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Critica della ragione mercantile

di Eduardo Zarelli - 18/05/2011

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La globalizzazione è l’iperbole dell’utopia mercantile, dell’idea che il “benevolo” commercio porti la pace e l’armonia universale tra gli individui. Idea nella realtà violenta e unilaterale, perché chi si rifiuta di farsi “armonizzare”, cioè colonizzare con le suadenti armi del mercato, è semplicemente bandito dall’umanità, nemico assoluto del genere umano contro il quale ogni misura repressiva e/o bellica è non solo lecita, ma doverosa.
Di economia non si parla prima di Platone e Aristotele. Questo non significa che prima non esistessero pratiche materiali. Queste, principalmente la sussistenza comunitaria e la riproduzione dei gruppi sociali, non sono pensate come una sfera autonoma. Non esisteva qualcosa come la “vita economica”, bensì la vita tout court.
La progressiva autonomia dell’economia dalla vita nel suo complesso è dovuto allo sviluppo unilaterale manifestatosi storicamente da un certo punto in poi nella ragione occidentale. La ragione aveva presso i greci due aspetti: il logos, la ragione e la phronesis, la saggezza. Serge Latouche pensa che nel pensiero dell’Occidente moderno, il logos si sostituisca del tutto alla phronesis e diventi “ragione sufficiente” e, quindi, “razionalità calcolante” economica.
La ragione mercantile tuttavia, avendo perso di vista la saggezza, cioè la vita nella sua totalità, è sempre meno in grado di spiegarla e rappresentarla. Se non cercando disperatamente di ridurre la vita mero utile sensistico. A questa razionalità calcolante, strumentale, va opposta la dimensione del ragionevole. Quando ci si occupa di esseri umani, la razionalità strumentale e calcolante, non basta più, perché si ha a che fare con dei valori: la giustizia, la libertà, la dignità. Solo eliminando ogni valore, o collocandosi all'interno di un solo valore, il pensiero unico occidentale, ci si potrebbe affidare alla sola razionalità calcolante, con gli esiti tecnomorfi nichilistica, etnocentrici universalistici e paranoico imperialistici che sono sotto gli occhi di tutti.  
Di questo allargamento di prospettive e di conoscenze, rispetto al pensiero economico dominante, siamo debitori nell’ambito delle scienze sociali al MAUSS, il movimento economico non utilitarista, che prende il suo nome dal sociologo che rilevò come la compravendita, o il baratto non siano affatto state le uniche forme di scambio nella storia umana, ma come il dono e la reciprocità abbiano svolto una funzione altrettanto e, in alcuni casi, più importante. È in tal senso teorizzabile un modello donativo, in sostituzione del modello utilitario dominante? Allo sguardo antropologico e psicologico, consapevole che quanto è rimosso fatalmente tornerà, ma in forme distorte e patologiche, si parlerebbe di “rimozione”, di schizofrenia tra principio di piacere e realtà fattuale, storica; ma se ogni effetto ha una causa, e il consumismo dominante ingenera una condizione precaria della società e dell’individuo, immaginare un superamento del dominio dell’economico nell’immaginario culturale è un passo fondamentale per costruire modelli sociali che siano in grado di ricondurre l’economico a strumento di sostenibilità comunitaria e naturale, al servizio dell’uomo.
Di fronte alla crisi economica e sociale del modello di sviluppo occidentale diventa realistico criticare la ragione stessa dell’economicismo moderno: lo sviluppo illimitato e la mercificazione dell’esistente. In tal senso, prima ancora che una prospettiva economica, la “decrescita” riguarda la sfera della mentalità. Si tratta di cominciare a far “decrescere” l’idea che lo “sviluppo” degli scambi mercantili sia una legge naturale della vita. Il messaggio che pubblicità e media diffondono continuamente è che il benessere passa attraverso il consumo, ovvero attraverso l’appropriazione continua di una quantità sempre maggiore di oggetti. L’assimilazione di tale messaggio dalle coscienze equivale ad una vera e propria colonizzazione dell’immaginario simbolico, dunque non a torto si può parlare di un mutamento antropologico (l’uomo concepito esclusivamente come produttore-consumatore). Per rompere con il primato dell’economia, è necessario imparare ed essere capaci di dire: “mi basta ciò che ho” piuttosto che “voglio sempre di più!”. Quel “nulla di troppo” che insieme all’altra sentenza morale gnomica di Solone, “prendi a cuore le cose importanti”, rimandano alla sapienzialità e alla ricerca eudemonistica, fondamenti di filosofia.
