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L’analfabetismo di se stessi non produce che infelicità e amarezza

di Francesco Lamendola - 10/05/2011





Ma perché mai, con tanti problemi che la vita ci mette continuamente davanti, dovremmo prenderci anche il disturbo di scendere verso il fondo di noi stessi, alla ricerca della nostra verità interiore, della nostra dimensione più autentica?
Perché non potremmo accontentarci di vivere in superficie, indossando volta a volta le maschere di cui abbiamo bisogno per rassicurare gli altri e noi stessi circa il fatto che va tutto bene, che non c’è proprio nulla di cui preoccuparsi?
In fondo, non è quello che fanno anche gli altri, quello che fanno tutti, per una specie di tacito accordo; anche se, forse, non sarebbe la cosa ideale da fare, ma insomma è quello di cui sui accontenta la quasi totalità degli esseri umani?
Il perché dovremmo farlo, invece, e non limitarci a fingere di farlo, è decisamente semplice: per non fare del male a noi stessi e per non fare del male agli altri, specialmente a quelli che diciamo di amare e che, forse, crediamo realmente di amare.
Se si ignora tutto di se stessi, se non ci si è mai posti il problema di costruire il proprio Sé, allora si andrà in giro per le strade della vita seminando ovunque equivoci e fraintendimenti: i cui frutti saranno, inevitabilmente, infelicità e amarezza.
Ma cosa vuol dire imparare a guardarsi dentro? Vuol dire rendere limpido il proprio sguardo ed essere capaci di osservarsi in maniera spassionata, rifiutando sia la tentazione del narcisismo e delle facili scusanti alle proprie manchevolezze, sia quella, solo apparentemente opposta, della disistima di sé, del vittimismo e dell’autocommiserazione.
È necessario imparare ad osservare pensieri, sentimenti, emozioni e, soprattutto, imparare a riconoscerli: perché, sembra incredibile, moltissime persone non ne sono capaci e, se pure andassero a sbattervi contro, stenterebbero a rendersi conto di che cosa si tratti, proprio come l’analfabeta non sa cosa vi sia scritto nella pagina di un libro.
Si capisce che, a monte di tutto questo lavoro su se stessi, è necessario elaborare una propria filosofia della vita, un proprio progetto esistenziale, fondato su valori, obiettivi da realizzare e strumenti idonei allo scopo; cosa che, evidentemente, non è possibile se si pensa che la vita sia frutto del caso e che sia del tutto indifferente in quale direzione muoversi, purché si cerchi di schivare il dolore e di conseguire il piacere.
Prendiamo, a titolo di esempio, l’ambito sentimentale.
Le persone amano, o credono di amare: si cercano, si prendono, si lasciano, in base ad impulsi, timori (come quello della solitudine) e desiderî, sui quali si interrogano, generalmente, poco e male, nel senso che si accontentano delle risposte più superficiali, più comode e tali da assolverli da ogni responsabilità per ciò che, nella loro vita, non va nel senso sperato.
Per questa ragione, le persone tendono a reiterare sempre gli stessi errori e a porsi nuovamente nel solco delle dinamiche già vissute, anche se queste si sono mostrate distruttive: cambiando legami, si crede di cambiare anche lo scenario affettivo, mentre non ci si rende conto che lo scenario è sempre lo stesso ed è su quello che bisogna agire, perché le persone sono sempre funzionali a un determinato scenario e non viceversa.
Detto in parole più semplici: finché non siamo in grado di capire chi siamo e che cosa cerchiamo, e perché lo stiamo cercando, non saremo mai abbastanza maturi per stabilire relazioni soddisfacenti con il prossimo; proietteremo su di esso le nostre contraddizioni, lo accuseremo delle nostre incertezze e lo riterremo responsabile dei nostri insuccessi, senza renderci di quanta ambiguità abbiamo mostrato con il nostro modo di fare.
L’ambiguità nasce dalla ignoranza di sé: se non so chi sono, né cosa voglio, né perché lo sto cercando, è praticamente certo che non troverò mai quello che mi darà pace e benessere, perché io per primo avrò mostrato di non volermi abbastanza bene per meritarmeli.
I triangoli amorosi, sempre a titolo di esempio, offrono abbondanti spunti di riflessioni a proposito di questa ambiguità di fondo, che nasce dalla mancata conoscenza di se stessi e dal poco coraggio con cui ci si pone di fronte alle proprie paure e alle proprie aspettative.
