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Ecco il nuovo Belmondo playboy per sempre anche con il bastone

di Stenio Solinas - 11/05/2011




«Quello che mi è capitato è la legge di Dio, una sfortuna nel cammino dell’esistenza. Per certi versi, una "fattura", come diceva François Dorin in una sua commedia. Ero stato troppo viziato dalla vita, in un modo o nell’altro bisognava che la pagassi. Ma se faccio un bilancio e metto sul piatto tutte le gioie che mi sono state regalate, il conto alla fine non è troppo alto».
Jean Paul Belmondo ha settantotto anni e otto anni fa un ictus gli ha toccato la parte destra del corpo e ne ha lasciate menomate le funzioni. Martedì prossimo il Festival di Cannes gli dedica un omaggio che ha insieme il sapore dell’affetto e della riconoscenza, perché per molti versi Bebel, il nomignolo affibbiatogli da giovane e mai più abbandonato, ha rappresentato sullo schermo ciò che i francesi vorrebbero essere nella vita: guasconi, viveur, acrobati e giocolieri, simpatiche canaglie e uomini d’onore.
Seguita dalla presentazione del documentario Belmondo... Itineraire di Vincent Perrot e Jeff Domenech, la celebre «montée des marches» che l’aspetta assume così il sapore dell’ennesima sfida per chi nel corso della sua carriera non usò mai controfigure e rischiò sempre in proprio. Durante i sopralluoghi aerei dell’Asso degli assi, un film degli anni ’80, uscì dall’abitacolo del Piper per salutare un fotografo che da un altro aereo lo stava riprendendo...
Dopo l’omaggio e per tutto il Festival si potrà inoltre assistere alla proiezione in copia restaurata di L’incorreggibile di Philippe De Broca e Il poliziotto della brigata criminale di Henri Verneuil, due film che più belmondiani non si può.
Nelle librerie intorno al Palazzo del cinema, la biografia di Philippe Durant riedita a dieci anni di distanza con una imponente parte dedicata al racconto del male che lo atterrò e degli sforzi fatti per comunque tenere botta, disegna il ritratto di chi più che un attore è stato una leggenda. Vitalista mai banale, figlio di uno scultore di talento, uomo colto ma senza mai darlo troppo a vedere, ha sempre saputo scegliere e non accontentarsi, mischiando abilmente i generi: è passato dall’universo di Jean-Luc Godard, che lo lanciò con Fino all’ultimo respiro, a quello di Verneuil e di Truffaut, da Jean Becker a Philippe De Broca, Louis Malle, Jean-Pierre Melville. Al cinema italiano ha regalato un’interpretazione non scontata nella Ciociara di De Sica, una prova maiuscola nella Viaccia di Mauro Bolognini. Chapeau, è il caso di dire. Per molti versi, va anche detto che Jean Paul Belmondo è stato per noi italiani il prototipo del «francese all’italiana», ossia di un tipo umano che aveva più caratteristiche in comune che differenze sostanziali. Un italiano di Francia, insomma, come Lino Ventura, Yves Montand, Serge Reggiani, gli stessi Alain Delon e Philippe Noiret, e dunque il meglio della cinematografia d’oltralpe sentita però come se fosse di casa nostra...
Proprio perché emblema di un certo modo di intendere la vita la reazione da lui avuta allorché la vita gli si è rivoltata contro ha il sapore di L’uomo di Rio alla rovescia, un film che il suo autore, il già citato De Broca, sintetizzò così al produttore: «Vorremmo girare a Rio de Janeiro. Belmondo vestirà di bianco scenderà dall’aereo e gliene capiteranno di tutti i colori»... Adesso, Belmondo sintetizza così la sua nuova condizione: «So benissimo di essere un handicappato, ma interiormente non mi sento tale. Il mio handicap l’ho integrato e come dire, dimenticato. Ci vivo insieme e, così facendo, lo supero. Non sono qualcuno che fa una vita da recluso, ai margini, sono uno che vive come tutti ma con gesti differenti. Cammino con un bastone, ma guido la Mini Morris. La memoria mi è rimasta intatta e così l’ottimismo».

In un bel film da lui interpretato e che si intitolava Le corpse de mon ennemi, c’era una battuta tipicamente belmondiana: «La notte appartiene ai bambini. Il giorno si fanno affari, si discute, la notte si sogna». Ha sognato sempre a occhi aperti, Bebel, e forse anche per questo la sua storia ha finito in qualche modo per coincidere con quella del cinema, un mestiere dove si fanno sogni e si fa sognare. E pazienza se qualche volta ci scappa un incubo.