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La potenza divina può fare qualsiasi cosa? Ockham e la svolta della scienza moderna

di Francesco Lamendola - 14/04/2011



Dal momento che Dio è onnipotente, perché non potrebbe fare qualsiasi cosa, anche sostituirsi alle forze della natura o modificarne l’azione a suo piacere?
E se la natura non è sufficiente a se stessa, se non trae da se stessa i propri principî e il proprio fine, che senso ha cercare di prevederne i fenomeni o, addirittura, stabilire delle leggi, in base alla relazione di causa ed effetto?
Erano questi gli interrogativi che tormentavano la filosofia occidentale nel tardo Medioevo, quando, nonostante l’autorità indiscussa di Aristotele e la gigantesca opera di sistemazione teologica realizzata da San Tommaso d’Aquino, i filosofi della natura, come allora si chiamavano gli studiosi dei fenomeni naturali, andavano cercando una propria strada autonoma dalla teologia e si chiedevano, non senza trasalimenti e confitti interiori, se era giusto fissare dei limiti all’azione onnipotente di Dio, allorché si pretendeva che Egli non potesse o non volesse intervenire per cambiare l’ordine naturale che aveva stabilito.
Fino ad allora si era ammesso che i fenomeni naturali si producono attraverso delle cause seconde, ossia le cause risiedenti nella natura stessa, mentre la causa prima rimane sempre in Dio; ora, nel corso del XIII secolo, per la prima volta si cominciava a dubitare di questa distinzione; o, per essere più precisi, ci si cominciava a domandare dove avrebbe portato il riconoscimento che Dio, pur essendo un Agente assolutamente libero, non interviene per modificare i processi di quella realtà naturale che da Lui ha preso origine, ricevendo ordine e scopo.
Nella mentalità medievale, infatti, ma anche sulla scorta della filosofia greca, si distinguevano nettamente l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale; distinzione che San Tommaso aveva definitivamente codificato e alla quale corrispondeva la duplice realtà del mondo celeste, perfetto e immutabile, governato direttamente da Dio, e mondo terrestre - o, per meglio dire, sub-lunare -, imperfetto e mutevole, anch’esso governato da Lui, ma solo indirettamente, ossia attraverso delle cause seconde.
In effetti, le implicazioni potenzialmente materialistiche della filosofia naturale di Aristotele avevano provocato, fin dal 1210, la condanna delle opere scientifiche del filosofo greco, che l’arcivescovo di Sens, Pietro de Corbeil, aveva decretato nei confronti della nascente università di Parigi; condanna che investiva sia la lettura, sia l’insegnamento.
Due lettere, inviate dal papa Gregorio IX ai teologi della Sorbona, rispettivamente nel 1228 e nel 1231, esortavano inoltre i professori di quella Università ad esporre le opere di Aristotele in accordo con l’insegnamento dei Padri della Chiesa e di attendere l’esito dei lavori di una apposita commissione incaricata di epurare i libri di filosofia naturale dello Stagirita; ma la commissione non condusse mai a termine il proprio incarico e, dopo lo 1250, la proibizione di fatto cadde, tanto che si riprese a studiare Aristotele nei testi originali.
Nella seconda metà del XIII secolo la Chiesa riprese la sua azione con maggiore energia: nel 1270 l’arcivescovo di Parigi, Stefano Tempier, dichiarò eretiche tredici proposizioni scientifiche di Aristotele, fra le quali l’eternità del mondo e il determinismo astrale; oltre, naturalmente, all’unicità dell’intelletto possibile (nel 1270 e dunque nel pieno della polemica, tornato a Parigi, Tommaso d’Aquino pubblicava i due trattati «De unitate intellectus contra averroistas» e «De aeternitate mundi»).
Una seconda condanna, ancora più recisa, venne emessa nel 1277, sempre dal Tempier, ma dietro suggerimento del pontefice Giovanni XXI, questa volta contro ben 219 proposizioni di diversi autori, oltre che Aristotele (verso il quale veniva ribadita la condanna precedente), da Sigieri di Brabante, a Boezio di Dacia, allo stesso Tommaso d’Aquino. Ad essere colpiti non erano soltanto gli avrerroisti latini, ma tutti quegli autori, quei testi e quelle proposizioni che, sulla scorta di una interpretazione materialistica della fisica di Aristotele, nonché dei suoi studiosi e traduttori arabi, sembravano indicare una eternità del mondo e un rigido determinismo delle sue leggi fisiche, suggerendo così l’esistenza di un limite ben preciso alla libertà divina di intervenire e operare sul piano della realtà materiale.