Un buon esempio è quello descritto in uno “storico” film del 1971 del regista Mike Nichols, «Conoscenza carnale», dove il triangolo amoroso è interpretato da tre giovani studenti: Jonathan e Sandy, grandi amici e compagni di stanza al college (interpretati rispettivamente da Jack Nicholson e Art Garfunkel) e Susan, che studia in un vicino college femminile e dapprima accetta la corte del timido Sandy, poi si concede a Jonathan e infine sceglie di fidanzarsi con Sandy e di sposarlo, pur non amandolo o amandolo assai tiepidamente.
Non ci interessa, in questa sede, ricostruire l’intera vicenda, né esprimere un giudizio di merito sulla qualità del film, certo a suo tempo alquanto sopravvalutato dalla critica; la conclusione della vicenda, comunque, è quella che ci si poteva aspettare: a vent’anni di distanza, il matrimonio di Sandy e Susan è in crisi e Jonathan passa da un’avventura all’altra, il che non gli risparmia di scivolare tristemente verso l’impotenza.
Il momento decisivo della relazione triangolare è quello che presenta il maggiore interesse psicologico, perché rivelatore delle reali dinamiche che si celano dietro le ragioni sentimentali esplicite dei tre ragazzi.
A un certo punto, Jonathan pretende da Susan che lei racconti a Sandy la verità e che lo lasci, per mettersi definitivamente con lui.
Da Jules Feiffer, «Conoscenza carnale» (titolo originale: «Carnal Knowledge», 1971; traduzione italiana Luigi Pellisari, Milano, Bompiani Editore, 1972, pp. 49-64):

«JONATHAN: (A Susan): Tutto questo deve finire.
SUSAN: Non so come fare a dirglielo.
JONATHAN: Ma sai come fare quando si tratta di raccontargli un sacco di altre faccende.
SUSAN:  Questo cosa vuol dire?
JONATHAN: Il modo in cui gli parli. Non ti ho mai sentita parlare con me in quel modo.
SUSAN: Quale modo?
JONATHAN: Non so.
SUSAN: È troppo indifeso. Non vorrei fargli del male.
JONATHAN: Ma fai del male a me.
SUSAN: Lui mi ama.
JONATHAN: Questa non è una buona ragione per andarci a letto. (Lei si gira dall’altra parte.) E avresti continuato così non è vero?, se lui non me l’avesse raccontato.
SUSAN: Non lo so.
JONATHAN: E io non ne avrei saputo assolutamente niente.
SUSAN: Non lo so. Forse.
JONATHAN: Accidenti, sei proprio un personaggio, tu!
SUSAN: Non mi sento un personaggio, mi sento una nullità.
JONATHAN: Quanto credi che io possa continuare a sopportare questa storia?
SUSAN: Cerco di dirglielo.
JONATHAN: Lo vedo come cerchi!
SUSAN: Non è colpa mia. Non mi piacciono queste liti.
JONATHAN: Senti un po’: fino a prova contraria è di me che sei innamorata.  Glielo Dirò io.
SUSAN: Cosa?!
JONATHAN: Gli dirò di noi due.
SUSAN: No, Jonathan!
JONATHAN: Perché non cerchi di capire me quanto ti sforzi di capire lui?
SUSAN: Tu sei più forte.
JONATHAN: A lui tu racconti un sacco di cose… allora raccontagli anche di noi due!
SUSAN: Cosa vuoi dire che io gli dico un sacco di cose? Chi lo dice?
JONATHAN: Lui lo dice! È il mio migliore amico! Glielo dirai, allora?
SUSAN: È così indifeso.
(Lei si gira. Volta le spalle.)
JONATHAN: Susan, io ti amo! Perché non ti comporti con me come ti comporti con Sandy?
(Lei lo guarda; dissolvenza.)
Interno. Jonathan e Sandy nella loro stanza da letto, di notte. Jonathan e Sandy a letto.
SANDY: Lei dice che non è abbastanza buona per me.
JONATHAN: Forse cerca di mollarti piano piano. (Sandy ride). Dai, ridi. Vedrai quanto ti aiuta. (Sandy ride.) Dai, ridi. (Dissolvenza.)
Interno: il convitto di Susan, il salone comune, mattina. Susan, con le braccia piene di libri, è in piedi insieme a Jonathan. Lui ha la barba lunga.
JONATHAN: Tu non ti occupi dei miei alti e bassi d’umore come dei suoi.
