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Che succede nel mondo arabo?

di Franco Cardini - 07/03/2011

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Il 1.3.2011 ho pubblicato sul quotidiano  “Il Tempo”,  di Roma con altro titolo, l’articolo che allego . In seguito, il direttore di tale giornale mi ha girato una lettera, a firma Ennio Emanuele Piano, nella quale si formulavano alcune critica; a tale lettera ho risposto con la replica che pubblico qui, di seguito all’articolo, datata 6.3.2011. Ignoro se il giornale la pubblicherà e dubito che lo farà integralmente. Per correttezza, ne ho inviato copia integrale e-mail al cortese interlocutore, come usano fare le persone intellettualmente oneste (infatti, non lo fa quasi nessuno).

Ero in Marocco, fino a qualche giorno fa. Leggevo i giornali europei e constatavo che molto suonava falso, che molto non tornava. Qualche giorno prima del 20 febbraio, mi avvertirono che in quella data si sarebbero mossi anche i marocchini: a Rabat, a Fez, a Casablanca, forse anche a Marrakesh e a Tangeri. Con maggior ordine, con minor durezza. “Il Marocco non è l’Egitto”, mi dicevano:  qui la gente è più disciplinata e la situazione sociale, politica ed economica migliore. Ma è anche gente più dura, e c’è una situazione etnica complessa – come in tutto il Maghreb – per via delle minoranze berbere. Quel che noi pensiamo sia soltanto tensione politica, in buona parte del Nordafrica è anche etnica e tribale: lo si è visto in Libia. Ma insomma, che cosa sta succedendo?
Da noi, i  media sono in evidente difficoltà nel comprenderlo e, peggio ancora, nello spiegarlo. I due elementi che parrebbero emergenti si mostrano altresì, quanto meno  se tradotti nel linguaggio divulgativo con cui si cerca di affrontare la politica internazionale, contraddittori. Da una parte, si dice, questa gente ha voglia di “democrazia”, di “entrare nella Modernità”. Dall’altra, si teme ch’essa si faccia plagiare e conquistare dai “fondamentalisti” o addirittura ceda alla violenza o al ricatto di al-Qaeda.
Cominciamo a far giustizia di un colossale e infondato luogo comune. “Al-Qaeda” non esiste. Non che non ci siano – intendiamoci  - maggiori o minori centrali di terrorismo nel mondo musulmano. Il punto è che sia i musulmani più estremisti e antioccidentali, sia le fonti politiche e informative occidentali meno inclini all’intesa o al dialogo, si sono da  tempo appropriati con paradossale concordia di questa specie di “iperleggenda metropolitana internazionale” dei giorni nostri. Nata come pura e semplice espressione convenzionale (“al-Qaeda” significa “base”) per indicare una ventina di anni or sono, al tempo della “prima guerra del Golfo”, qualunque gruppo o gruppuscolo terroristico in grado di appoggiare alla sua azione militare un minimo di propaganda politica, la parola ha finito col venir usata in senso intimidatorio sia dai terroristi per intimidire i loro avversari, sia dai    fautori della repressione indiscriminata per allarmare le rispettive opinioni pubbliche spingendole a credere che tutti i musulmani non filo-occidentali fossero dei fondamentalisti, che tutti i fondamentalisti fossero terroristi e che tutti i terroristi fossero collegati tra loro da un’istituzione politico-militare coordinatrice comune e da una generale concordia d’intenti. Al-Qaeda, in questa sorta di costruzione mitopoietica, è divenuta qualcosa di molto simile all’Organizzazione Spettro dei film di OO7 di alcuni anni fa.   Siamo davanti a un mostro immaginario che ricorda da vicino le organizzazioni di congiurati cari fin dal Sette-Ottocento alle varie “teorie del complotto”: Umberto Eco ne ha parlato ne Il cimitero di Praga. Al-Qaeda somiglia ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion.
Il che non vuol dire che non ci siano i terroristi: ci sono eccome, e alcuni tra i loro gruppi sono in cerca di alleanze tattiche o strategiche. Ma in linea generale essi fanno parte del complesso panorama della fitna,   la “guerra civile” che coinvolge da anni l’intero mondo musulmano: tra moderati ed estremisti, tra estremisti di opposte scuole, tra sunniti e sciiti, fra tradizionalisti e fondamentalisti, fra tradizionalisti e fondamentalisti da una parte e “progressisti-moderati” dall’altra.
