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Un'identità plurale

di Giovanni Sessa - 07/04/2011




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Fin da quando, durante le giornate del Convegno “Evola e la filosofia” del Maggio 2010, Sandro Giovannini mi parlò del Suo progetto di realizzare un Libro-Manifesto rappresentativo di una ben individuata area di pensiero, colsi l’importanza dell’iniziativa, dato il particolare momento storico politico che stavamo e stiamo vivendo, in quanto europei e italiani appartenenti alla comunità ideale alla quale questo Manifesto è tornato a dar voce.  D’altro lato, con Giovannini eravamo coscienti delle evidenti difficoltà che, inevitabilmente, avremo incontrato lungo il cammino, data la progressiva atomizzazione cui il nostro mondo è andato incontro nel corso degli ultimi decenni.  La smobilitazione ideale che taluno ha realizzato, più o meno scientemente, non giocava certo a nostro favore.  Al termine del lavoro, credo sia possibile dirsi almeno parzialmente soddisfatti di quanto, con mezzi minimi e grandi sacrifici, soprattutto di Sandro e pochi altri, si è riuscito a realizzare.  Abbiamo, credo, corrisposto, innanzitutto, all’esigenza prioritaria che ha motivato la nostra fatica, quella “registrativa”.  Il lettore può verificare di persona come i testi qui raccolti, siano tra loro diversificati per tematiche, stili, spessore: addirittura, alcuni tra essi, si distinguono anche per il momento propriamente progettuale.  Penso che in questo dato, più che un elemento di debolezza intrinseca all’elaborazione teorica di un’area intellettuale, sia necessario leggere, sia pure in prospettiva, la sua costitutiva ricchezza propositiva.  Per questo, la motivazione “inclusiva” e il rifiuto delle logiche escludenti verso gruppi, singoli o atteggiamenti ideali, è risultata proficua.  Ha, infatti, a mio parere, fatto emergere elementi che accomunano e che consentono una ri-partenza, intellettuale e politica.  Oltre al contributo specificatamente culturale, tutti i testi del Manifesto evidenziano i bisogni reali e profondi degli Autori stessi, centrati come sono attorno a una forte partecipazione emotiva ed esistenziale una fuoriuscita dall’apatia al progetto.  Ciò attesta, quantomeno, una volontà di fare, evocatrice di speranza, capace di rianimare i tiepidi, i perplessi, i titubanti.  Del resto, ogni uomo, ogni comunità, ogni gruppo umano trova o recupera l’identità raccontandosi: è quanto è stato fatto nelle pagine precedenti.  Anni fa leggemmo in un testo di Philippe Forget, una frase che spiega perfettamente il nostro tentativo: “…è in termini di apertura del senso che bisogna pensare le fondazioni dell’identità. Esse devono rinviare a una comprensione dell’essere come gioco di differenziazione” (P. Forget, Phénomenologie de la menace. Sujet, narration, stratégie, in Krisis, Aprile 1992, p. 3).  Conclusivamente, ci pare che la lettura dei diversi contributi forniti al Manifesto: Per una Nuova oggettività. Popolo, Partecipazione, Destino, siano segnati, innanzitutto, da un forte riferimento al pensiero della Tradizione, declinato secondo Vie e ottiche diverse.  Molti gli scritti che si richiamano al classico (per citarne solo alcuni: quelli di Campa, Casalino, Consolato, Sestito, Venturini), altri che si ispirano all’Oriente (Gorlani), altri ancora al Cattolicesimo (Siena,Vassallo).  Ma non mancano posizioni diverse: poundiane (Gallesi), postumaniste (Vaj), movimentiste (Adinolfi).  Tutte però convergenti lungo le direttrici speculative che avevamo individuate in “Premessa”: la geo-filosofica, l’estetico-politica e la psicologico-archetipale.  Più in particolare, il tratto distintivo di questo lavoro, credo vada individuato nel tentativo, compiuto da alcuni degli Autori, di pensare in modo critico l’identità ideale ed esistenziale prodottasi nel corso della nostra microstoria, al fine di individuare varchi, aperture e possibilità in grado di indurre, in modo effettivo, il conseguimento di una Nuova oggettività, quale patrimonio di vita e pensiero, alla luce del quale tornare a porre in congiunzione Popolo, Partecipazione e Destino.  Con Paul Ricoeur e ancora con Philippe Forget, credo che questi contributi originali, oltre che critici rispetto alle diverse scolastiche ideologiche d’area, abbiano fatto emergere il concetto di tradizionalità, quale riferimento imprescindibile per ogni futuro progetto politico e ideale: “…La tradizionalità deve essere qui intesa come una trama di differenze che si rinnovano e rigenerano nell’humus di un patrimonio costituito da un aggregato di esperienze passate, messo in gioco nel proprio superamento…(la tradizionalità) deve sforzarsi di proteggere le forze di metamorfosi di un gruppo a partire da se stessa” (P. Forget, art. cit., p. 3).  Presenteremo ora, in sintesi, i punti salienti emersi attorno alle tre direttrici poco sopra ricordate, per procedere, successivamente, all’analisi di alcuni contributi critici suddetti, onde trarre da essi ulteriori stimoli teoretici e operativi.

