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La bellezza dell’attimo vive per sempre, sino alla fine del mondo

di Francesco Lamendola - 13/04/2011



«Fermati, attimo, sei bello!», esclamava Goethe nel «Faust», a indicare la struggente nostalgia nei confronti degli istanti felici che, in apparenza, corrono via trascinati dal tempo e scompaiono chissà dove, come se fossero perduti per sempre.
Ma è proprio così? È proprio vero che l’attimo fugge per non fermarsi mai e ci lascia irrimediabilmente indietro, con il nostro malinconico bagaglio di rimpianti e, talvolta, anche di amari rimorsi?
Da quando Eraclito ha affermato che non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua, perché tutto scorre incessantemente e nulla permane, una malattia nuova ha fatto la sua comparsa nella cultura occidentale: il nichilismo.
Sembra che gi enti appaiano e poi scompaiano sull’orizzonte dell’esistente: il che è come dire che ci fu un tempo in cui non esistevano e ci sarà un tempo in cui non esisteranno più; e questo pensiero ha introdotto una nota di angoscia, per non dire di disperazione, dovuta alla scoperta che gli enti, e noi con essi, vengono dal nulla e ritornano nel nulla.
È un pensiero abissale, un pensiero tragico: chi potrebbe sostenerlo e continuare a guardare il mondo con la stessa beata innocenza di quando, da bambini, si crede che le cose esitano da sempre e per sempre?
In questo istante, l’ultimissimo riflesso di luce si sta posando sulla cima delle montagne, prima del crepuscolo: vi è un netto, poderoso contrasto fra il cielo senza nubi, che ancora conserva una tenue tinta fra il verde e l’azzurro, e la massa scura delle montagne, ove più non si distingue alcun particolare, perché tutto appare ugualmente nero.
È un attimo: fra poco il Sole, che già si è coricato dietro le vette, porterà via con sé l’ultimo riflesso di luce e il buio della notte scenderà uniforme, inghiottendo ogni cosa; ma, finché questo attimo dura, esso è di una bellezza e di una delicatezza straordinarie, come se fosse appena uscito, nella sua commovente dolcezza, dal pennello del più grande pittore mai esistito.
E dunque?
Se domani noi non ci saremo, chi ricorderà quest’attimo di incomparabile splendore, quando pare che la natura medesima trattenga il fiato, nell’incanto degli ultimi raggi di luce; chi potrà mai dire che esso vi sia stato?
E se il mondo dovesse finire domani; se non dovessero più susseguirsi né albe, né tramonti, né cieli né montagne, chi o cosa potrebbero mai conservare lo stupore, il fascino, la magia di questo attimo unico, irripetibile, così sospeso fra la terra e il cielo, fra il giorno e la notte?
Oppure si pensi alla pura gioia di un pomeriggio d’estate al mare, alle risate argentine e spensierate, ai corpi abbronzati roridi d’acqua, al rumore delle onde che si infrangono a riva, al volo dei gabbiani: attimi, attimi impercettibili, attimi che si saldano fra loro in un flusso misterioso, che non si saprebbe dire ove abbia inizio e ove finisca; eppure attimi di vita, di pura gioia, di dolce abbandono alla carezza del vento e al tranquillo prodigio di un tempo senza tempo, di un tempo che è fuori del tempo.
Attimi, si vorrebbe dire con Shakespeare, che sembrano fatti della stessa sostanza dei nostri sogni: attimi nel cui flusso noi siamo immersi, come i bagnanti fra le onde, come le risate argentine nella quiete estiva, come la luce del Sole che si riflette sull’acqua e che fa tremare la vista, come le gocce che scorrono sulle membra di una fanciulla che pare una giovanissima ninfa.
C’è un famoso dipinto di Pierre-Auguste Renoir che riassume magnificamente questa tematica: le cosiddette «Grandi bagnanti», cui egli lavorò per ben tre anni, dal 1884 al 1887, pervaso da una sensuale gioiosità mitologica e che, pur realizzato in studio, ispirandosi al Settecento di Boucher e al Rinascimento di Raffaello, emana tuttavia la radiosa pienezza di un dipinto “en plen air”, con il gruppo delle donne immerso felicemente in una fastosa natura mediterranea e quasi panica.