E allora, noi scopriamo di essere riguardo a queste cose dannatamente ignoranti e disinformati. Eppure, di mondo arabo e d’Islam si parla tutti i giorni, da un trentennio almeno. Che cosa ci è successo? Che cos’è andato storto? Chi aveva il dovere di farci capire un po’ meglio le cose come stanno e non lo ha fatto?
Ma soprattutto, insomma, in questo benedetto mondo arabo che cosa vuole “la gente”?  Ce l’hanno o no con noi? E perché? E chi li guida, chi li inganna, chi li sobilla?
Si sono ribellati in tutto il Nordafrica contro regimi inetti, corrotti e violenti. Sapevamo che tali regimi erano tali. Ciò significa che gli arabi vogliono la “democrazia”? Certo. Ma quale? La nostra? Quella che abbiamo tentato di “esportare” in Iraq e in Afghanistan?  Se si ribellano contro delle dittature in nome della democrazia, non possiamo non riconoscerli come nostri fratelli. Il punto però è che quei dittatori che hanno già rovesciato, come Ben Alì e Mubarak, e quello che stanno cercando di rovesciare, Gheddafi, erano da tempo non solo nostri amici e alleati, ma perfino soci in affari: dal petrolio alle Società per Azioni alle Banche.  Qualcuno aveva perfino coniato la neoparola “democratura” per definire i loro regimi: dittature sì, ma che a livello mondiale appoggiavano la democrazia. Stavano proprio così, le cose?
Prendiamo l’Egitto e i “Fratelli Musulmani”. Agiscono in quel paese dagli Anni Trenta; sono stati un formidabile strumento di lotta anticolonialista, ma sostenevano la loro azione con la ferma sicurezza che solo all’interno dell’Islam i popoli musulmani avrebbero potuto trovare la loro strada verso la Modernità. Il regime arabo-socialista di Nasser e i dittatori militari “moderati” che gli sono tenuti dietro (“moderati” in senso internazionale, in quanto amici dell’America e non avversari giurati d’Israele) li hanno duramente e ferocemente perseguitati. Eppure, eravamo pronti a giurare che in fondo si trattasse di pericolosi e fanatici “fondamentalisti”. Sono stati parte notevole delle forze che hanno rovesciato Mubarak: li abbiamo visti agire, li abbiamo sentiti parlare, e ci siamo resi conto che si tratta, al contrario, di una forza politica equilibrata e ragionevole. Certo, continuiamo a sospettare di loro. Ma che cosa faremo, se alla prima competizione elettorale seriamente libera, in Egitto, dovessero acquisire la maggioranza? Li lasceremo governare, nel nome della democrazia? O stabiliremo che la “loro” democrazia” non è la “nostra”, e per esportare quest’ultima o qualcosa che le somiglia cercheremo di calpestare i loro diritti e obbligarli a far come vogliamo noi? Badate:  è già successo in Algeria, ai primi degli Anni Novanta,  e non è che sia andata bene.
Forse, dovremmo piuttosto cercar di capire una cosa. Questa gente ci conosce ormai bene: molti di loro hanno parenti che vivono e lavorano tra noi, quasi tutti vedono i nostri canali TV e moltissimi navigano in internet. Ci sono molto vicini: troppo, per non rendersi conto che la nostra prosperità, inarrivabile per loro, poggia in gran parte sulle ricchezze che noi dreniamo dal loro mondo e sul loro lavoro come manodopera. Questo è il punto da capire e da discutere. Non il fanatismo religioso, ma la sperequazione economica; non la libertà di pensiero, ma la ridistribuzione delle ricchezze. Siamo maturi per affrontare questo problema in modo non miope e non egoistico?

                                                                                        Franco Cardini


-    REPLICA ALLA LETTERA DEL SIGNOR ENNIO EMANUELE PIANO –

(Non dispongo del testo della lettera: ma ne ho citato larghissimi passi nel testo della mia risposta).