 

 

Spazio e Genius loci

 

Alcuni dei contributi raccolti nella sezione di Geofilosofia degli “Argomenti”, mi pare abbiano fornito indicazioni teoriche e pratiche, per quanto attiene al rapporto uomo-natura.  Innanzitutto, da essi si evince che è necessario lasciarsi preliminarmente alle spalle la visione della natura come ambiente, in quanto: “…la natura ridotta ad ambiente intrattiene con la cultura un rapporto meramente funzionale, soccombendo all’artificio e al disincanto contemporaneo” (Zarelli).  Pertanto, riguadagnare la natura alla cultura, non deve condurci a un indistinto biocentrismo, il quale non è foriero di un’effettiva compensazione dell’antropocentrismo.  Questo, in quanto esito della filosofia della coscienza moderna, del cogito cartesiano, ha prodotto la disarmonia nel rapporto uomo/φυσις.  Perciò, Zarelli precisa che: “La natura è l’altro dall’uomo: un’alterità che partecipa della definizione dell’uomo senza riassumerlo interamente”.  Il paesaggio deve tornare ad essere pensato come il luogo fisico del nostro abitare “poeticamente” la terra, a esso bisogna rendere grazie attraverso il recupero della sobrietà del nostro agire, della nostra presenza nel mondo, in quanto la bellezza della natura testimonia la tensione, sempre in atto, di natura e cultura.  La tecnica per i Greci, era una forma d’arte che tendeva a favorire, in quanto pro-duttiva, il corso/flusso dell’ενεργεια, senza forzarla, a differenza del Gestell moderno/contemporaneo, espressione ultima e prepotente della wille di un soggetto, meramente padrone dell’ente, che non si limita a lasciar essere la φυσις.  L’ambiente moderno è il risultato di questo sforzo che si traduce e realizza, manifestandovi i propri “valori” costitutivi, nei non-luoghi di Augé, con il loro correlato di spaesamento e di estraniazione esistenziale, nonché nel perseguimento utopistico del villaggio globale.  In realtà, il paesaggio, come Zarelli stesso ci ricorda in altro scritto (La via del bosco e l’epifania del bello): “…è il risultato visibile di un’ alleanza di uomo e terra, derivante da una simbolizzazione della collocazione dell’uomo nel cosmo”, come insegnava il mito di Anteo.  Va recuperata la consapevolezza della natura su un piano cosmocentrico.  Sarà, così, sempre più necessario, in questo quadro, riattualizzare il programma della rivista jungeriana-eliadiana Antaios, che si proponeva di fornire una mitografia delle forze cosmiche, per indurre la decolonizzazione dell’immaginario contemporaneo.  Superato il dogma dello sviluppo a ogni costo, riscopriremo che il comunitario è una categoria dell’essere, oltre i limiti, eminentemente soggettivistici, dell’estetizzazione della natura.  Infatti, si legge in un altro interessante scritto del Manifesto, a cavallo tra estetica e natura : “…la naturalezza non ha solo una connotazione soggettiva…il poeta, dove il suo fare sia autentico, si rivolgerà a ciò che in quanto uomo lo unisce agli altri uomini, alla natura comune” (Tuzet).  Insomma, il comunitario indurrà il recupero del genius loci, che si mostra nell’equilibrio sempre cangiante di luci e colori, in ogni luogo della natura vissuto come Centro del Mondo.  In questi termini il reale, nella sua complessità, tornerà a testimoniare senso, presentandosi all’uomo, a cominciare dalla sua stessa esistenza, come unità di passato (antenati) e di futuro (discendenti) e come legame armonico con tutti gli altri viventi.  Come Comunità dei morti e dei viventi che, si vedrà incarna, per noi, il senso più profondo della tradizione. Per cui, ha ragione Gorlani nel ricordarci che: “…è un imperativo avvalerci con incrollabile fiducia degli unici strumenti a nostra disposizione: l’intuizione del Sommo Bene, la Conoscenza metafisica”.