Il pittore francese ha colto l’attimo preciso in cui una svelta ragazzetta, sulla destra del quadro e rappresentata di spalle, per gioco sta per schizzare, con le mani, l’acqua fresca del fiume sul corpo matronale di una donna stesa sulla riva sopra un asciugamano, che si schermisce, mentre un’altra donna, non meno giunonica, al centro della scena, la osserva divertita asciugandosi la schiena, evidentemente al ritorno dal bagno; sullo sfondo si intravedono altre due fanciulle, una che sta nuotando, l’altra che si scioglie i capelli prima dì’immergersi.
Vi sono una tale grazia, una tale spontaneità, una tale immediatezza in tutta la scena, che sembra impossibile non si tratti di una scena reale e, di fatto, l’osservatore non può fare a meno di immedesimarsi in essa, quasi fosse lì egli pure, in riva all’acqua, in una bella giornata estiva o della tarda primavera.
Ebbene: che ne è di un simile istante, che il pennello di un artista (o lo scatto di una macchina fotografica) ha fissato per sempre, ma al prezzo di “fermarlo”, di separarlo dal flusso impercettibile della vita, cristallizzandolo in un qualcosa che non è più quello, che si può mettere in cornice (o in un album di fotografie), ma privo ormai del suo sapore originario, di quell’aroma, di quella musica, così come una farfalla si può fissare in un espositore, dopo averla sottoposta a idoneo un trattamento di conservazione; ma non la si potrà mai più vedere mentre vola sopra l’erba e i fiori del campo, spostandosi con le sue ali colorate al soffio leggero del vento?
Quello dell’istante è un concentrato del problema del tempo e, più precisamente, del problema del suo scorrere incessante dal presente verso il futuro, trasformandosi in passato, cioè in qualcosa che più non sembra appartenerci, che pare smarrirsi in chissà quali grotte sotterranee, lui così fresco e luminoso, così divinamente bello e incantevole.
Dovremmo, innanzitutto, riconoscere le componenti di quello che abbiamo denominato “attimo”: percettive, psicologiche, affettive, metafisiche.
Le componenti percettive sono quelle che provengono dai sensi esterni: visive (il mare, le bagnanti), uditive (le voci, i suoni della natura), olfattive (il profumo della vegetazione), tattili (la carezza del vento e quella dell’acqua), gustative (il gusto dell’acqua salmastra).
Le componenti psicologiche sono quelle che, unificando i diversi stimoli sensoriali, ne estraggono un “prodotto” nuovo e diverso: la consapevolezza dell’attimo come una totalità, come un insieme che si presenta alla coscienza nella sua interezza.
Le componenti affettive sono quelle legate al particolare clima affettivo che ha funzionato da filtro tra l’esperienza immediata e la coscienza stessa: se esistevano legami particolari con quelle persone, se era un periodo sereno della nostra vita, se abbiamo percepito quell’attimo come parte di un flusso armonioso e rasserenante, oppure no.
Le componenti metafisiche, che ben pochi filosofi o scienziati contemporanei sarebbero disposti ad ammettere, sono quelle che non si possono cogliere con gli strumenti del Logos strumentale e calcolante, ma della cui presenza siamo intuitivamente coscienti: esse rimandano a quel di più, a quel “resto” che si ostina a permanere anche dopo che abbiamo riconosciuto, e via via sottratto, le altre componenti, rendendoci conto che esse non sono ancora il tutto.
Esprimendoci in maniera necessariamente approssimativa, potremmo dire che esse hanno a che fare con la trascendenza, con un tempo al di là del tempo e con uno spazio al di là dello spazio; per cui, anche nello stato di massima pienezza esistenziale, il presente non si lascia mai interamente “catturare” e identificare, ma sempre sfugge in parte e sempre rimanda a qualche cosa di ulteriore, di allusivo, di inafferrabile.
Ora, questo “qualche cosa” è precisamente l’intuizione che non tutto, dell’attimo, può essere identificato, descritto, catalogato; che non tutto si lascia leggere come un libro aperto e che una parte di esso risulta sempre eccedente al “qui ed ora”, rimanda sempre all’altrove.