Caro Direttore,
    credo che la lettera del signor Emanuele Piano meriti una risposta dettagliata. Te la invio, ma – ignorando se avrai spazio sufficiente per pubblicarla integralmente  – ne invio per correttezza copia  completa  e-mail all’interessato: a evitare equivoci, ho riproposto le sue domande con le parole esatte con cui egli le ha poste. Sappiano i lettori più interessati al problema che la mia risposta integrale, con altro materiale, sarà pubblicata subito nel mio sito www.francocardini.net, dov’essi potranno consultarla. Ecco la mia risposta, punto per punto:
1. “Tra le tesi sostenute vi è quella dell'inesistenza di Al Qaeda, una invenzione occidentale, secondo il professore, che servirebbe  ad infangare il buon nome del fanatismo islamista e per una spericolata proprietà transitiva quello di ogni buon musulmano”. Nessuna invenzione, bensì pura adesione ai fatti obiettivi. Il termine al-Qaeda, “la base”, cominciò a venir usato negli Anni Novanta per indicare alcuni gruppi terroristi. Sulla scorta poi di alcuni equivoci e di una buona dose di manipolazioni – delle quali sono responsabili anzitutto i “servizi” statunitensi – si andò creando l’immagine di una sorta di organizzazione centralizzata, piramidale, gerarchica, con i suoi programmi e i suoi quadri dirigenziali. All’equivoco alimentato dai servizi si aggiunsero anche quelli voluti da molti degli stessi gruppi terroristici, che cominciarono ad arrogarsi l’etichetta “fortunata” e a rivendicare nel suo nome attentati e azioni vari. La costruzione della mitologia alquaedista serviva e serve agli “opposti estremi”: ai servizi e ai settori dell’opinione pubblica legata agli ambienti oltranzisti, che intendono così giustificare misure repressive e spese del pubblico denaro; e agli ambienti terroristici – in perenne lotta tra loro, e discordi su quasi tutto in una fitna infinita -  che intendono così guadagnare credito e rendere più temibile, con tale mossa propagandistica, la loro azione. Ciò fu già denunziato fino dal 12 gennaio 2003 in un articolo di Jason Burke uscito sull’”Observer”, mentre il 19 luglio 2008 Marc Sageman – figlio di un sopravvissuto all’Olocausto e tra i principali esperti del City Police Departement di New York – si esprimeva in termini analoghi in un’intervista raccolta da Christopher Dickey su “Newsweek”.   L’opinione che al-Qaeda, come organizzazione coerente, non esista, è stata sostenuta con forti argomenti da Adam Curtis in un documentario che il 18 gennaio 2005 fu diffuso dalla BBC (cfr. news.bbc.co.uk/2/hs/programmes/3755686,stm).  A tutt’oggi, nonostante le ripetute notizie sulla cattura o l’uccisione di leaders di al-Qaida, nessuno ha mai fornito notizie e prove obiettive a proposito dell’organizzazione, dei suoi strumenti, delle sue sedi, del suo apparato. Che credere nella sua esistenza serva ai nostalgici di G.W.Bush jr. e agli orfanelli dell’ingegner Bin Laden, non prova nulla.  Il signor Piano mi attribuisce poi intenzioni apologetiche nei confronti del “fanatismo islamista” che non mi appartengono e che non sono congrue nemmeno con le sue stesse argomentazioni. Rimando comunque, su ciò, agli autori più qualificati: Gilles Kepel, François Brugat, Olivier Roy, che ricostruiscono la complessità di questo genere di argomenti.
2. “Cardini arriva a paragonare la letteratura sul terrorismo islamico al falso storico e antisemita I protocolli dei savi anziani di Sion che costò agli ebrei russi ed europei decenni di persecuzioni, e dunque sarebbero i musulmani ad essere infamati e perseguitati, non cristiani ed ebrei nel medio oriente (e persino in Europa)”. In realtà, il paragone – che trova una sua “attualità” nel successo del romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga – non riguarda affatto la letteratura sul terrorismo islamico nel suo complesso, ma soltanto la manovra mediatica che è stata appunto costruita attorno ai pochi, incerti e confusi dati disponibili su al-Qaeda per farne appunto un oggetto adatto all’innesco di un “caso” utile a costruire un altro episodio dell’ormai celebre “teoria del complotto”. L’illazione che con questo io vorrei far passare i musulmani, nel loro complesso, come perseguitati, è – come quella di cui al punto 1 – gratuita e incoerente con il contesto nel quale si muovono le stesse argomentazioni del signor Piano.