 

 

Cavalcare l’Arte

Si è detto che, tratto saliente della contemporaneità, è da riconoscersi nel perseguimento dell’offesa del bello, realizzata a partire da una pedagogia sociale anestetizzante.  D’altro lato, si è rilevata, in “Premessa”, la centralità del momento artistico per un’effettiva rifondazione del Politico.  La cosa ci pare assolutamente confermata dagli interventi che, sul tema specifico, sono stati elaborati nell’apposita sezione degli “Argomenti”.  Bozzi Sentieri ci dice che: “La bellezza è volontà di ritorno all’ordine cosmico”.  Il ruolo specifico che la Nuova Oggettività dovrebbe svolgere, starebbe nel: “…rendere visibile l’invisibile, reale lo spirituale”, in ciò ricollegandosi a quanto, al riguardo, aveva sostenuto Evola in Cavalcare la tigre. Nelle sue pagine, il pensatore romano invita l’uomo differenziato a profittare della situazione attuale, determinata dalla progressiva meccanicizzazione della vita: “…attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità, egli può enucleare la persona assoluta”. (Scheiwiller, Milano 1971, p. 113).  Evola si fa qui latore di un nuovo stile, di un nuovo realismo attivo, prendente le mosse dall’abbandono dei “problemi dell’io”.  Una sorta di oggettività ascetica in cui viene recuperata: “La natura come parte di un tutto più vasto e oggettivo” e ancora: “Distacco completo da tutto quanto è solamente soggettivo…Si tratta di riscoprire la lingua dell’inanimato, la quale non si manifesta prima che l’anima abbia cessato di versarsi sulle cose”. (Op. cit., pp. 122/123). Tutto ciò implica la completezza/assolutezza della φυσις, nel pieno riconoscimento del qui e ora: “Il reale è vissuto…nel senso di assoluta presenza”. (Op. cit., p. 125).  Prosegue Evola: “In quanto fatti, sono senza un senso, una finalità, un’intenzione, proprio in quanto tali essi hanno un senso assoluto. Così appare la realtà, nella pura qualità dell’essere-cose-così-come-sono”. (Op. cit., p.125).  In ciò, l’essenza ultima della Neue Sachlichkeit, della Nuova Oggettività.  Le parole del filosofo tradizionalista, ci paiono una premessa indispensabile per comprendere come oggi, in ambito artistico, sia possibile declinare e vivere queste posizioni.  “L’arte coinvolge tutti i sensi…in una sinestesia illimitata che può essere “delimitata” in un’opera, ma anche vissuta nella vita quotidiana…l’ambientazione sinestetica favorisce ogni contaminazione o fusione, cancellando la linea di demarcazione tra evento, espressione e realtà; fluendo oltre ogni genere prestabilito e unico..” (Conte).  In altre parole, oggi, l’interiore pulsione-coscienza dell’operare artisticamente deve tentare di armonizzare la carica vitalista e il dettato razionale, Dioniso e Apollo, mentre il dada, quale forma estrema e sintetica dell’avanguardia novecentesca, giungeva semplicemente all’esaltazione del non-senso, alla tabula rasa. Tutto ciò, deve essere perseguito al di fuori dei canoni consueti dell’espressività estetica stessa, ma anche al di là di letture statiche della mistica e della tradizione che: “…possono anche esistere e “ripresentarsi” in pulsioni e maschere di nomadismo” (Conte).  Questo percorso può assumere l’apparenza metalinguistica della Danger art: “ ..che…imprevedibile e giocosa…può e deve insinuarsi come un cavallo di Troia…nel fortino rassicurante delle certezze effimere imposte. E’ un modo per cavalcare la tigre” (Conte).  Proprio per questo: “Una Nuova Oggettività deve nutrirsi di simboli, evocativi di una realtà molteplice…” (Gallesi), come avviene, nella realtà attuale, nel web che: “…è la culla di questa tensione evocativa, inconsapevole verso la bellezza. Il livello creativo più immediato…giovanile” (Bozzi Sentieri).  E’ necessario, quindi, portare al centro del “fare arte” i fattori formali e sostanziali che possono ricongiungere tradizione e contemporaneità: “questo percorso…non può non passare da una ripresa d’identità” (Bozzi Sentieri).

