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Anni 70. Per uscirne definitivamente

di Valerio Morucci - 20/04/2011


Non ho letto, Miro, i tre libri recensiti da Andrea Colombo – due su Valerio Verbano e uno su Acca Larentia – nell’articolo pubblicato giorni fa [leggi QUI]. Non li ho letti non per caso; preferisco non leggere libri in questo argomento. Perché il loro carico di morte mi angoscia e perché, due su tre, sono pieni di insulsaggini. Idea confermata dalla lettura della risposta di Cutonilli, e da un passaggio a volo d’uccello sui punti salienti del suo libro.

Abbondano gli esperti della domenica, abbondano i tuttologi buoni per ogni inutile parere, abbondano gli investigatori da strapazzo che non sanno distinguere tra Perry Mason e la vita, e la morte, vera delle persone. Vita e morte che non sono avvenute in episodi unici e particolari, riducibili alla cronaca poliziesca e alle carte processuali, ma nella vita e nella morte, nella storia e nella tragedia, di un intero paese. E per entrare nella storia e nella tragedia occorre un qualcosa che a costoro manca del tutto: il rispetto.

Tutti questi personaggi approssimati, ricalcati sugli stilemi mass-mediatici del decadimento di intelligenza che accompagna il decadimento dell’Occidente, non dovrebbero trovare spazio nei luoghi dove si cerca con fatica di recuperare un pensiero critico, in grado di mordere una realtà la cui liquidità e scivolosità è oggi pari alla sua folle velocità.

Quello delle vicende degli anni ’70 è divenuto terreno privilegiato per esercizi di scempiaggine, pressappochismo, manicheismo, vittimismo e tutto il peggio che può scaturire da cervelli poco attrezzati e caratteri malformati. Per vanagloria di sé o per interesse di parte, la sostanza non cambia. Tutti a caccia in una riserva sconfinata dove si possono sparare cazzate a ripetizione alla dove cojo cojo senza bisogno di alcuna licenza.

Visto che l’incompetenza è la prima, e più grave, forma di corruzione, libri così fatti corrompono. Gli animi e la ragione. Inducono al semplificazionismo, al riduzionismo, all’annacquamento delle capacità di discernimento delle complessità, alla pigrizia intellettuale. Plaudono al cuci-cuoio che s’arroga di far critica al pittore. Istigano a un rancore sempiterno, rinfocolando verso sempre nuovi nemici. Tanto più improbabili e tanto più credibili nella costruzione della congiura, del diabolico disegno avverso, del ‘male’ che ha colpito proditoriamente.

Sfruttano l’inganno di una verità che, nella crudezza della sopravvivenza per il tempo trascorso, non interessa a nessuno tra quelli che tanto ne parlano. Agitata alla bisogna solo per mantenere la stanca ritualità dell’autocompatimento, del presunto riscatto contro un destino cinico e baro, contro il grande nemico che congiura, e senza il quale sarebbero state immancabilmente realizzate sorti magnifiche e progressive. La vuota ritualità che riempie d’orgoglio di sé, e del vuoto di sé. Direttamente proporzionali. Maggiore il vuoto di sé e maggiore deve essere l’orgoglio, rituale e retorico, alfine ipocrita, che lo nasconde. Più si va da un rito a un altro, e meno si fa un passo avanti nella trasformazione del mondo. Oggi nella sua riumanizzazione. Ma, prima ancora, nella sua comprensione. Nella sua complessità che ha sempre risputato fuori tutte le semplificazioni, le forzature, le riduzioni, i manicheismi. Le scorciatoie d’accatto.

Una ritualità che confonde il culto dei morti, che vuole essere onorifico, con il culto, assai poco onorevole, del vittimismo. La fiera rivendicazione di sé con il piagnucolamento contro qualcun altro. Raggiungendo il sommo del ridicolo nelle schiere di sedicenti rivoluzionari che si mettono a gazzarrare come cornacchie chiedendo proprio allo Stato, contrastato altrimenti come moloch oppressivo, di fare giustizia sui loro nemici.

Le masse dei diseredati, dei reietti, le masse dei toccati da Dio, dei senza qualità, hanno bisogno di miti fondativi vittimistici. Hanno bisogno di un nemico che faccia quotidiana strage di innocenti, per invocare agli occhi del mondo il giusto riscatto. E da lì, dismessi in un niente gli occhi bassi della vittima, pretenderlo e imporlo con inusitata ferocia.