3. “Tralascio il giudizio sui Fratelli musulmani che sarebbero una forza politica "equilibrata" (mentre al Cairo Qaradawi arringa la folla sulla futura riconquista di Gerusalemme)”. No, guardi, signor Piano, vediamo di non tralasciare proprio niente. Anzitutto,  Qarawadi non è un “Fratello Musulmano”, per quanto in passato abbia aderito, da giovane, a tale organizzazione. Oggi è un pensatore indipendente che, giovandosi del suo prestigio religioso, emette delle fatwa che non sono però vincolanti per nessuno. Egli appartiene comunque alla wasatiyya, una corrente di pensiero islamista moderato (su cui il riferimento più autorevole è R. Baker,  Islam without fear. Egypt and the new islamists, Harvard University Press, 2003.  Che i “Fratelli Musulmani” abbiano avuto e abbiano una posizione moderata, incline al confronto con le istituzioni e all’accettazione dei metodi della democrazia rappresentativa è cosa ampiamente trattata e dimostrata da H. al-Awadi, In pursuit of legitimacy. The Muslim Brothers and Mubarak, London-New York, Tauris, 2004, quindi da B. Rutherford, Egypt after Mubarak, Princeton University Press, 2008, e recentissimamente dal fondamentale I fratelli musulmani nel mondo contemporaneo, a cura di M. Campanini e K. Mezran, Torino, UTET, 2010,  che evidentemente il signor Piano ignora: il che mi stupisce,m dal momento che egli mostra di interessarsi appassionatamente al problema.  Ovviamente, in un’organizzazione vasta e ramificata le correnti sono molte e non mancano quelle radicali: ma il mainstream  dell’organizzazione ha abbracciato una linea molto moderata, come dimostrano i due partiti fondati dai “Fratelli Musulmani” in Egitto (“Giustizia e Libertà”) e in Tunisia, dove il leader Rashid Ghannusi, che sotto ben Ali ha subito trent’anni d’esilio, al suo ritorno ha immediatamente costituito un partito che sta agendo con grande correttezza, al-Nahda. Dei “Fratelli Musulmani” ha parlato con favore in febbraio anche il quotidiano della CEI, “Avvenire”, sottolineando come essi si siano sempre opposti alle violenze contro i cristiani copti e al trattamento discriminante contro i cristiani. Le debolezze e le contraddizioni dei “Fratelli Musulmani” sono invece rilevate con attenzione e dottrina da A. Elshobaki, Les Frères Musulmans des origines à nos jours, Paris, Karthala, 2009. Il riferimento di Qarawadi a Gerusalemme è certo allarmante, ma va inteso nel contesto delle reazioni alla dichiarazione unilaterale di pieno, completo e perpetuo possesso della Città Santa da parte dello stato d’Israele,  una dichiarazione contestata dalle nazioni unite e dagli stessi Stati Uniti d’America.
4. “Cardini si avventura poi su una distinzione tra nostra democrazia e loro democrazia, dove non si capisce  cosa voglia dire  visto che la democrazia è una prassi e che essa ha  riscosso un discreto successo anche in terra islamica (Filippine, Turchia,  Libano e persino Iraq), almeno laddove è comparso un certo pluralismo politico, quello assente sia in Libia, che in Tunisia, che in Egitto, dove in caso di "libere elezioni" vincerebbero cero i gruppi musulmani, ma proprio perché non esistono forze politiche alternative, mentre i primi hanno avuto decenni per organizzarsi e creare strutture sociali parallele a quelle statali”.  Se il signor Piano non capisce i miei argomenti, ciò dipende dal fatto che egli ignora del tutto, evidentemente, il denso dibattito che proprio di recente si è svolto proprio attorno al concetto di democrazia (non semplice “prassi”, bensì  - l’ha sottolineato con lucidità Luciano Canfora - “ideologia” accompagnata da una forte dinamica che, proprio nel nostro Occidente, sta facendola virare verso meccanismi oligarchici). Tale ignoranza è una sua lacuna o una sua scelta, ma comunque non è colpa mia: gli consiglierei la lettura di K. Basu, Elé Belè. L’India e le illusioni della democrazia globale, Roma-Bari, Laterza, 2009, e dello stesso saggio di Amartya Sen sulle “democrazie degli altri”, che peraltro mi sembra piuttosto debole ma che può servire per cominciare a porre i problemi. Non citerei tra le democrazie e le semidemocrazie riuscite il triste caso irakeno, dove il tentativo di “importare la democrazia” si è risolto in sette anni di occupazione militare straniera, una serie di elezioni truccate, una lotta feroce tra sunniti e sciiti e perfino l’affacciarsi di una violenza anticristiana prima del tutto inesistente. Trovo inoltre contraddittorio con le Suee convinzioni democratiche il fatto che Lei si lamenti del fatto che in caso di libere elezioni in Egitto vincerebbero partiti che non Le sono graditi: come democratico, lei dovrebbe anzitutto tenere alla vittoria delle maggioranze, comunque siano. O preferisce “educare” le maggioranze, come fanno i dittatori?