 

 

Puer e Senex

Premessa del discorso geofilosofico e artistico, anzi sua conditio sine qua non, è il recupero della polarità archetipica a livello psichico.  Facendo nostra la lezione hillmaniana, così ben interpretata, su piani diversi, nel nostro paese e nell’area di riferimento del Libro-Manifesto, da Bonvecchio e Segatori, non possiamo non richiamare l’unità di Puer-Senex. Infatti, il puer aeternus simbolizza la visione della nostra natura prima, la nostra Ombra d’oro, il senso del nostro Destino, proiettato nell’ascesa al cielo e della nostra vita come tentativo di: “…portare ristoro al fondo archetipico dell’universo” (J. Hillman, Puer aeternus, Adelphi, Milano 1999, p. 102.).  Con ciò si tenta di corrispondere alla vocazione degli enti: quella di raggiungere la loro perfezione, l’entelechia.  Nel senex, al contrario, deve leggersi la possibilità di ordine e di significato, di realizzazione e, pertanto, in esso è implicito il riferimento alla possibilità opposta, quella della stasi, della fine e della morte.  Libertà e necessità, natura e cultura, infinito e finito sono esemplificativamente connessi nelle due polarità psichiche.  Per questo, nella tradizione ellenica il Puer-Senex è stato significato in una particolare idea di tempo, in Αιων, il semper adveniens.  In quanto tale sfuggente, in grado di sottrarsi al nome che cattura, la cui rappresentazione compiuta può, forse, utilmente essere fornita nell’ambito musicale: il suono originario.  Nonostante ciò, sotto la spinta dell’ερος conoscitivo, che trova il proprio organo nel νους, il tentativo di unificazione del separato deve essere tentato.  Solo in questi termini, lo sforzo noetico riesce a configurarsi effettualmente, al medesimo tempo come strumento diagnostico e terapeutico, che consente alla coscienza, attorno ad esso ordinata, di superare il νοσος, rappresentato dalla devianza moderna.  E’in tale condizione che all’uomo è consentito esperirsi nel platonico in-tra, come copula mundi in colloquio con il divino.  Questo il retaggio insuperato e insuperabile, che ci proviene da quella che è stata definita l’esperienza classica della ragione.  E, nonostante le differenze d’impostazione che emergono nei diversi contributi agli “Argomenti”, mi pare che la maggior parte di essi, sotto il profilo antropologico e psicologico, faccia in modo esplicito o implicito, riferimento a queste coordinate sintetiche e di massima.  Conclusivamente, non ci pare errato sostenere con Segatori che dobbiamo tornare a considerare l’ερος non in antitesi al λογος, ma come sua potenza (A. Segatori, Dove va l’Anima?, Settimo Sigillo, Roma 2007).  Insomma, dobbiamo sopperire e far fronte, quanto prima, alla carenza d’animus che caratterizza il nostro tempo.