Gli storici di tendenza positivista, specialmente nel XX secolo, hanno sempre visto nella condanna del 1277 il momento culminante di una vera e propria crociata oscurantista della Chiesa cattolica contro la libertà della ricerca e, in particolare, un tentativo di ristabilire la supremazia della teologia sulla filosofia, dunque anche sulla filosofia naturale, ovvero sul pensiero e sulla ricerca scientifici; ma si tratta di una interpretazione scopertamente parziale e strumentale, viziata dal pregiudizio laicista ed anticlericale che la muove.
Con altrettanta ragione, se non maggiore, si può vedere in quella vicenda, come sostiene Pierre Duhem, il punto di crisi della scienza medievale e la volontà di sgombrare il campo da una concezione rigidamente determinista, reintroducendo margini di spazio per un libero intervento divino nel mondo terrestre; operazione che, contrariamente a quel che può sembrare ai cultori di una astratta “libertà” di ricerca filosofica, andava invece nella direzione di favorire oggettivamente una ridefinizione del paradigma scientifico in un senso favorevole agli sviluppi successivi o, quanto meno, compatibile con l’idea di un mondo fisico aperto alla possibilità di una lettura non rigidamente deterministica dei fatti naturali.
Scrive Edward Grant nel suo pregevole saggio «Le origini medievali della scienza moderna. Il contesto religioso, istituzionale e intellettuale» (titolo originale: «The Foundation of Modern Science in the Middle Ages. Their Religious, Institutional, and Intellectual Contexts», Cambridge University Press, 1966; traduzione italiana di Aldo Serafini, Torino, Einaudi,  2001, pp. 212-15):

«Alcuni filosofi teologico-naturali erano turbati dal pensiero che la certezza conseguibile con la scienza dimostrativa aristotelica potesse rivaleggiare con la certezza della fede, e forse sovvertirla. Perr contrastare questa spiacevole possibilità,  alcuni filosofi teologico-naturali sollevarono dubbi sulla certezza  della scienza dimostrativa aristotelica, invocando la dottrina della potenza assoluta di Dio, che […] fu un importante fattore della Condanna del 1277.
Il principale protagonista di questo dramma fu Guglielmo di Ockham (1285 ca-1349).  Logico e filosofo di grande valore, Ockham era anche un eminente teologo. A suo giudizio, il mondo dipendeva dall’imperscrutabile volontà di Dio, il quale, con la sua potenza assoluta, avrebbe potuto fare le cose diverse da quel che sono. Ne conseguiva che tutte le cose esistenti sono contingenti, cioè avrebbero potuto essere fatte in modo diverso, o potrebbero non esistere affatto. Come agente completamente libero, Dio può fare qualunque cosa che non implichi una contraddizione logica.  Tutto ciò che egli può creare per il tramite di cause secondarie o naturali, potrebbe crearlo e conservarlo anche direttamente, o in concomitanza a cause secondarie o naturali.  La potenza di Dio è così grande che egli, se volesse, potrebbe creare un accidente non inerente alla sua sostanza, o una sostanza priva dei suoi accidenti;  e potrebbe produrre una materia senza forma, o una forma senza materia. Da queste considerazioni rigorosamente teologiche, espressione di uno spirito teologico che produsse la Condanna del 1277, Ockham derivò un’epistemologia che è stata caratterizzata come un empirismo radicale.