SUSAN: No.
JONATHAN: E come mai?
SUSAN: Non lo so.
JONATHAN: Non mi hai mai scoperto i pensieri che non sapevo neppure d’avere.
SUSAN: È lui che lo dice? (Lui annuisce.) Penso che, allora, sarà vero.
JONATHAN: Lo fai, eccome. E ora fallo con me.
SUSAN: Non ci riesco.
JONATHAN: Riesci a farlo con lui, quindi lo puoi fare anche con me. Scoprimi i miei pensieri!
SUSAN: Non ci riesco.
JONATHAN: Perché non ci riesci?
SUSAN: Con te non posso.
JONATHAN: Questa cosa è andata avanti fin troppo!
SUSAN: Non sopporto altri ultimatum, Jonathan.
JONATHAN: E questo è l’ultimo che ti faccio! O questa notte gli dici di noi oppure domani glielo dico io! Guardami, Susan. (Lei lo guarda.) E adesso scoprimi quei miei maledetti pensieri! (Dissolvenza.)
Interno. Convitto di Susan, di notte. Susan, in accappatoio, percorre il corridoio verso il telefono che è stato lasciato penzoloni, staccato. Lo porta all’orecchio.
SUSAN: Pronto. (Close-ups alternati su Jonathan e Susan.)
JONATHAN: Non l’hai fatto, vero?
SUSAN: No.
JONATHAN: Perché no?
SUSAN: Mi guarda con tanta fiducia.
JONATHAN: E io come ti guardo?
SUSAN: Con amarezza.
JONATHAN: Una volta era fiducia. Almeno sai quello che penso.
SUSAN: Tu gliel’hai detto?
JONATHAN: Tu cosa pensi?
SUSAN: Penso di no.
JONATHAN: E adesso cosa facciamo?
SUSAN: Non lo so. Credo che il tuo sia un ultimatum-.
JONATHAN: Pensi davvero che abbia qualche significato?
SUSAN: A cosa ti riferisci?
JONATHAN: Il fatto che noi due stiamo insieme.
SUSAN: Decidi un po’ tu.
JONATHAN: No. Decidi tu… (Pausa.) Non penso che ci sia niente… Vorrei sbagliarmi… (Pausa.) Io non sento più nulla.
SUSAN: Neanch’io.
JONATHAN: La ragione per cui non ho detto nulla a Sandy è questa: sapevo che non mi avrebbe creduto. E avrei dovuto scendere in particolari per farmi credere. E sapevo che si sarebbe precipitato subito da te. E sapevo che tu gli avresti detto che tutto quello che io gli avevo raccontato era vero. E sapevo anche che a questo punto saresti andata a letto con lui.
SUSAN: Sì. Penso che sarebbe andata pressappoco così. (Una lunga pausa).
JONATHAN: Già.
SUSAN: È così, Jonathan. (Lui ascolta.) Ti resterò sempre amica.
JONATHAN: Cristo, Susan, spero proprio di no. (Dissolvenza.)»

Il carattere dei tre personaggi emerge con evidenza da queste poche battute e un osservatore un po’ attento potrebbe già leggervi, come in controluce, la storia di quel che accadrà in seguito, ossia del bagaglio di infelicità ed amarezza che il loro comportamento sta preparando.
Jonathan è egoista, diretto, impulsivo e impaziente: come non si è fatto scrupolo di sedurre la ragazza del suo migliore amico, così non esiterebbe a rivelargli la verità per levarselo dai piedi come rivale in amore e poter avere Susan tutta per sé.
Gli si possono rimproverare molte cose, ma non una certa onestà intellettuale: non finge, non cerca di sembrare altro da quello che è, non si nasconde dietro pretesti o scusanti di alcun genere: è abituato ad afferrare quel che desidera e non vede ostacoli in mezzo; per lui, bene è possedere le cose che brama è male è vedersene privato.
Possiede, nondimeno, un certo orgoglio: non gli piacciono le situazioni ambigue, almeno se lo sono a suo danno; e non ama spartire con altri quello che ritiene spettargli di diritto: la sua sensualità è esplicita e tuttavia sembra geloso proprio di quello che esula dalla sfera della sensualità.
In altre parole, lui sa benissimo di essere bravo a letto e sa anche che Susan è da lui soggiogata sessualmente; sa anche che Sandy, in confronto, deve essere un autentico disastro: e lo sa anche perché l’amico è stato così ingenuo da raccontargli la sua storia con Susan fin nei minimi dettagli, sin dall’inizio.