 

 

Del Tragico: metamorfosi e tradizione

Questa è la sintesi dei contenuti che emergono nei contributi del Libro-Manifesto, in merito alle tre direttrici indicate.  Ora, si tratta di analizzare alcuni interventi, che ci sono parsi particolarmente significativi, al fine di individuare ragioni e Vie della Nuova Oggettività.  Allo scopo, ritengo sia indispensabile riflettere sullo scritto di Giuliano Borghi, in particolare sulla sua pars construens: “L’individuo moderno esperimenta astrattamente il pensiero, ma in esso non rinviene più la corrente animatrice del volere… l’uomo non sa più della presenza densa del reale e stagna il suo essere in un universo mentale del tutto separato dall’universo reale, senza più presa su di esso” (Borghi).  Alla cultura, nel senso del cultus, vivere a modo-di, si sostituisce una cultura sfuggente, poltiglia intellettuale.  Il re-inizio possibile è colto dall’autore nel Tragico che si mostra, secondo quanto avevamo sottolineato in “Premessa”, come fenomenologia della presenza: “…fa vedere il senso delle cose come una presenza, dove il vedere coincide con il capire e la percezione diretta con il significato”, idee e cose secondo Borghi: “…nell’antitesi tragica finiscono per coincidere sul piano della superiore oggettività”.  Egli coglie, tra i due percorsi che si aprirono alla filosofia tra Cinquecento e Seicento, una terza via possibile, quella di restituire il mondo all’anti-principio, che ne esprime la verità innocente: l’hasard. Non è casuale che la Ragione calcolante assieme a una rinvigorita filosofia della fede, troveranno nel Tragico il loro nemico irriducibile.  L’hasard è potenza originante e costituisce il mondo: “…non lascia posto, per questo, né alla speranza, e neppure all’angoscia, bensì a una disincantata e ironica osservazione di una realtà molteplice, eterna e immutabile”.  E’ per questo che il Tragico, trova consistenza in un’etica dell’accettazione di questa visione del ni-ente.  Essa determina uno scarto essenziale, che ci fa comprendere come non sia necessario crederci de-ficienti, ma che non c’è assolutamente niente di cui si manchi.  Ciò rende il Tragico: “…stato di festa, in quanto stato di eccezione…  il καιρος è la tessitura di tutto ciò che esiste”.  Per queste ragioni, il tragico è foriero di Nuova oggettività, in quanto riduce fenomenologicamente il reale, lo denuda in quanto evidenza originaria e originante.  Rappresenta, se pensato in questi termini, di fronte alla crisi attuale, un’uscita di sicurezza, anche in termini politici, dalle erranze dogmatiche e moderne.  Seguendo la linea esegetica di Borghi, è possibile leggere, nello stesso senso, anche il saggio di Giovanni Damiano che, non casualmente, individua nel Seicento, un momento di svolta nella costruzione della modernità.  Egli, con Marc Fumaroli ci ricorda, mostrando una effettiva volontà di recupero del Tragico, che: “Il Nuovo deve tornare ad essere la primavera ritrovata di una dimora abbandonata”.  Perché ciò accada e renda possibile un re-inizio, è necessario tendere “agguati” alla Storia, sorprenderla e poiché è: “…impossibile qualsiasi tentazione di “scavalcare all’indietro la modernità”, in quanto la storia resasi autonoma: “si impernia sulla doppia dimensione presente/futuro e sul contestuale sacrificio del passato”, bisogna guardare altrove.  Constata l’inoltrepassabilità del moderno, sulla scorta delle posizioni di Eisenstadt, Damiano ci invita a: “Pensare un concetto plurale di modernità”.  Perciò: “Il principio archimedeo, consisterà nel rintracciare e far emergere un’altra modernità…un far di nuovo perno sul presente, ricondotto al qui e ora, all’adesso come tempo della decisione, come scelta tra futuri compossibili…e tra questi futuri compossibili si dà anche un futuro re-inizio (il passato riconquistato)”.  E ciò, con buona pace di ogni scolastica rigidamente tradizionalistica, significa pensare la storia come apertura inesausta, che vive nella e della dimensione della libertà-principio e, per questo, non è diretta da alcun necessitante determinismo.  