Le masse che traggono la propria forza dalla sopraffazione, omogeneizzazione, annullamento, collettivizzazione delle individualità, hanno sempre piagnucolato come greggi di povere pecore assalite da lupi cattivi. Per farsi poi lupo sotto mentito vello.

La sinistra, che sul quel mito redentivo delle masse ha innervato la propria ideologia e la propria azione, ha proseguito con l’assordante e patetico piagnucolamento. Loro sono sempre stati vittime innocenti. E tanto hanno piagnucolato e tanto si sono vittimizzati da riuscire a volte a convincere quasi intera una società della propria innocenza a prescindere, qualsiasi cosa avessero combinato.

Questa furberia storica, questa vigliaccheria, in fondo, di tirare il sasso e nascondere la mano, di andare a colpire per poi gridare come aquile appena colpiti di ritorno, è stato il leit motiv della sinistra tutta italiana. Senza distinzione alcuna, e fa strano, tra parlamentaristi e rivoluzionari. Anzi, questi ultimi, i pretesi rivoluzionari, a gridare ancora più forte e le colpe del nemico aggressore e l’innocenza propria di vittime. Quello che era un viatico per il Paradiso trasformato in viatico per la Rivoluzione.

Fino al teatrino dell’assurdo, ma sarebbe meglio dell’ignominia, di leader che reclamavano le angherie subite e il perdurante stato di vittime designate, proprio dietro il cordone di quelli che con le loro chiavi inglesi fracassavano la testa di avversi diciassettenni.

Problema è che questo misero sotterfugio, questa vigliaccheria storica è stata acquisita anche da una controparte che ne dovrebbe essere stata del tutto aliena. Non le masse dei reietti da quel lato, non l’indistinzione del singolo in una massa informe e senza volto, non il piagnisteo sulla contrarietà della natura e sulla malvagità degli uomini a contrastare il riscatto e il giusto pane per le genti affamate. Non tutto questo, ma il singolo individuo che consapevole della propria sorte umana fieramente e a viso aperto affronta e la natura e gli uomini, credendo che unica misura della vita è la sfida alla morte. L’indifferenza alla morte, che è comunque già nel destino umano.

Soccorrimi Miro, perché questo è terreno tuo e non mio. Ma a me, esterno a questo mondo eppure consapevole del suo fascino e delle sue ragioni, mi pare che tutto questo non si combini col vittimismo e col piagnisteo contro i ‘cattivi’. Che c’azzecca questa miserabilità intellettuale e umana con l’aretè e con le Termopili?

E’ una deriva missina assunta nelle difficoltà e nell’ostracismo del dopoguerra? Non saprei. Altri dovrebbero indagare su questo.

Quello che so è che io preferisco indagare nella storia che non nelle carte giudiziarie, nelle veline di Questura come ha fatto Cutonilli. Non conosco i nomi di chi ha ucciso Valerio Verbano. O degli altri uccisi senza colpevoli. Non li so e non li voglio sapere. Non mi direbbero nulla, non aggiungerebbero nulla, né svelerebbero nulla, né cambierebbero la storia. Né spiegherebbero i perché. Dato che i veri perché non li conoscevano nemmeno loro. E sarebbero intercambiali nei nomi e nei volti gli uni con gli altri. E con altri mille. Sfumerrebbero a mano a mano fino a confondersi con il fondale da cui erano emersi. E allora tanto vale partire da quel fondale. Cercare lì le ragioni, e gli addebiti.

