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L’educazione morale, civile e religiosa si riflette nei comportamenti collettivi

di Francesco Lamendola - 23/03/2011



Ad ogni popolo sono stati applicati determinati stereotipi, nel giudizio che gli altri danno di esso; stereotipi che, se risultano sovente ingiusti e ingenerosi, nondimeno colgono con una certa chiarezza, che è frutto del distacco emotivo, quei tratti essenziali del carattere nazionale che, invece, tendono a sfuggire alla comprensione dei diretti interessati.
Stiamo parlando, è ovvio, dei comportamenti collettivi e, più specificamente, dei comportamenti collettivi abituali e non di quelli dovuti a circostanze estemporanee di breve durata; di quei comportamenti nei quali si riflette la psicologia di un intero popolo e non soltanto quella di un gruppo o di una massa occasionale, come potrebbe esserlo quella di una folla che si assiepa allo stadio per assistere ad un grande un evento sportivo o musicale.
Per “collettivi”, quindi, non intendiamo, qui, i comportamenti che si manifestano simultaneamente in grandi masse, ma la somma di quelli individuali che sono caratteristici di una intera comunità etnica e culturale e che riflettono il suo modo di sentire e di pensare, il suo modo di vedere la realtà e di rapportarsi ad essa.
Inoltre, non ci riferiamo a delle semplici impressioni, ma - nella misura del possibile - ad impressioni che trovino conferma nella verità oggettiva dei dati statistici.
Per fare un esempio, nella percezione degli organi di stampa italiani, e quindi della nostra opinione pubblica, la Penisola è diventata il paradiso dei criminali romeni; sembra, comunque, che le statistiche avvalorino questa percezione. Infatti, dal 1° gennaio 2007, ossia dalla data in cui la Romania è stata ufficialmente ammessa nell’Unione europea, i furti e gli scippi vi sono diminuiti bruscamente del 26%, le rapine sono quasi scomparse e anche le violenze sessuali sono radicalmente diminuite: la fonte di questi dati è decisamente insospettabile, poiché si tratta del capo della Polizia romena in persona, Gheorge Papa. Bisogna dunque pensare che, da un giorno all’altro, i malviventi romeni sono stati folgorati da una conversione morale sulla via di Damasco, oppure che sono espatriati in massa?
Ebbene, la stragrande maggioranza si sono trasferiti nei Paesi occidentali dell’Unione, primo fra tutti l’Italia, che presenta il doppio vantaggio di un ricco “mercato” da sfruttare e di un sistema giudiziario che offre mille scappatoie ai criminali, indulto compreso. Né si tratta di una impressione meramente soggettiva o di una deduzione teorica: l’alta percentuale di reati commessi da cittadini romeni residenti in Italia - che, in quanto membri dell’Unione europea, non devono sottostare ad alcuna limitazione per accedervi - non dipende solo dall’alta presenza percentuale di Romeni presenti nel nostro Paese (sono il gruppo più numeroso, insieme ai Marocchini), ma proprio da una più alta incidenza dei reati da loro commessi rispetto a quelli di cui sono responsabili gli appartenenti alle altre nazionalità immigrate in Italia.
Mi diceva un amico romeno che la maggior parte dei suoi connazionali, e specialmente delle sue connazionali, stabilitisi in Italia, non rappresentano il tipo umano “medio” del suo Paese, ma il peggiore. Anche se non si tratta di persone che vivono di delinquenza, sono spesso degli avventurieri e delle avventuriere, che mirano a realizzare il massimo profitto con qualsiasi mezzo. Si tratta, probabilmente, di un giudizio troppo severo, ma è significativo che a emetterlo sia stato un cittadino romeno, che fa l’operaio per vivere ma che ama la cultura e che ama l’Italia, al punto da spendere i suoi primi soldi guadagnati in fabbrica per comprarsi libri ed una enciclopedia italiana.
Un discorso ancora più politicamente scorretto, ma quasi certamente ancora più realistico, vorrebbe che si distinguesse fra cittadini romeni veri e propri e cittadini rom di nazionalità romena: questi ultimi, infatti, non si erano mai realmente assimilati nemmeno nello Stato balcanico e, trasferendosi in massa in Italia, hanno conservato intatte abitudini e stili di comportamento che non ne fanno precisamente dei modelli di cittadini rispettosi della legalità.
Sia come sia, una domanda che ci sembra interessante porsi è la seguente: perché proprio i Romeni, fra tutti i cittadini di origine straniera residenti in Italia, si segnalano per l’alta frequenza dei reati commessi, senza con ciò voler criminalizzare il gruppo nel suo insieme, che certamente conta anche un gran numero di persone oneste e laboriose? C’è qualcosa, nella storia recente della società romena, che può aiutarci a comprendere un fatto del genere?
I Romeni, nonostante il 30% del loro vocabolario sia di origine slava, sono un popolo compattamente neolatino, fieri della loro discendenza dai coloni romani che si mescolarono, dopo la campagna di Traiano contro Decebalo (dal 101 al 106 d. C.), con gli antichi Daci; e che poi, nel corso dei secoli, subirono innumerevoli invasioni e migrazioni di popoli, senza mai smarrire la propria identità nazionale. Perché, dunque, proprio tra loro si registra una così elevata percentuale di reati, a paragone degli altri gruppi immigrati in Italia?