Del resto, la collocazione in illo tempore dell’Antico, è invenzione rinascimentale e moderna, estranea a ogni visione classicamente orientata del precedente autorevole, da intendersi e viversi, come il sempre possibile. Per cogliere appieno questo aspetto, è forse necessario richiamare quanto sostenuto da Luciano Arcella nel suo scritto.  Momento centrale della tesi di Arcella, relativa a radici e identità, sia personali che comunitarie, ci sembra essere la discussione del concetto di “resilienza” in W. Gonsalez: “…è necessario ricordare il passato, ma è fondamentale che esso venga superato per guadagnare il presente…la presenza e la consapevolezza dell’io nascono da una ricostruzione continua del passato, da una rielaborazione affabulativa che ne costituisce anche il superamento finalizzato a proiettare l’individuo verso un futuro senza limiti”.  Il che vuol dire: se l’uomo vuole effettivamente rendere se stesso ex-sistente, progetto, anche politico, deve, certo, avere radici, confrontarsi stabilmente con esse, ma questo dialogo determina, di per se stesso, il loro superamento, almeno nella dimensione formale ed esterioristica, legata ai tempi, al senso comune.  Il rapporto dialogico con il passato e, sul piano individuale, con il vissuto, è già mutamento formale dello stesso.  Radici e identità permangono nella sostanza, ma in una prospettiva di costante modificazione e interazione con la realtà.  Questa tesi ci pare essere stata ulteriormente chiarificata da Carlo Gambescia, il quale sostiene di: “…aver fatto tesoro della distinzione proposta dal sociologo Edward Shils fra Tradizione ab aeterno e la tradizionalità quale forma sociologica obiettiva che necessariamente presiede… alla continuità di qualsiasi società storica”.  E’ la tradizionalità a garantire, vivificando i comportamenti collettivi, in funzione del suo carattere omfalico, la riproduzione e la continuità sociale.  Ora, nel caso specifico del mondo umano afferente al Libro-Manifesto, i cui riferimenti sono altri rispetto alla “valorialità” maggioritaria nel momento attuale del corso storico, ciò significa l’inevitabilità del “conflitto intellettuale”, al fine di guadagnarsi sul campo l’egemonia che gli consenta, nuovamente, di fare storia.  Gambescia ricorda le parole dello psicologo sociale Serge Moscovici, per il quale, nel contesto dialettico/polemologico del confronto, il primo obiettivo è quello, per così dire, di suscitare il dubbio critico: “Ancor prima di persuadere una persona, noi tentiamo di farla dubitare delle sue opinioni”.  Allo scopo andrà tenuta in serio conto, la lezione di Kierkegaard.  Questi, tra i primi comprese che la modernità, in quanto regno dell’anonimato, riproduce la stessa situazione anche nell’ambito comunicativo.  Per questo è esigenza prioritaria, oggi più di ieri, recuperare una forma espressiva persuasa, quella che il filosofo danese chiamava comunicazione d’esistenza, avente di mira, per l’interlocutore, l’attivazione di un poter fare. Suo carattere precipuo dovrà essere quello di ri-aprire la sensibilità per il vero.  Una comunicazione che non si rivolga, pertanto, genericamente, a un pubblico, ma che torni a parlare, in profondità ai Singoli, anche in modo emozionale, al fine di suscitare una reazione di vita, perché liberi dall’apatia intellettuale e conduca al recupero dell’agire come baleno. Quest’azione individuale renderà evidente che il conoscere non è, modernamente, l’appropriazione di un oggetto, ma autoattività. La comunicazione autentica, rende l’altro libero o, quantomeno, lo conduce lungo la strada della libertà.  In ciò, peraltro, si delinea il senso più alto e nobile della Partecipazione, indicato da Sandro Giovannini quando scrive: “Per pulsione efficace verso una società partecipativa qui si intende il generale afflato di reale spinta popolare… dopo la caduta degli infiniti muri che ci hanno resi parziali ed impedito di comunicare realmente… E’ l’attualizzazione del processo dignificante dell’umanesimo integrale… il dare a ciascuno il suo”.  In ciò la Metapolitica sarà collocata/realizzata: “…su un versante prepolitico, apolitico e transpolitico e (proiettata) nei terreni sconfinati dello Spirito” (La Fata).

