell’indeterminatezza di alcuni concetti, e che inoltre dimostrano che l’autore era così
consapevole di queste possibili critiche da anticiparle in un paragrafo intitolato I limiti della
mia dimostrazione:
“Non mi servirebbe a nulla offrire un’immagine dettagliata della società futura. Voglio
fornire una guida all’azione e lasciare libero corso all’immaginazione. […] Non propongo
una utopia normativa, ma i presupposti formali di una procedura che permetta a
qualunque collettività di scegliersi continuamente la propria utopia realizzabile. […] Io non
propongo qui né un trattato di organizzazione delle istituzioni, né un manuale tecnico per
la fabbricazione dello strumento giusto, né un modo d’impiego dell’istituzione conviviale.
Non sono né il commesso viaggiatore di una tecnologia “migliore” né il propagandista di
una ideologia. Voglio solo definire degli indicatori che segnalino ogni qual volta lo
strumento manipola l’uomo, per poter bandire le attrezzature e le istituzioni che
distruggono il modo di vita conviviale. […] non fornisco ricette per cambiare l’uomo e rifare
una società nuova, e non pretendo di sapere come le personalità e le culture muteranno.
[…] Mi allontanerei ugualmente dal mio tema se mi occupassi di strategia o di tattica
politica. […] questo manifesto non può essere né un trattato e neppure un compendio di
etica.”23
Lo scopo dei lavori di Illich diventa allora quello di scuotere le coscienze, non di farvi da
guida. Non si può cambiare il mondo senza cambiare le coscienze: la società conviviale
presuppone dei cambiamenti radicali, richiede di rinunciare a beni e servizi senza i quali
molti pensano che non potrebbero vivere:
“ […] il passaggio dall’attuale stato di cose a un modo di produzione conviviale
rappresenterà per molti una minaccia alla loro stessa possibilità di sopravvivenza. […]
impegnarsi ad accelerare il ribaltamento del sistema di produzione attuale è impossibile
per chi non riconosca che questa inversione è il prezzo minore, l’unico modo per
sopravvivere. […] Perché sia possibile, la sopravvivenza nell’equità esige sacrifici che
sarebbero insostenibili se non fossero scelti consapevolmente.”24
Un cambiamento di questa portata non può dunque essere imposto, ma va scelto
consapevolmente dalla gente. Ecco allora che la società conviviale non può per
definizione essere descritta nei minimi particolari: sarà compito di ogni comunità scegliere
la forma più adatta di organizzazione sociale, determinare quali strumenti dovranno essere
limitati e decidere in quali termini, qualitativi e quantitativi, beni e servizi dovranno essere
ridimensionati o sostituiti. Insomma, ogni comunità, così come ogni persona, ha le proprie
caratteristiche che la rendono unica, ed è solo tenendone conto che è possibile
raggiungere un equilibrio senza rischiare di fare il passo più lungo della gamba.
“Può darsi che certi mezzi di produzione non conviviali risultino desiderabili in una società
postindustriale. E’ probabile che, anche in un mondo conviviale, certe collettività scelgano
di avere più abbondanza al prezzo di una minore creatività. […] In realtà non c’è alcuna
ragione per bandire da una società conviviale qualunque strumento potente, qualsiasi
strumento ragionato manipolabile e ogni produzione centralizzata. Nell’ottica conviviale,
l’equilibrio tra la giustizia nella partecipazione e l’uguaglianza nella distribuzione può
variare da una società all’altra, a seconda della storia, degli ideali e dell’ambiente della
società stessa. Non è essenziale che le istituzioni manipolatrici o i beni e i servizi capaci
d’intossicare siano del tutto assenti da una società conviviale. Ciò che conta è che tale
società realizzi un equilibrio fra gli strumenti che producono una domanda per creare e
soddisfare la quale sono stati concepiti, e gli strumenti che invece stimolano l’invenzione e
l’adempimento personali.”25
Ma trovare il giusto equilibrio non è sicuramente semplice, esso è fuori dalla portata delle
scienze esatte. Per questo Illich ci invita a considerare la politica anche come forma di
ricerca. E a proposito della questione posta poco sopra circa il ruolo della tecnologia, si
può affermare che per il Nostro essa non è necessariamente negativa; può invece
svolgere un ruolo essenziale in un mondo conviviale, purchè sia il frutto di un modo nuovo
di fare ricerca.
