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Ma il no al nucleare non è solo paura

di Nicola Piras - 21/03/2011


Dopo le tragiche vicende giapponesi la remora italiana, nei confronti dell’energia nucleare, è cresciuta in maniera esponenziale all’arrivo delle cattive notizie dal Sol Levante.

Il diffuso sentimento di diffidenza nei confronti dell’uso del nucleare è stato quindi, dai suoi  sostenitori, imputato unicamente alla irrazionale paura di un disastro assimilabile a quello del Giappone.

Taluni, coloro che hanno indicato il caso giapponese come paradigmatico della endemica instabilità delle centrali atomiche, hanno addirittura subito l’onta dell’esser additati come sciacalli: insomma secondo i più accesi nuclearisti parlare del Giappone era come speculare su una tragedia ancora in atto. Per inciso questa appare chiaramente un’accusa logicamente non cogente: l’essere ancora in atto di un qualcosa rafforza il su status di validità, non lo indebolisce di certo.

In realtà il no al nucleare trova sostegno in tre ordini di ragioni, irriducibili a un qualche irrazionale timore: un motivo economico, uno relativo allo smaltimento delle scorie e un ultimo relativo alle conseguenze ambientali e paesaggistiche.

I supporter del ritorno del nucleare menano vanto della presunta convenienza economica di questo sistema energetico. In realtà il nucleare perde terreno in tutto il mondo proprio per gli alti costi di gestione che le centrali atomiche prevedono e che i privati tendono ad accollare allo stato (sistemazione delle scorie, dismissione degli impianti, assicurazioni). Nella sola Europa il contributo offerto dal nucleare è calato dal 24% del 1995 al 16% del 2008 proprio perché inadatto, per sua stessa natura, a sopportare la dinamica dei prezzi di un libero mercato.

A concorrere al declino del nucleare è stato il prezzo dell’uranio che, in questi ultimi quattro anni, senza alcun aumento delle domanda, è cresciuto di venti volte. Senza scodare che l’Italia non è affatto produttrice di uranio: ciò fa venire meno la convinzione che l’uso del nucleare possa garantire la sovranità energetica. Non solo manca la materia prima ma anche la filiera che dovrebbe trasformare l’uranio grezzo in uranio arricchito: saremmo quindi costretti a rivolgerci all’estero per queste complesse e costose operazioni.

La Francia è spesso adotta ad esempio virtuoso: si dice che con le sue 58 centrali nucleari sia energeticamente autosufficiente. Ma è tralasciato il fatto che importi più petrolio dell’Italia, che sia costretta ad importare uranio (da un Paese politicamente insicuro come il Niger) e che, notizia data da Le Monde, addirittura importi energia elettrica.

Senza scordare che il nucleare produce unicamente energia elettrica, che è utilizzata solo per il 20% nei Paesi industrializzati. Il restante 80% è calore e carburante. Il calore è improducibile, stante le attuali conoscenze scientifiche, dalle centrali atomiche.

Inoltre, secondo il fisico Giorgio Cortellessa, il Kw/h prodotto con l’energia nucleare costa in media quattro o cinque volte in più di quello prodotto con qualsiasi altro metodo.

Ancora, il costo per la costruzione di quattro centrali nucleari in Italia si aggira tra i 12 e i 15 miliardi di euro a fronte di un lungo iter: dalla realizzazione delle stesse (circa 5-10 anni), al tempo di ammortizzazione dei costi (40-60 anni) allo smantellamento che ha una durata di circa un secolo.

Tutto questo senza contare i costi regressi della precedente attività nucleare in Italia. Ci restano in eredità, da prima del referendum del 1987, ben 235 tonnellate di combustibile nucleare irraggiato la cui sistemazione costerà ai contribuenti 4 miliardi di euro.

Lo smaltimento delle scorie è un altro tasto dolente. Per eliminare la radioattività si stimano infatti periodi che girano intorno alle decine di migliaia di anni, per cui ogni sistemazione è sempre provvisoria e mai sicura.

Ultima ragione, in questa trattazione ma non certo l’ultima, è il costo ambientale e paesaggistico che l’installazione delle centrali nucleari richiederebbe al nostro Paese. Oltre alla pericolosità insita nelle scorie è da contare anche il danno permanente al luogo geologico in cui verranno effettivamente poste. Il luogo scelto infatti verrà, se non definitivamente quantomeno per un lasso di tempo indeterminatamente lungo, segnato dalla presenza delle scorie e perciò sarà impraticabile e inavvicinabile.

La presenza di una centrale nucleare renderà il paesaggio, si pensi a realtà spazialmente limitate come la Sardegna, risolutivamente marcato da una presenza ingombrante e avvilente. Le coste, le centrali nucleari necessitano di enormi quantità d’acqua, subiranno un danno permanente che mai, nemmeno rivoluzione telluriche, potranno cancellare.

Il patrimonio essenziale di ogni località scelta verrà stravolto rincorrendo presunti e vacui vantaggi economici: anche qualora questi vi fossero sarebbe d’uopo sacrificare la propria terra a simili ragioni?

Luisa Bonesio rende una immagine efficace di ciò che l’impazzimento tecnico ci ha tramandato: «Il paesaggio del novecento è stato quello del titanismo tecnico, del sovvertimento degli assetti naturali, geologici, climatici, dell’annullamento delle singolarità locali, delle culture tradizionali. La tecnica ha potuto spingersi fino a gareggiare con la natura nel rimodellare (quasi sempre con effetti disastrosi e spesso involontari) i paesaggi geografici».

La sfida della nuova generazione sarà quella della decrescita controllata, della sostenibilità ambientale, del recupero e della re-invenzione del paesaggio, inteso, nel senso più sacro, come luogo dell’abitare. Della trasformazione, come suggerisce Ernst Jünger nelle ultime pagine de L’operaio. Dominio e forma, dei paesaggi da officina in paesaggi progettuali da riadattare alla vita umana dopo la devastante azione della tecnica.

Bisogna rendersi conto che un’epoca non viene ricordata né per i suoi risultati industriali, né per il suo sfruttamento energetico, né per i livelli raggiunti dalla produzione e dal consumo di beni. I posteri hanno solo la bellezza come testimone del passato. E a noi, irrigiditi nello stadio ultimo della zivilisation, incapaci di produrre bellezza spetta il compito epocale di preservare, per quanto possibile, i frammenti di luce divina riflessi in Terra nelle lande selvagge della Sardegna, della Sicilia, degli Abruzzi e dell’Italia dove salva.