 

 

Dell’Origine: natura e storia

Da tutto ciò, in particolare da quanto riferito a proposito del Tragico, si evince come un effettivo pensiero antagonista, possa oggi sorgere solo attraverso il recupero dell’Origine, dell’αρχη.  Ci pare, peraltro, come rilevato, dal germanista Giampiero Moretti, che un evidente tentativo di fuoriuscita dalle maglie avvinghianti della soggettività moderna, fosse stato esperito in Germania, tra fine Settecento e inizio dell’Ottocento, dall’Altro Romanticismo, quello del gruppo di Heidelberg.  Questi autori, Gorres, Bachofen, i fratelli Grimm, in parte lo stesso Schelling, rivolgendosi senza esitazioni alle profondità mitico-simboliche della metamorfosi che sposa la natura alla storia, indicano il destino di sottrazione e di manifestazione di senso cui l’essere è storicamente disposto, a partire dalle sue stesse profondità.  Una possibilità, al medesimo tempo di pensiero e vita, alternativa e, per certi aspetti oppositiva, a quella dei Romantici di Jena, degli idealisti propriamente detti, che pensarono ed agirono all’interno della logica identitaria della soggettività e della coscienza.  Questa fece sentire la sua influenza negativa fino a Nietzsche, il cui recupero della Grecia è segnato dalla scelta volontaristica e soggettivista, che lo condusse, nonostante tutti gli sforzi speculativi messi in atto, a esiti nichilistici.  Al contrario, gli Altri Romantici, non sviluppando la loro idea di tempo in un’ottica progressiva e di filosofia della storia, ma muovendosi in direzione di un effettivo recupero della simbolica della storia, porteranno a compimento motivi della filosofia rinascimentale, sopravvissuti all’ondata razionalistica grazie a Spinoza e Leibniz, che indurranno la ri-scoperta della φυσις, in Heidegger, Evola e Emo.  Per questo, risulterà indispensabile tornare a riflettere sugli esiti del transattualismo in Italia, cioè sul tentativo di superare lo scacco, eminentemente gnoseologico, che l’idealismo trovò nella filosofia gentiliana, messo in atto, in termini di assoluta radicalità pratico-teoretica, proprio da Emo ed Evola.  Entrambi fecero riemergere nelle loro pagine, alcune delle problematiche affiorate più di un secolo prima, nell’ambito della Romantik. In essi è dirimente il vigere potente dell’origine e del mito nel presente, al quale è sempre possibile attingere per un nuovo inizio.  L’αρχη è Libertà-Potenza, e in quanto tale ni-ente, nulla di ente: posizione estranea alla metafisica classica, che ha pensato l’assoluto come dato, come positum. Ad Evola l’area intellettuale afferente al Libro-Manifesto deve molto: è stato il punto di riferimento per più generazioni, nel corso del dopoguerra. Nei suoi confronti siamo debitori, non solo per lo specifico valoriale del suo mondo ideale, ma anche per averci introdotto ad autori, tematiche e correnti di pensiero, praticamente misconosciute in Italia, oltre che per averci indicato il valore della tenuta interiore, che ci ha permesso, comunque e nonostante tutto, un lungo cammino.  Di Emo ci siamo occupati meno.  Dobbiamo cominciare a farlo, perché è autore che risponde alle domande più pressanti del nostro tempo, sia in termini speculativi che propriamente politici.  Sandro Giovannini, animato da una curiositas inesausta, a lui ha dedicato la seconda parte dell’In-folio, quella relativa al Presente, che accompagna questo Libro-Manifesto. Ha compreso, infatti, come dai suoi aforismi non emerga solo scetticismo nullificante, che pur gli è stato attribuito, ma una reale via filosoficamente ultranichilista e, quantomeno, una proposta politica post-democratica, in grado di rispondere ai bisogni dei nostri giorni. Inevitabilmente, è da questi presupposti teoretici, che dovrà essere tratto il re-inizio.