Una prima spiegazione può essere la deculturazione. Dopo la caduta dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale, la disastrosa situazione economica di quei Paesi e il senso di smarrimento morale hanno provocato un vero collasso dei valori tradizionali, insieme a quello del rispetto per la legalità, che i caduti regimi marxisti avevano inculcato nei cittadini, sovente con metodi polizieschi estremamente brutali.
Privi di punti di riferimento, sconfortati per le incerte prospettive del domani, molti cittadini romeni hanno incominciato a vedere l’emigrazione in Europa occidentale, e particolarmente in Italia, non soltanto come una fonte di sopravvivenza materiale, ma come una vera e propria fuga da ogni senso di socialità, nell’affannoso inseguimento di un miraggio di benessere materiale immediato, tanto più bramato, quanto più a lungo era stata repressa la loro legittima aspirazione ad un miglioramento della propria condizione sociale.
«Tutto e subito» è stato il motto dei primi immigrati romeni in Italia: resi doppiamente impazienti sia dai meccanismi psicologici della seduzione consumista, cui noi, da parte nostra, ci siamo gradualmente quasi abituati, ma che, per essi, furono come una brusca, violenta ubriacatura; sia dal desiderio di rivalsa contro la povertà da cui provenivano e di cui volevano cancellare al più presto anche il ricordo, magari tornando a casa per le ferie a bordo di un’automobile potente o sfoggiando qualche altro simbolo di affermazione sociale.
In fondo, si tratta del semplice fatto che la povertà, quando è largamente diffusa in una popolazione e quando conserva caratteri di dignità e di onestà, non viene affatto percepita come una vergogna sociale; ma, allorché si aprono bruscamente possibilità di cambiamento e quando si può fare il confronto con altre società, ove sembra esistere un diffuso benessere economico, ecco che la povertà diventa una maledizione e una vergogna da cancellare quanto prima, una realtà di cui occorre esorcizzare perfino il ricordo.
In forme meno brusche e drammatiche, si tratta di un fenomeno che anche gli Italiani hanno conosciuto all’epoca del boom economico, quando i nostri emigranti hanno cominciato a rientrare in Patria e, contemporaneamente, quando molte persone hanno cominciato ad ostentare il proprio recente benessere, frutto del rapido e massiccio processo di industrializzazione e di diffusione del terziario avanzato.
Questa spiegazione, però, non appare sufficiente per chiarire il fenomeno sul quale stavamo riflettendo, dal momento che dinamiche simili, o addirittura più sfavorevoli, si sono verificate presso altre società dell’Europa centro-orientale e, quindi, presso altre comunità immigrate in Italia, a cominciare da quella albanese. È chiaro, dunque, che deve esservi qualche altro meccanismo, che finora non abbiamo tenuto presente nel nostro tentativo di interpretazione.
Ora, noi crediamo che tale ulteriore meccanismo risieda nella natura intrinseca del regime di Ceausescu: un regime che, per decenni - come, ma forse anche peggio, degli altri regimi comunisti di marca sovietica - ha attuato una vera e propria educazione alla rovescia dei propri cittadini, insegnando loro a capovolgere i valori fondanti della convivenza civile e favorendo, in particolare, gli aspetti egoistici della personalità umana, a cominciare dall’invidia sociale e, quindi, dalla tendenza alla scarsa solidarietà e, al limite, alla delazione contro i dissidenti nei confronti delle autorità politiche dominanti.
In altre parole, crediamo che i regimi di tipo sovietico, ma specialmente quello di Ceausescu, per una serie di ragioni storiche assai specifiche, abbiano gravemente compromesso i sentimenti naturali di benevolenza insiti nell’anima umana, generalmente sviluppati da secoli di morale religiosa e, nel caso dell’Europa, di educazione cristiana (greco-ortodossa, in questo caso); e fatto emergere con prepotenza quel fondo melmoso di aggressività, di violenza, di cattiveria, che alberga nel cuore di ogni essere umano e, quindi, in ogni comunità nazionale: e che il comportamento incivile e criminale di tanti immigrati romeni in Italia abbia a che fare con tale sovvertimento morale.
Al tempo stesso, crediamo che l’eclissi del sacro e, più specificamente, il processo strisciante di scristianizzazione in corso da molto tempo in alcuni Paesi dell’Europa occidentale, come effetto del secolarismo e del laicismo innescati dal cambio di paradigma culturale del XVII secolo, sia responsabile di un indebolimento della fibra morale delle popolazioni: e questo è il secondo corno del problema, di cui l’imbarbarimento dei costumi, favorito dai regimi marxisti, è il primo.
Un fatto ci è sempre sembrato significativo: a detta di tutti coloro che fecero l’esperienza della detenzione nei campi di prigionia tedeschi della seconda guerra mondiale, gli Olandesi, fra tutte le altre nazionalità, furono quelli che peggio sopportarono le privazioni, il lavoro coatto e il generale clima di oppressione ivi regnante.
Scrive, ad esempio, Jean De Lavigny , che pure interpreta il fatto - in maniera secondo noi erronea - come parte di una sorta di fatalismo religioso (nel volume «L’occupazione nazista nel Nord-ovest europeo», Ginevra, Edizioni Ferni, 1972, p. 83):