“La scienza e la tecnica sono alla base del modo di produzione industriale e per questo
fatto impongono l’accantonamento di ogni attrezzatura specificamente legata a un lavoro
autonomo e creativo. Ma questo processo non è contenuto in germe nelle scoperte
scientifiche, e non è neppure una conseguenza necessaria della loro applicazione. […] In
realtà, la ricerca al servizio dello sviluppo industriale tende a nascondere o a minimizzare i
risultati che non si prestano a una gestione centralizzata. […] Scienze della natura e
scienze dell’uomo potrebbero servire a creare strumenti, tracciare il loro quadro di
utilizzazione e stabilire le loro norme d’impiego in modo tale da garantire un’incessante
ricreazione della persona, del gruppo e dell’ambiente, un totale spiegamento dell’iniziativa
e dell’immaginazione di ognuno.”26
Dunque Illich riserva alla ricerca scientifica un ruolo determinante, ma ad una condizione:
che essa si metta al servizio dello sviluppo umano e sociale, e non dello sviluppo
industriale. Per fare questo la ricerca dovrà essere totalmente libera, non solo dagli
interessi dell’economia ma anche dai protocolli scientifici. Ognuno potrà darvi il proprio
contributo, senza dover essere nominato “ricercatore” da qualche istituzione. I soggetti
della ricerca devono essere gli stessi soggetti della politica, cioè tutti i membri della
comunità che desiderano farlo. Scopo principale della ricerca politica è la fissazione di
limiti mettendo in evidenza non le mancanze, ma ciò che è già a disposizione di tutti. In tal
senso si può parlare di “capovolgimento”:
“La politica attuale cerca degli accordi per ciò che dovrebbe essere considerato come
insufficiente e di conseguenza rifiuta di definire ciò che dovrebbe essere soddisfacente. La
politica auspicata dovrebbe ricercare un accordo per quel livello di beni che una
maggioranza considera sufficiente.”27
La ricerca allora serve a predisporre una base conoscitiva sulla quale fondare un
consenso perché, come già detto sopra, senza il consenso non si possono rovesciare le
istituzioni. Ma, nonostante la speranza per un simile risultato, Illich ammette che
“Le difficoltà di una simile ricerca sono evidenti. Il ricercatore deve per prima cosa dubitare
di ciò che appare a tutti ovvio. Deve in secondo luogo convincere i detentori del potere
decisionale ad agire contro i propri interessi a breve, o forzarli a farlo. Deve infine
sopravvivere come individuo in un mondo che egli cerca di cambiare radicalmente […]”28
Perché si possa iniziare a cambiare la società e le logiche che guidano la ricerca ci sarà
bisogno allora di uomini coraggiosi e determinati, uomini che Illich definisce “epimeteici”.
Epimeteo, nella mitologia greca, fu colui che, nonostante il divieto del fratello Prometeo,
sposò Pandora, “colei che tutto dona”. Quest’ultima fece scappare tutti i mali dal suo vaso,
ma non fece fuggire la speranza. Il Nostro invita uomini e donne a fare come Epimeteo,
cioè a scegliere liberamente di non ascoltare Prometeo ma di unirsi ai limiti come anche
alla speranza, per fondare una nuova umanità:
“Una nuova consapevolezza dei limiti della Terra e una nuova nostalgia possono oggi
aprire gli occhi agli uomini e portarli a condividere la scelta di Epimeteo che sposando
Pandora sposò la Terra. A questo punto il mito greco diventa una profezia carica di
speranze, perché ci dice che il figlio di Prometeo era Deucalione, il timoniere dell’arca che,
come Noè, resistette al diluvio e diventò padre di una nuova umanità, che egli fece
unitamente a Pirra, figlia di Epimeteo e di Pandora.”29
Con la sua opera Illich ha voluto proprio rendere più liberi gli uomini rendendoli
consapevoli dei limiti e della Necessità che governa le loro vite, affinchè si possano
affrancare dal dominio dei bisogni facendosi guidare dalla speranza. Perché
“Soltanto gli uomini liberi possono cambiare idea e avere sorprese; e se non esistono
uomini completamente liberi, alcuni sono certo più liberi di altri.”30


1 IVAN ILLICH: Descolarizzare la società, pagg. 36-37, Arnoldo Mondadori Editore, 1972
2 DAVID CAYLEY: Conversazioni con Ivan Illich, pagg. 26-27, Elèuthera - 1994
3 IVAN ILLICH: Descolarizzare la società, pag. 32, Arnoldo Mondadori Editore, 1972
4 DAVID CAYLEY: Conversazioni con Ivan Illich, pag. 28, Elèuthera - 1994
5 Ibid., pag. 31
6 IVAN ILLICH: Descolarizzare la società, pag. 34, Arnoldo Mondadori Editore, 1972
7 Ibid., pag. 61
8 IVAN ILLICH: La convivialità, pag. 81, Boroli Editore, Milano 2005
9 IVAN ILLICH: Per una storia dei bisogni, pagg. 95-96, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1981
10 IVAN ILLICH: Descolarizzare la società, pagg. 74-75, Arnoldo Mondadori Editore, 1972
11 Ibid., pag. 81
12 Ibid., pag. 90
13 Ibid., pag. 85
14 IVAN ILLICH: Capovolgere le istituzioni, tratto dal volume Illich in discussione, pag. 32, Emme Edizioni, Milano 1974
15 AA. VV.: Ripensando Ivan Illich. Dossier pubblicato su A Rivista Anarchica, anno 33, n. 294, novembre 2003 –
intervento di Pietro M. Toesca
16 DAVID CAYLEY: Conversazioni con Ivan Illich, pag. 72, Elèuthera - 1994
17 Ibid., pag. 33
18 ILLICH I.:Intervista ad Ivan Illich. Tratta da: L'inventario della Fierucola, n. 21/22, agosto 2002
19 IVAN ILLICH: Disoccupazione creativa, pag. 48, Boroli Editore, Milano 2005
20 IVAN ILLICH: La convivialità, pag. 14, Boroli Editore, Milano 2005
21 AA VV: Illich in discussione, pag. 10, Emme Edizioni, Milano 1974
22 IVAN ILLICH: Capovolgere le istituzioni, tratto dal volume Illich in discussione, pag. 34, Emme Edizioni, Milano 1974
23 IVAN ILLICH: La convivialità, pagg. 33-37, Boroli Editore, Milano 2005
24 Ibid., pagg. 32-33
25 Ibid., pagg. 46-47
26 Ibid., pag. 58
27 IVAN ILLICH: Capovolgere le istituzioni, tratto dal volume Illich in discussione, pag. 31, Emme Edizioni, Milano 1974
28 IVAN ILLICH: Per una storia dei bisogni, pag. 103, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1981
29 IVAN ILLICH: Descolarizzare la società, pag. 180, Arnoldo Mondadori Editore, 1972
30 IVAN ILLICH: Per una storia dei bisogni, pag. 104, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1981