Conclusioni: Felicità è agire !

In “Premessa”, trattando, crediamo in termini realistici, della situazione politico-sociale contemporanea, abbiano indicato come il Politico, in termini categoriali e reali al medesimo tempo, svolga oggi un ruolo catagogico: in ciò si manifesta un’inversione radicale rispetto al mondo classico, epoca nella quale la Politica aveva eminentemente un ruolo anagogico, poneva in forma la realtà, era spinta erotica verso l’alto.  Borghi, nella sua riproposizione del Tragico ha scritto che il: “…καιρος è la tessitura di tutte le cose”.  Credo sia opportuno rammentare che il καιρος trovava il suo naturale compimento nella dimensione pratico-politica, laddove in un processo ascetico di progressivo adeguamento delle nostre vite e della nostra indole naturale all’Αγαθον e al Νομος-Λογος cittadino, nell’esercizio quotidiano della δικαιοσυνη, si perveniva a quella saggezza mista a sapienza che consentiva di afferrare, appunto, l’attimo fuggente.  Per di più, almeno stando a Platone, di questa qualità, come narra Er nel decimo e ultimo libro della Πολιτεια, potremmo avvalerci, di fronte ai giudici assolutamente mondani e simboli della Città, Radamanto, Eaco e Minosse, per la libera scelta del δαιμων che condizionerà la nostra nuova vita, il nostro nuovo inizio.  In questa prospettiva la tradizione si manifesta come adeguazione al precedente autorevole, come comunità dei morti e dei viventi che, nell’abbraccio a tutto ciò che è, all’Uno-Tutto della φυσις, avvolge e comprende anche i futuri, gli ad-venienti. Questo credo sia in estrema sintesi, quanto ci ha lasciato in eredità ideale un vero Maestro di classicità, Gian Franco Lami, che proprio mentre alacremente lavorava, tra le altre cose, al Libro-Manifesto, in una gelida e triste domenica invernale, improvvisamente ci ha lasciati.  Da Lui ho imparato, con Socrate-Platone-Aristotele, che “Felicità è agire!”. Queste pagine vogliono pertanto essere uno stimolo, un’ennesima e definitiva chiamata, fatta anche a Suo nome, nei confronti di quanti, per le ragioni più diverse, non hanno, finora, risposto e colto l’appello al dovere dell’impegno.  Tutti gli interventi qui raccolti e presentati, pur nelle loro innegabili differenze, nella loro identità plurale, mirano allo stesso obiettivo: far rinascere la speranza in una comunità ideale e umana, farla ripartire sul piano del concreto intervento culturale, farla discutere, anche animatamente se necessario, al fine di ritrovare almeno un’essenziale unità d’intenti.  L’azione di un Libro-Manifesto non può naturalmente ridursi alla sua pubblicazione, questo è semplicemente un punto di partenza che ci auguriamo produrrà ulteriori aggregazioni e coinvolgimenti.  Le isole di cui dicevo in “Premessa”, hanno iniziato un processo di avvicinamento, che proseguirà durante le presentazioni che di questo scritto faremo in giro per l’Italia.  Il dibattito su queste tematiche, sul “Che fare?”, dovrà proseguire sulle riviste, sul web, nelle Scuole di pensiero e nei Movimenti che, in qualche modo, si riconoscono nella nostra iniziativa.  Solo alla fine di questo processo, che prevedo piuttosto lungo, le isole torneranno a comporre un arcipelago, ad essere, finalmente visibili e la tradizione si mostrerà per quello che effettivamente è: un’utopia, in senso classico-platonico, sempre transitabile.