L’aspetto principale dell’empirismo di Ockham è la convinzione che tutta la conoscenza  viene ottenuta con l’esperienza, mediante la “cognizione intuitiva” (un’espressione che egli mutò da Duns Scoto).  Ockham intendeva dire che sia gli oggetti esterni alla mente, sia gli stati mentali personali, sono colti in modo diretto e immediato. Queste percezioni dirette permettono a ciascuno di noi di sapere se qualcosa esiste o non esiste. Non è richiesta, né viene compiuta, alcuna dimostrazione dell’esistenza di qualcosa che sia stato percepito in questo modo.  Persino un oggetto assente o inaccessibile può produrre una cognizione intuitiva, perché Dio può decidere di fornire direttamente la causa della cognizione, anziché operare, come d’abitudine, attraverso una causa secondaria. La nostra esperienza di quell’oggetto sarebbe identica in entrambi i casi. Dio potrebbe anche farci credere all’esistenza di un oggetto che in realtà non esiste, mentre non può farci avere una conoscenza evidente che esso esiste. In altri termini, Dio può far nascere in noi la credenza che un oggetto esiste, ma non può farci sapere che esso esiste realmente. Ciò sarebbe contraddittorio, poiché abbiamo supposto che quell’oggetto non esista. Per Ockham, quindi, la certezza psicologica  era indistinguibile dalla certezza basata sull’evidenza “oggettiva” acquisita attraverso i sensi.
Negando che fra le cose contingenti esistano legami necessari, Ockham fu indotto a prendere in esame i rapporti causali.  Nel suo “Commento alle Sentenze”, egli sostiene che qualcosa può essere ritenuta una causa immediata quando l’effetto  da essa prodotto avviene in sua presenza, mentre - restando uguali tutte le altre circostanze -  quell’effetto non si verifica in sua assenza. Ma solo per esperienza, e non in virtù di un ragionamento a priori, possiamo legittimamente definire come legate da un rapporto causale le sequenze di eventi che si producono nelle condizioni ora descritte: per esempio, quando stabiliamo che il fuoco è la causa della combustione di un tessuto. Poiché Ockham ha mostrato che l’esistenza di una cosa non implica necessariamente l’esistenza di un’altra cosa, il ragionamento a priori non svolge in lui alcun ruolo, come invece avveniva nelle precedenti discussioni sulla causalità. Neppure l’esperienza garantisce una vera certezza nelle determinazione dei rapporti causali: Dio, infatti, potrebbe aver fatto a meno della causa secondaria, e aver appiccato direttamente il fuoco al tessuto. Persino in condizioni ideali di osservazione di ripetute sequenze di eventi, sarebbe impossibile identificare con certezza lo specifico agente causale. In questo modo, Ockham sembrava minare dall’interno l’idea aristotelica, che nel XIII secolo era a stata largamente accettata, del carattere necessario e sicuramente riconoscibile dei rapporti di causa ed effetto.
Il pensiero di Ockham esercitò una grande influenza non solo nel secolo XIV, ma anche oltre. Alcuni pensatori da lui influenzati cercarono di abbandonare la scienza dimostrativa e si affidarono ad argomenti probabilistici. I teologi Nicola d’Autrecourt (n. 1300 ca - m. dopo il 1350) e Pietro d’Ailly (1350-1420), insieme con altri autori del secolo XIV, cercarono di costruire delle alternative ad Aristotele, sostenendo che, per moltissimi problemi, era possibile ricorrere a delle soluzioni probabili altrettanto soddisfacenti di quelle aristoteliche. Essi affermavano che molte argomentazioni non avevano carattere dimostrativo, e potevano essere soltanto probabili. Biagio Pelacani da Parma (1345 ca - 1416), insegnante di matematica e filosofo naturale in varie università italiane, contrapponeva la matematica, che è scienza dimostrativa, alla filosofia naturale, disciplina che - a suo parere - aveva per oggetto cose non suscettibili di dimostrazione. Ma anche nel secolo XIII Roberto Grossatesta aveva sostenuto che le dimostrazioni in fisica e filosofia naturale erano solo probabili, a differenza di quelle matematiche che erano certe. Ruggero Bacone affermava che, nella filosofia naturale, la dimostrazione doveva essere confermata dall’esperienza. “Il ragionamento - diceva - non è sufficiente, ma l’esperienza sì”; e concludeva: “Perciò, quando Aristotele dice che la dimostrazione è un sillogismo che ci dà la conoscenza, questa affermazione è vera se l’esperienza si accompagna alla dimostrazione, mentre non lo è se riferita alla nuda dimostrazione” (“Opus Maius”, VI, 1). Per quanto riguarda il grado di certezza, si riteneva generalmente che quello offerto dalla filosofia naturale fosse inferiore a quello offerto dalla matematica, la quale forniva il paradigma della dimostrazione certa.»