«I Belgi non facevano mistero delle loro interne rivalità.  I Valloni si appoggiavano ai Francesi, ai quali dimostravano tute le loro simpatie. I Fiamminghi, pure nel contrasto nazionale, si dimostravano, come i Valloni, tipi generalmente allegri, simpatici e scherzosi.
Gli Olandesi avevano un’aria più triste e pessimista. Animati da un forte spirito religioso, tendevano ad accettare con rassegnazione il loro destino. Abituati ad un alto regime nutritivo, soffrivano la fame in maniera talmente spaventosa che il loro morale ne risultava completamente distrutto. Fra loro si ebbe la percentuale più alta di morti nei lavori di scavo. Si leggeva nei loro occhi la nostalgia per la loro terra e per la loro famiglia; nostalgia che li consumava lentamente come la mancanza di alimento.»

Non ci sembra che l’attitudine allo scoraggiamento da parte dei prigionieri olandesi (osservata anche all’altro capo del mondo, dopo che i Giapponesi ebbero conquistato le Indie Orientali olandesi) si possa inserire in un contesto di tipo profondamente religioso. Al contrario, ci sembra che sia da interpretarsi come l’effetto di una silenziosa perdita di riferimenti religiosi da parte di quel popolo, che, fin dal XVII secolo, fu all’avanguardia nel cosiddetto “libero pensiero” il quale, dietro pretesto di combattere il cattolicesimo (identificato come il credo dei suoi oppressori spagnoli), preparò il terreno alla distruzione dell’etica cristiana.
In proposito, ci piace riportare questo passaggio dal libro di Sabino S. Acquaviva «L’eclissi del sacro nella civiltà industriale», Milano, Edizioni di Comunità, 1966, p. 176):

«Anche se non si è ancora giunti al radicalismo materialistico dell’800 e delle dottrine socialiste e marxiste, fin da questo secolo, come d’altronde nel precedente, si vengono tuttavia formando  dei nuclei ambientati in aree urbane, che possono definirsi “anticristiani”. I più forti di tali nuclei sorgono, fra l’altro, in Olanda, area di grandi traffici, di incontro di idee e mondi culturali diversi. Con la scusa della lotta al cattolicesimo una serie di pubblicazioni antideiste ed anticristiane si era andata diffondendo un po’ dovunque in Olanda, da Amsterdam, a Leida, all’Aia, a Harlem a Nimega, e via dicendo. Di qui le correnti irreligiose si errano diffuse in Inghilterra e negli ambienti intellettuali»
Ci sembra che vi sia, quanto meno, materia si cui riflettere: non si cancella impunemente il sentimento religioso dalla coscienza dei popoli; non si predica l’ateismo, non si chiudono le chiese - vuoi con la violenza, vuoi con l’indifferenza - senza che ciò produca, alla lunga, i suoi nefasti effetti anche sul sentimento morale delle persone, così come su quello di intere comunità nazionali.
Questo obiettivo è stato scientemente perseguito nell’Europa occidentale, per più di tre secoli, dalla Massoneria e da altre società segrete di analoga tendenza; e, nell’Europa centro-orientale, Russia compresa, per una settantina d’anni, dai regimi marxisti nati dopo l’Ottobre 1917.
Forse sarebbe il caso di incominciare a riflettere sulle conseguenze che questa duplice azione, da parte del liberalismo radicale e da parte del comunismo marxista, ha prodotto sulle coscienze europee, laddove i nodi cruciali della storia contemporanea si sono incaricati di mettere a nudo queste ultime, magari nelle circostanze più dure ed impietose.