Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Salario di cittadinanza o buone pratiche comunitarie?

Salario di cittadinanza o buone pratiche comunitarie?

di Romano Calvo e Ettore Macchieraldo - 19/03/2011



zeitarbeit

Prendiamo spunto dall'articolo comparso su Megachip di Badiale e Bontempelli per contribuire alla discussione sui temi del lavoro. È un dibattito che riteniamo fondamentale perché è la chiave di volta per capire come governare la transizione verso una società a decrescita controllata. Pensiamo sia necessario chiarire in primo luogo chi siamo, ovvero di cosa mangiamo o abbiamo mangiato. Siamo lavoratori autonomi. Il primo di noi svolge la sua professione ne settore della consulenza proprio sui temi del lavoro, il secondo lavora nell'artigianato e nell'edilizia. Abbiamo anche esperienza diretta del pubblico impiego, della scuola e del cosiddetto terzo settore.

Per tornare alle questioni poste da Badiale e Bontempelli partiremmo dalle loro conclusioni. Nel loro scritto motivano molto bene perché il salario di cittadinanza non sia una soluzione praticabile nell’attuale organizzazione del lavoro, né in una futura. Condividiamo questa opinione; dissentiamo, invece, su quanto gli autori sostengono su assunzioni statali e riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Andiamo per gradi.

Che si parli di lavoro, di Welfare State o di politiche industriali ma anche di finanza e persino di geopolitica, è necessario fare una scelta di campo rispetto al modo di lettura dei fenomeni. Noi siamo tra quelli che ritengono che i cambiamenti negli assetti economici e sociali siano il frutto di una trasformazione che avviene a livello della struttura, cioè delle dinamiche reali nei rapporti di forza tra i portatori di interesse. La struttura è espressione delle relazioni di produzione e le sue eventuali trasformazioni maturano oggettivamente dal suo interno e non seguono necessariamente i nostri desiderata.

Ciò non significa ovviamente che gli ideali e i valori non abbiano spazio nella trasformazione sociale. La storia presenta la possibilità che i soggetti collettivi possano inserire la propria azione e tentare di indirizzare il cambiamento verso gli esiti auspicati. Ciò è tanto più possibile quanto si è in grado di organizzare e coalizzare i soggetti sociali che hanno interessi convergenti.

Non abbiamo spazio (ma andrebbe trovato prima o poi) per confrontarci su quali ideali e valori orientino l’azione di Alternativa. Per il momento ci basta dire che sono quelli della Costituzione repubblicana.

Tuttavia la nostra esistenza di movimento-partito è riconducibile a un’analisi e una rappresentazione della “crisi di questo modello di sviluppo”: la crisi di un modello di crescita produttiva che urta contro i limiti della biosfera e dei principi della termodinamica, la crisi di un modello di creazione del plusvalore che si basa sulla finanza e non più sul lavoro, la contraddizione di un modello che con le privatizzazioni tende a relegare il ruolo dello Stato a “finzione spettacolare” ma che nello stesso tempo ha necessità di Autorità pubbliche capaci di prelevare le tasse, creare debito pubblico ed esercitare il controllo poliziesco sulla società.

Inoltre: la crisi della macchina dello spettacolo che è riuscita a trasformare la finzione in realtà e la realtà in fantasie a-storiche ma che di fronte alle grandi sfide non è più in grado di elaborare e tantomeno perseguire una strategia di uscita, che non sia il semplice oblio.

La crisi di un modello basato sulla globalizzazione commerciale e sulla libera circolazione dei capitali che nello stadio maturo attuale si ritorce contro lo stesso Nord del mondo sotto forma di crisi alimentare, fuga dei capitali, distruzione di posti di lavoro e nuova dislocazione geografica dei centri di interesse dei grandi conglomerati transnazionali, conseguente crisi del ruolo imperiale americano e marginalizzazione geopolitica delle formazioni statuali europee, giapponesi e statunitensi e così via, con le varie ipotesi di conflitto armato che ognuno vorrà inserire nel modello.

Rapidi accenni su una lettura della crisi che deve essere ulteriormente approfondita e perfezionata. Ma che allo stato attuale non ci attribuisce ancora una sufficiente capacità sistemica per tentare di declinare il tema principale nei temi subordinati. In questo senso è difficile comprendere in base a quale passaggi logici Badiale & Bontempelli possano concludere:

«È evidente che entrambe le proposte che abbiamo discusso (salario di cittadinanza da un lato, assunzioni massicce nello Stato e diminuzione dell'orario di lavoro dall'altro) hanno bisogno di grandi risorse finanziarie, e appare difficile poterle realizzarle entrambe. Una scelta è necessaria, e, per gli argomenti esposti, a nostro avviso la scelta vincente nella lotta contro l'attuale capitalismo distruttivo è quella della lotta alla disoccupazione tramite assunzioni statali e della diminuzione dell'orario di lavoro.»

Badiale e Bontempelli hanno deciso che questi auspicabili cambiamenti nel mondo del lavoro possono avvenire solo se vi sono le risorse finanziarie. Si potrebbe domandare: davvero credete che questi importanti cambiamenti abbiano come unica condizione di realizzazione la disponibilità di risorse finanziarie pubbliche? Perché non inserite anche altre variabili?

Ad esempio il consenso dei diretti interessati (i lavoratori), la “tenuta” economica delle organizzazioni produttive manifatturiere, i rischi di involuzione burocratica della macchina statale e di svalutazione del servizio pubblico, la diffusione di comportamenti opportunistici e parassitari da parte dei sussidiati, le reazioni del ceto medio salariato che già si accolla l’80% del carico fiscale nazionale, la perdita di competitività del nostro sistema economico rispetto al resto del mondo e così via.