Nel linguaggio corrente il termine sviluppo è fonte di un equivoco teorico sostanziale. Il concetto espresso con questa parola è di norma l'aumento del fluire dei beni materiali attraverso il processo produzione-vendita-consumo. È evidente che, con questo significato, lo sviluppo richiede l'aumento dei consumi. In altre parole, il termine sviluppo significa oggi la crescita economica illimitata. Gli abituali indicatori dello sviluppo sono sostanzialmente quantitativi. Conseguenzialmente si pensa che questa crescita aumenti il benessere dell’umanità, indipendentemente dai valori e dalla cultura che li esprime. Inoltre, fino ad oggi non si è mai presa in considerazione la possibilità che l'aumento dei consumi sia incompatibile con il funzionamento della biosfera, anche perché è venuta meno la consapevolezza che l'uomo sia parte della natura.
La crescita economica continua, illimitata, è un processo che impedisce il funzionamento della biosfera perché ne disarticola i cicli: è quindi un fenomeno fisicamente impossibile. Un’economia complessivamente in crescita può soltanto essere transitoria, un fenomeno sintomatico che, se non riequilibrato fisiologicamente, diviene patologico e porta necessariamente verso il degrado oncogeno dell’organismo relazionale tra risorse, produzione e consumi. Se poi ci poniamo in una prospettiva qualitativa e mettiamo in conto la bellezza del mondo e il benessere degli altri esseri senzienti, la situazione si aggrava ulteriormente. Lo “sviluppo” è, infatti, basato su una visione antropocentrica, che relega gli altri esseri animati, gli ecosistemi e tutto il mondo naturale al rango di “materia” a nostra disposizione.
Oggi invece le conoscenze scientifiche più avanzate riabbracciano le interpretazioni tradizionali cosmocentriche in un paradigma olistico, per cui l’uomo è parte relazionata di un organismo vivente, l'ecosistema, da cui dipende totalmente. Se l’uomo è l’unico essere vivente consapevole di ciò ha il dovere di invertire la tendenza e mutare il modello tecnologico scientifico ricucendo empaticamente la frattura tra cultura e natura provocata dal riduzionismo materialistico.
L’obiezione umanitarista si sposa, volenti o nolenti, con le lusinghe del progresso economico, sostenendo che lo sviluppo porta miglioramenti “a chi non ha”, ma a tal riguardo basta considerare che la forbice fra “ricchi” e “poveri” si è allargata in proporzioni direttamente proporzionali con la crescita economica, raggiungendo all’oggi un solco incolmabile. Inoltre, i concetti stessi di ricchezza e povertà sono una proiezione economicistica distorta dell'occidentalizzazione.