Lì in quel fondale, per troppi ancora opaco, si scopre con doppio orrore che quei giovani che da entrambe le parti hanno affossato la spinta antagonista nell’istinto cieco di una pulizia ‘etnica’, hanno corrisposto non a quello che credevano un proprio disegno, ma al disegno di quelli che nel loro sanguinario e opposto contrapporsi hanno fissato e garantito la propria centralità politica. Quell’infida balena bianca che, nell’ambiguo intreccio di salvaguardia del paese e salvaguardia del proprio potere, tutto ha fagocitato, tutto ha nascosto, tutto ha confuso. Bombe dilanianti e urla di dolore, fiumi di sangue, perverse alleanze e inconfessabili intrecci e trascorsi. E al fianco di questo Leviatano c’erano quelli che hanno attinto nel sangue dei propri giovani per stigmatizzare il contrapposto nemico, e spargere nuova acqua santa sulla propria causa. E anche qui ogni parte per sé potrà dire quanto maggiore e diversa è stata la sicura responsabilità. Con un dato che però è ormai certo. Quel meccanismo è stato avviato grazie all’interessata complicità di chi, per assurgere a maggior ruolo o per togliersi dall’angolo, ha imposto ai propri giovani di abbandonare l’allora pericolosamente impetuosa spinta rivoluzionaria, e concentrare l’azione contro il ‘nemico storico’.

Gli artefici che hanno favorito, sospinto, sfruttato quel gioco al massacro, si saranno sempre compiaciuti del meccanismo perverso e perfetto che avevano messo in piedi. Con i burattini della loro manovra a vedere solo davanti a sé il ‘nemico’ appositamente predisposto, e mai quelli che lì l’avevano piazzato per farli giostrare. Se ne compiacevano allora e se ne compiacciono ancora oggi, anche se non più occorre come allora, constatando come tanta e diabolica perfezione continui a funzionare imperitura, sempre uguale, mai una sbavatura che contasse. Il panno agitato, e tutti ancora a scornarsi tra loro sui vecchi rancori, anziché rivolgere le corna contro chi li ha chiusi nell’arena a massacrarsi a vicenda.

Di costoro, con Pasolini, conosciamo i nomi. Ma anche questi ormai non contano più nulla. Finita l’urgenza della tenzone epocale e dello smacco, dei rendiconti individuali. E’ stato un assetto di potere – nella sua determinazione storica, nella sua assoluta debolezza, per DNA e per posizione geo-politica – a sfruttare cinicamente a proprio vantaggio, in un momento di turbolenta trasformazione, gli atti convulsi di una generazione ciecamente prigioniera di contrapposizioni che i padri non solo avevano lasciato scientemente irrisolte, ma avevano aizzato alla bisogna.

E’ quindi verso quel Potere, per ciò che ne è ancora presente e per ciò che ne rappresenta la continuità, che andrebbero avanzate le richieste di risarcimento. E’ quel potere, e non la parte avversa, che deve rendere ragione del sangue versato e degli orrori valutati allora quale prezzo da pagare per la ‘stabilità’. Mestiere eccelso del Potere è puntellarsi con atti immondi e riuscire a scaricarli addosso ai sudditi. Come tributi aggiuntivi. In questo caso un tributo di sangue. Ogni tanto, trascorsi l’urgenza che svia e i camuffamenti che nascondono, si dovrebbe essere in grado di fargliene rendere ragione.

Se solo una delle due parti riuscisse a decretare una moratoria, o quantomeno un tregua nel rivendicazionismo sulle vittime, il meccanismo si incepperebbe. Persa la forza centrifuga dell’odio che sempre l’ha nascosto, giacerebbe inerte sul terreno, e lì sarebbe visibile, smascherabile, smontabile.

Inutile dirti, Miro, che credo che questa parte che dovrebbe dignitosamente porsi in attesa corrisponda a quella che potrebbe fare a meno del vittimismo e del piagnisteo per ridefinire e valorizzare una propria identità.

Sappiamo entrambi, Miro, che quella delle violenze estreme l’un contro l’altra armate è stata stagione tragica. Non in senso mondano, ma storico. E alla storia andrebbe riconsegnata, non tenuta in ostaggio dalle parti. Quelle decine di giovani vite buttate meritano assai di più, nel nostro ricordo e nel nostro rammarico, che essere dissezionate sulla base di artificiosi verbali di pentiti e miserrime confidenze questurine. Assai di più che essere continuamente e impietosamente riesumate, peggio che con il cadavere di Cromwell, per rinfacciarle al ‘nemico’ nelle occorrenze e negli interessi del quotidiano. Negli interessi contingenti dei vivi.

Quella stagione e quelle giovani vite sono tutt’uno con la storia del paese, e di fronte al paese vanno poste perché ne renda ragione e memoria e, finalmente e definitivamente, le seppellisca.