Però quello che lo esaspera non è la gelosia fisica, bensì le attenzioni con cui Susan circonda Sandy; la sua capacità di parlare con lui; insomma, il fatto che lei considera l’amico non come un semplice oggetto di divertimento sessuale (invero piuttosto inadeguato) ma come una persona con cui tirar fuori la sua parte nascosta e la sua finezza intellettuale, della quale va fiera.
E qui cominciano i problemi: perché Jonathan non sa leggersi dentro, non riconosce la propria natura e cerca proprio quello che non fa parte di essa: non vuole ammettere che Susan va con lui solo per dividere il letto e non perché lo ami o perché veda in lui delle profondità nascoste che attendono di essere rivelate, o che qualcuno lo aiuti a rivelarle.
Se sapesse leggere meglio dentro se stesso, dovrebbe rendersi conto che Susan, già per il modo in cui si sono conosciuti, anzi, in cui lui l’ha abbordata, non può provare per lui altro che attrazione sensuale, ma che, in fondo, non lo stima, per non dire che lo disprezza: accanendosi a volere da lei un rapporto totale, spirituale, bara alle regole del gioco che lui stesso ha impostato; e sembra farlo per la meno valida delle ragioni, cioè per gelosia verso Sandy sul terreno spirituale e intellettuale e non su quello erotico.
In confronto a Jonathan, comunque, Susan è molto più costruita e dissimulatrice, molto più sprofondata nelle menzogne che lei stessa si costruisce dietro una apparenza di sincerità e di franchezza quasi disarmanti.
Si osservi, ad esempio, quante volte l’intellettuale Susan adopera l’espressione “non lo so”; e non riguardo a verità astratte, ma riguardo a ciò che dovrebbe sapere benissimo, perché attiene alla sfera dei suoi sentimenti e delle sue scelte. E con tutti quei “non lo so”, che sembrano espressione di umiltà e di lealtà, lei si autoassolve da ogni ulteriore responsabilità nei confronti di se stessa.
Consideriamo bene le cose: Susan si era messa con Sandy, non si capisce perché, a quanto pare perché lui le faceva tenerezza, così timido e impacciato: il solito complesso della crocerossina, della salvatrice, della martire; ma poi, quando Jonathan si è fatto sotto, e nella maniera più sfacciata, lei gli ha ceduto subito.
Però gli ha ceduto a modo suo: gli ha concesso il corpo, ma soltanto quello; non gli ha donato né dialogo, né tenerezza (tanto, Jonathan è forte e non ha bisogno di simili quisquilie); la sua parte più profonda se l’è tenuta ben stretta, non la cede a nessuno, nemmeno al povero Sandy, se non quando e come lo decide lei.
Susan vuole essere una ragazza moderna: non accetta un rapporto con il maschio che non sia paritario; ma è proprio questo, che vuole? In realtà, sia quando si concede a Jonathan, sia quando concede a Sandy di essere sua (il che non è la stessa cosa), non vuole un rapporto che sia alla pari: vuole il controllo della situazione, vuole il dominio.
Il dominio su Sandy è facilissimo: lui, in fondo, non si sente all’altezza di lei, quindi le è grato per il solo fatto di essersi concessa; quello su Jonathan è più difficile, non tanto perché questi ha un carattere più forte, ma perché Susan non è abbastanza franca con se stessa da ammettere la ragione principale, se non l’unica, che la tiene legata a lui: la dipendenza sessuale.
Susan è troppo fine e intelligente per non sentire che il segreto è tutto lì; ma è anche troppo orgogliosa e troppo tradizionale per poterlo ammettere, con se stessa prima ancora che con Jonathan; meglio, dunque, trincerarsi dietro una serie di “non lo so” e fare finta che il vero ostacolo al proseguimento della loro relazione sia il senso di colpa nei confronti di Sandy.
Jonathan, pur essendo sinceramente affezionato all’amico, non teme di rischiare di perderlo, pur di fare chiarezza riguardo a Susan; mentre lei usa il sentimento di protezione e la tenerezza che Sandy le ispirano per mentire a se stessa e convincersi, ma con perfetta cattiva coscienza, che quello con Jonathan è stato solo uno scivolone e che può lasciarselo dietro le spalle, addirittura rimanendogli amica, per non ferire Sandy.