Hanno ragione, pertanto, coloro i quali invitano a vivere la vita pienamente calati nel “qui ed ora”, ma a patto di aggiungere, con altrettanta convinzione, che il “qui ed ora” non è qualcosa che si possa esperire interamente e che in esso, proprio in esso, vi è sempre una dimensione elusiva, una parola mancante, un segno che non si lascia leggere interamente.
Ed è giusto che sia così.
Questa parola non detta, questo segno non letto, ci ricordano che la vita è essenzialmente mistero, e che le nostre analisi per comprenderla, a cominciare dal problema del tempo, sono tentativi di approssimazione ad una verità che, nella sua interezza, non ci è dato attingere, quanto meno con gli strumenti della mente ordinaria; ma, semmai, con quelli fornitici dagli stati di supercoscienza, quando si aprono, per un momento, le barriere spaziotemporali e le cose ci si rivelano, sia pure fuggevolmente, nella loro luminosa essenza, non condizionate dal nostro modo particolare di percepirle, dai nostri sensi, dalla nostra psicologia e dalla nostra affettività.
La filosofia moderna ha voluto espellere da sé la metafisica, ma questa non se ne è data troppa pena, dal momento che continua ad essere presente nella realtà, esattamente come prima; ed, esattamente come prima, si lascia intuire o intravedere, da chiunque non sia totalmente succube del pregiudizio materialista e conservi la capacità di stupirsi davanti al prodigio del mondo.
La meditazione è un altro modo per accedere al tempo di là del tempo, allo spazio di là dello spazio: è trovare, nell’istante presente, il varco verso l‘assoluto.
Contrariamente a quello che molti pensano, la meditazione non è una forma di concentrazione mentale; al contrario: è sgomberare la mente da ogni pensiero, perfino dalla mente stessa; e scoprire che, senza di essa, si diviene più consapevoli di prima, non meno.
Questo concetto è stato bene esplicato in una pagina del «Libro arancione» di Osho (titolo originale: «The Orange Book», 1981; traduzione italiana Roma, Edizioni Mediterranee, 1983, pp. 44-45):
«Man mano che vai in profondità nella meditazione, il tempo scompare. Quando la meditazione giunge a una vera fioritura, ti accorgi che il tempo non è più. Accade simultaneamente: quando la mente scompare, la mente scompare. Per questo, da secoli i mistici sostengono che il tempo e la mente non sono altero che due aspetti della stessa medaglia.  La mente non può vivere senza il tempo e il tempo non può vivere senza la mente. Il tempo è l’elemento che permette alla mente di esistere.
Per questo tutti i Buddha hanno insistito sulla necessità di vivere nel momento. Vivere nel momento è meditazione, essere semplicemente qui e ora è meditazione.  Chi vive semplicemente qui e ora è con me in questo momento: è in meditazione. Questa è meditazione: il lontano richiamo del cuculo e l’aeroplano che passa, e i corvi e gli uccelli, e tutto è silenzio e non c’è nessun movimento nella mente. Non state pensando al passato e non state pensando al futuro. Il tempo si è fermato.  Il mondo si è fermato. L’arte della meditazione sta tutta nel fermare il mondo.  E vivere nel momento significa vivere nell’eternità. Gustare il momento senza concetti, senza concetti, è gustare l’immortalità.»
Vi sono, pertanto, due maniere assai diverse di intendere e di vivere la formula ormai abusata - specialmente da certa psicologia “à la page” - del “qui e ora”.
L’una è rozzamente materialista, immanentista, chiusa alla trascendenza: uno stordirsi con le cose, con la loro dimensione estetica, un po’ come l’oppiomane che null’altro desidera se non stordirsi con la sua droga preferita.
L’altra, invece, è fondata sulla sospensione del giudizio, sull’abbandono della mente, sull’assecondare il flusso della corrente coscienziale; ed è questa che permette di aprire un varco nel muro del tempo, dello spazio e del principio di causa ed effetto.
Ce n’è fin troppa, di gente che afferma con orgoglio di saper vivere nel momento: il punto è in che senso di debba interpretare una tale espressione.
Vi sono momenti che imprigionano nel flusso del tempo che si perde, e momenti che dischiudono prospettive fatte di eternità: attimi che vivranno per sempre, sino alla fine del mondo.