5. “Dunque la sperequazione economica c'entra poco (Libia ed Arabia Saudita hanno redditi procapite più alti di alcuni mem bri UE), c'entra invece l'assenza di libertà di pensiero, la piattaforma indispensabile perché fiorisca una democrazia, nostra o loro che sia”. No, signor Piano, la sperequazione economica c’entra moltissimo, esattamente come  l’assenza di libertà di pensiero, che le potenze occidentali - l’operato politico delle quali Lei sembra apprezzare – non si sono mai curate di chiedere fosse rispettata nei casi dell’Arabia Saudita, della Libia, dell’Egitto, della Tunisia, dell’Algeria ecc., per l’ottima ragione che i governi tirannici e corrotti di quei paesi erano (e taluni sono) buoni partners economici e anche politici. In Siria e in Giordania, i governi locali hanno immediatamente risposto ai primi moti calmierando i generi di prima necessità: una manovra affrettata ma efficace almeno come primo intervento, anche se poi ci vorranno le riforme. Che Arabia e Libia abbiano alti redditi procapite è verissimo: solo che il reddito procapite è un dato teorico (se io mangio un pollo e tu nulla, abbiamo mangiato mezzo pollo a testa, diceva Trilussa). In realtà, quel che esiste nel mondo arabo accanto alla repressione è una fortissima, intollerabile sperequazione economica, che rende la situazione politica ancora più grave proprio nei paesi più ricchi.  E’ ovvio che ogni popolo deve trovare la “cifra” politica che meglio gli è adatta (per cui è assurdo pretendere che seguano i nostri modelli). Ma sta di fatto che la libertà politica nasce sempre dallo sviluppo  compiuto o dalle rivoluzioni imposte dalle classi medie, proprio quelle che nel mondo arabo-musulmano non sono mai riuscite ad emergere non a causa dell’Islam, bensì per colpa delle malefatte del colonialismo prima e poi dai regimi postcoloniali strumentalizzati fino agli Anni Ottanta dai giochi della Guerra Fredda e poi dal neocolonialismo messo in atto dalle istanze “neoconservatrici” statunitensi.  Per stendere questa risposta ho chiesto al consulenza di due tra i migliori esperti di storia e di cultura arabo-islamica d’Italia, i professori Massimo Campanini dell’Università di Napoli e Paolo Branca dell’università Cattolica di Milano. Ecco quanto mi scrive Branca: “La primavera  araba di questi giorni dovrebbe dimostrarci che, specie laddove la metà della popolazione ha meno di 30 anni, i vecchi schematismi non funzionano più e che nell’interesse della nostra stessa sicurezza (oltre che a quella d’Israele) un Egitto, ad esempio, che fra 25 anni potrebbe avere 150 milioni di abitanti che non stanno neppure decentemente a casa loro sarebbe un disastro per tutti”. Il problema, signor Piano, è politico e morale; è un problema di giustizia distributiva oltre che di libertà di pensiero; il fanatismo religioso non c’entra. Del resto, i terroristi sono, negli attuali moti arabi, talmente emarginati che non hanno mai nemmeno provato a rivendicare azioni di sorta. Sanno di non essere credibili. E’ solo Gheddafi a volerci far credere che è al-Qaeda a tentare di rovesciarlo.