Se fosse un poco più onesta, dovrebbe ammettere che c’è una ragione precisa se è caduta nel letto di Jonathan con tanta facilità: la sua natura sensuale, che non si appaga delle romantiche chiacchierate al chiaro di luna con Sandy, ma esige qualcos’altro, che quest’ultimo non le potrà mai dare. Ma siccome si è persuasa di essere una ragazza molto intellettuale e, da vera borghese, pensa che ciò sia inconciliabile con una robusta dose di sensualità, lascia Jonathan senza troppi complimenti e rimane con Sandy, perché solo con Sandy potrà continuare a sentirsi tale, mentre con Jonathan avrebbe dovuto guardarsi in faccia e confessare di essere una ragazza da letto, per di più talmente cinica da non esitare a tradire il suo ragazzo con il migliore amico di lui.
Che poi decida di scaricare Jonathan e di dedicarsi totalmente a Sandy, questo rientra nel ruolo, abbastanza scontato, della brava ragazza che Susan ritiene di essere o, almeno, di dover essere. Quando dice al primo di sentirsi una nullità, non fa che dare espressione al suo senso di colpa; ma, per lavarlo via, sceglie la strada più facile, quella di negare la verità del suo rapporto con lui e di “redimersi” sacrificandosi per il povero, piccolo Sandy che ha tanto bisogno di lei, perché è così fiducioso e indifeso.
Ma è propri vero che Sandy è così debole e indifeso? Il terzo elemento del triangolo, in effetti, sembrerebbe il personaggio più semplice e anche il più inerme nella sua trasparenza: ma è proprio così? Vediamo.
Innanzitutto, Sandy è abituato a raccontare a Jonathan tutto quello che vorrebbe fare con le ragazze, e fin qui niente di strano, specie considerando che si tratta di due adolescenti (due adolescenti molto, troppo americani: e questo è uno dei limiti del film rispetto a una platea internazionale). Quando, però, passa a raccontare anche i particolari intimi della sua relazione con Susan, egli va molto oltre un normale rapporto cameratesco con un coetaneo: entra nel campo del peggiore voyeurismo e mostra di non avere rispetto per la ragazza che dice di amare, così come di essere succube di Jonathan in un senso decisamente ambiguo.
In effetti (e anche questo è molto, molto americano), forse il regista non ce la sta raccontando giusta, quando ci mostra i due giovanotti intenti a confidarsi le loro esperienze sessuali nel buio della loro camera, al college; forse ciò che spinge Sandy a raccontare all’amico, nel modo più esplicito, le sue esperienze sessuali con Susan, è un sentimento di omosessualità inconscia che lo spinge a cercare un rapporto erotico con lui per interposta personale e senza l’imbarazzo di doversi dichiarare.
Se questo è vero, allora bisogna riconoscere che l’impulso che spinge Jonathan ad andare a cercare Susan, che non conosceva, e a volerla sedurre su due piedi, è la risposta, altrettanto inconscia, a un impulso omoerotico che è stato stimolato dalle confidenze pornografiche dell’amico: perché mai, altrimenti, fra tutte le ragazze del mondo, egli avrebbe dovuto andare a cercare proprio quella, lui che, disinibito com’è, non trova difficile abbordare qualsiasi sconosciuta?
Ma non spingiamo oltre questa ipotesi interpretativa e torniamo a quel che i tre protagonisti della vicenda dicono di sentire: Sandy dice di amare Susan e Susan si dice toccata dalla sua fiducia, dalla sua fragilità; ma dobbiamo credere loro? O non è più probabile che Sandy provi, per Susan, un sentimento di confidenza e gratitudine, perché lei non gli chiede di dimostrare nulla e gli offre una sorta di protezione e di comprensione materna; e che Susan voglia convincersi di amare Sandy, solo perché, se ci riuscirà davvero, allora avrà sconfitto la propria parte “animale”: quella che la vede andare a letto contemporaneamente con due uomini, fra loro molto amici, uno dei quali non ne sa nulla, mentre l’altro non tollera più la situazione?
Certo, al fondo dell’anima umana vi è un grande mistero.
Non bisogna tirare in ballo il mistero, però, ogni qualvolta si desidera scusare la propria mancanza di sincerità verso se stessi e verso l’altro.
Perché molte delle cose che proviamo, che diciamo e che facciamo, sarebbero sufficientemente chiare da interpretare, se avessimo solo un po’ più di onestà e di coraggio nel guardarci dentro.