Su Biagio Pelacani, citato dal Grant, ci riserviamo di tornare in maniera più specifica, trattandosi di una figura di studioso particolarmente interessante; per cui non insistiamo oltre sulla sua connessione con le tesi di Ockham.
La connessione fra queste e la concezione di Ruggero Bacone (1214 circa - 1294), nel senso della derivazione delle prime dalla seconda, è, comunque, piuttosto chiara: mettendo in dubbio l’infallibilità del metodo dimostrativo applicato alla filosofia naturale, Bacone apriva la porta alla critica di Ockham alla verità come frutto di un ragionamento a priori e al suo empirismo radicale, basato sulla certezza dei risultati della sola esperienza.
Il pensiero di Ockham rappresenta un momento importante della filosofia medievale; e se, da un lato, il suo empirismo radicale precorre quello di Berkeley, anche nella convinzione, decisamente idealistica e quasi neoplatonica, che la fonte ultima del nostro conoscere è in Dio e non nelle cose, dall’altro lato crea le premesse per la costituzione di un margine di autonomia per la filosofia naturale: se, infatti, davanti all’onnipotenza divina tutte le cose sono contingenti, allora non vi è in esse una rigida determinazione causale, perché noi non abbiamo una vera certezza circa la connessione che lega i fenomeni in una catena di cause ed effetti.
Di più: quando Ockham sostiene che solo l’esperienza può decidere sulla connessione causale tra due determinati fenomeni, si avvicina molto alla posizione di Hume, per il quale ciò che noi chiamiamo legge di causa ed effetto altro non è che il frutto dell’abitudine, ossia di una prolungata esperienza circa la successione temporale di due fatti, che per molto tempo abbiamo osservato ricorrere in maniera costante.
Ed è logico che le vedute del francescano medievale e quelle dello scettico del XVIII secolo si avvicinino sensibilmente su questo punto: la concezione secondo cui la libertà assoluta di Dio è in grado di far percepire all’uomo una causa seconda che forse non esiste, e quella secondo cui nulla sappiamo delle vere cause dei fenomeni naturali, perché in natura non esiste alcuna “legge” nel senso che intendono gli scienziati, sono opposte ma speculari: il mondo di Hume è un mondo in cui, tramontata la presenza del divino, restano però tutto il senso della precarietà del conoscere umano e tutta la fragilità delle cose stesse, specialmente nei loro reciproci legami.
Che vi sia un Dio onnipotente, libero di intervenire in qualunque momento nella Sua creazione per modificare la sequenza causale o per far credere agli esseri umani che è la natura stessa ad agire, là dove invece Lui stesso sta agendo in prima persona, oppure che vi sia una assoluta inconoscibilità del mondo senza Dio, dal punto di vista pratico la conseguenza è la medesima o molto simile: il riconoscimento che poco o nulla sappiamo circa le cause prime dei fenomeni.
Ebbene, l’idea di Ockham, secondo la quale può esservi un fumo senza fuoco, così come può esservi un fuoco appiccato direttamente da Dio e non originato da cause naturali, viene a colpire al cuore il principio aristotelico del rapporto necessario esistente, in ogni caso, tra la causa e l’effetto e, in tal modo, segna effettivamente una svolta epocale, preparando la strada ad una epistemologia più libera dalla tradizione aristotelica.
Contrariamente a quel che pensano gli storici della filosofia (e della scienza) di formazione positivista, la teologia di Ockham, che sembra un regresso rispetto alla laicità del sapere scientifico, poiché concentra un immenso potere d’intervento nelle mani di Dio, di fatto socchiude la porta alla nascente autonomia della scienza medesima.
Sarebbe immaginabile un Galilei, che si pone contro l’aristotelismo in nome del copernicanesimo, se Guglielmo di Ockham non avesse affermato che non è la logica aristotelica ad avere l’ultima parola in una discussione scientifica, perché occorre porsi in modo non abitudinario di fronte al perché dei fenomeni naturali; e se, prima ancora, Ruggero Bacone non avesse sostenuto che solo l’esperienza può dare la vera conferma di una teoria scientifica?