Rimane assai fecondo l’approccio proposto da B&B, e cioè tentare una «elaborazione teorica e politica che fornisca le coordinate generali di una diversa organizzazione economica e sociale. Noi riteniamo che una tale elaborazione debba avere a proprio fondamento la nozione di “decrescita”, intesa come la diminuzione della produzione di beni sotto forma di merci e la creazione di una economia non mercantile basata sullo scambio di beni e servizi non mercificati.»

Ma stiamo attenti alle scorciatoie, specie se ripropongono ricette già bocciate dalla storia recente.

Stiamo sul pezzo.

Siamo d’accordo che occorre recuperare la capacità statale di governo dei processi economici, siamo d’accordo che ciò deve avvenire recuperando la sovranità monetaria e mediante la politica industriale e la regolazione delle dinamiche dei “mercati”.

Siamo d’accordo che occorre una redistribuzione dei redditi a favore del lavoro e a discapito delle rendite e della speculazione finanziaria.

Siamo d’accordo che sui beni comuni (acqua, aria, territorio, ecc.) deve essere estromessa la logica mercatistica e ripristinata la logica comunitaria.

Siamo d’accordo che i servizi pubblici (istruzione, salute, previdenza, casa ecc.) sono un diritto universale da garantire secondo elevati standard di qualità.

Siamo d’accordo su un modello inclusivo di politica sociale, perché nessuno sia abbandonato a se stesso in balia delle logiche distruttive della competizione.

Siamo d’accordo sulla de-mercificazione delle relazioni sociali, sulla necessità di sottrarre la vita al circuito alienante della produzione-reddito-consumo e quindi concordi sullo sviluppo di scambi economici basati sull’autoproduzione, sulla filiera corta, sul kilometro zero, sul riuso e riciclo, le banche del tempo, la cooperazione, il commercio equo e solidale, ecc.

D’accordo su tutto.

In tutto ciò che cosa c’entra il salario di cittadinanza, la riduzione generalizzata degli orari e l’assunzione in massa di impiegati statali?

Tra l’obiettivo e gli strumenti si collocano la strategia e la tattica.

Sul piano strategico è necessario avere ben chiaro in mente le funzioni regressive che possono svolgere i grandi apparati amministrativi (non solo pubblici).

Per raggiungere elevati standard di servizio pubblico occorre il coraggio di mettere profondamente in discussione le regole, i ruoli ed il funzionamento della macchina statale ed anche dell’impiego pubblico.

Siamo vecchi abbastanza per ricordarci la legge 285 del 1978 ispirata alla stessa logica di assorbimento della disoccupazione tramite dosi massicce di assunzioni statali: andate a vedere 30 anni dopo quali sono stati gli effetti di quella legge sulla qualità del servizio pubblico.

Nel merito di una riduzione “generalizzata dell’orario di lavoro” andrebbe considerato che esiste, non da oggi, una forte segmentazione del mercato del lavoro: tolto il pubblico impiego (che merita un discorso a parte), tolto il lavoro autonomo, il lavoro atipico, la piccola impresa, le professioni e la media impresa, rimane la grande impresa (con oltre 250 dipendenti) più o meno “fordista”, che nel suo nucleo centrale occupa stabilmente meno del 20% della forza lavoro italiana e di questi la componente dei dirigenti, quadri e commerciali non ha alcun interesse per la riduzione di orario. Sono questi i destinatari della riduzione "generalizzata"?

Se le cose stanno così diciamolo più chiaramente: vogliamo mettere qualche zeppa alle Corporation multinazionali ed ai suoi addetti (e allora siamo d'accordo). Ma non è detto che la riduzione dell'orario sia l'arma più efficace. Molto più verosimilmente si andrebbe invece a conficcare la lama nella carne degli altri, quelli che non stanno nella grande azienda e che oggi hanno bisogno di salario (e servizi pubblici) e non sono interessati alla riduzione “generalizzata” dell’orario di lavoro. Lavoriamo piuttosto sulle condizioni che favoriscono (fiscalmente ma non solo) la libera scelta di riduzione dell'orario da parte del lavoratore.

E per quanto riguarda il salario di cittadinanza proviamo ad inserirlo coerentemente all’interno di un’auspicabile revisione delle forme di intervento pubblico a sostegno del reddito.

Ricordiamoci che tra cassa integrazione straordinaria e ordinaria, indennità di disoccupazione, indennità di mobilità, reversibilità delle pensioni, integrazioni al minimo, invalidità, assegni di accompagnamento, interventi sociali dei Comuni e del Ministero dell’Interno ecc. esistono innumerevoli rivoli attraverso i quali lo Stato elargisce reddito, spesso in modo clientelare e cumulativo, ai propri sudditi, rendendoli spesso dipendenti da questa elemosina e premiando in molti casi la furbizia e non il bisogno.

Anche in questo caso è necessaria una visione strategica sulle forme di intervento dello Stato. La priorità deve essere accordata ad una “pesante” capacità di intervento dello Stato in materia finanziaria e di politica industriale.

Lo Stato deve garantire che rilevanti quote di reddito prodotto vengano destinate alla redistribuzione sociale. La gestione del Welfare State deve quindi essere ricondotta al suo ambito più naturale, quello della comunità, dei Comuni e del mutualismo cooperativo, sottraendola alla logica del voto di scambio e dell’autoreferenzialità degli apparati amministrativi pubblici.

Indirizzo, coordinamento, controllo e promozione delle buone pratiche: questo dovrebbe essere la funzione dello Stato centrale in materia di Welfare State.

Potremmo proseguire ma in questa fase non contano tanto le ricette che ognuno di noi avrebbe da presentare, quanto lo sviluppo di un serio dibattito al nostro interno. Grazie allo stimolo fornito da Badiale e Bontempelli.