La modernità porta a compimento la divisione tra cultura e natura. Invece, in tutte le culture sapienziali, ogni corpo individuale, compreso quello umano, è sempre parte integrante del corpo cosmico, determinazione intrinseca di quell’ordine universale che è la Natura. Nella tradizione Taoista «L’uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma al Cielo, il Cielo si conforma al Tao, il Tao si conforma alla spontaneità». La spontaneità è sinonimo di naturalezza, categoria eversiva nel mondo artificiale del contrattualismo sociale e del dominio tecno-scientifico. Bisogna quindi uscire dal conformismo delle regole fatte convenzioni morali, sociali, culturali e politiche: l’uomo per conformarsi al Tao, deve pertanto «volgersi alla radice», «volgersi all’origine», «uniformarsi al fondamento», ossia riconquistare quelle condizioni di spontaneità che vigevano prima dell’introduzione della regola sociale. Una visione politica, basata su queste leggi, sul modo in cui opera il mondo del vivente, è indisposta ad un potere monolitico (tecnocratico) che eterodirige gli elementi fondanti l’organismo stesso, sarà piuttosto propenso alla decentralizzazione, all’interdipendenza e alla diversità. Un potere diffuso, partecipativo, in qualche modo “accidentale”, la cui sede decisionale è nella vitalità della comunità di base, possibile solo in un contesto antropologicamente limitato. Al contrario, lo “sviluppo economico” appare come un processo che:
- sancisce la sopraffazione della nostra specie su tutte le altre forme viventi, sugli ecosistemi e in generale sul mondo naturale: distrugge la diversità biologica;
- impone universalisticamente a tutta l'umanità di vivere secondo il modello tecnomorfo occidentale;
- sostituisce materia inerte al posto della sostanza vivente; mette strade, macchine, impianti, dove c'erano campi, foreste, paludi, savane.
L’idea di una crescita senza fine e di un progressivo arricchimento delle condizioni di tutti i popoli della Terra, è stata introdotta ufficialmente nel mondo dal discorso d’insediamento del presidente statunitense Truman, il 20 gennaio 1949. Fu lui, al comando della più imponente potenza economica mai apparsa sul nostro Pianeta, a parlare per la prima volta di sviluppo come gioco globale a “somma positiva” e in quel preciso istante tre miliardi di abitanti della Terra diventarono di colpo “sottosviluppati”. Decenni dopo, la civiltà occidentale è ancora fondata su quell’assunzione, ma le condizioni oggettive in cui si trova il nostro Pianeta ne hanno già da tempo segnalato il fallimento. La fede nel progresso e nella tecnologia supporta il culto dello “sviluppo” e gli economisti sono i grandi sacerdoti di questa nuova religione positiva e razionale che accompagna l’espansione senza precedenti dell’Occidente. Il potere di autorigenerazione della natura è stato rimosso, distrutto a beneficio di quello del capitale e della tecnica. La natura è stata ridotta a un serbatoio di materia inerte, ad una pattumiera. La globalizzazione sta completando l’opera di distruzione dell’oikos planetario; infatti, la concorrenza spinge i Paesi industrializzati a manipolare la natura in modo incontrollato e i Paesi in “via di sviluppo”, stretti nella morsa debitoria, a esaurire le risorse non rinnovabili. Con lo smantellamento delle regolamentazioni delle sovranità politiche, non c’è più un limite all’abbassamento dei costi in un gioco al massacro tra i popoli e a detrimento della natura che li sostiene. Nell’agricoltura, l’uso intensivo di concimi chimici e di pesticidi, l’irrigazione sistematica, il ricorso agli organismi geneticamente modificati hanno per conseguenza l’impoverimento dei suoli, il prosciugamento e l’avvelenamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione di parassiti indesiderabili, il rischio di devastazioni microbiche. Tutti i Paesi sono coinvolti in questa spirale suicida, ma nel Terzo Mondo, essendo in gioco la sopravvivenza biologica immediata, la riproduzione degli ecosistemi è completamente sacrificata. In pratica, ciò che è comunemente inteso dalle economie occidentali come “sviluppo” è un’ingannevole allucinazione, un drammatico fallimento. Due motivi di questo fallimento sono facili da intendere e riassuntivi della contraddizione del termine: l’insostenibilità sociale e quella ambientale. L’emergenza sociale è rappresentata dal cumulo di violenza compressa che sta montando nel mondo, spesso riconducibile alla reazione degli indigenti prodotti dall’occidentalizzazione del mondo, che, con un processo ineludibile, prima li cattura e poi li esclude; quella ambientale è determinata dalla limitatezza delle risorse della Terra oggi egemonizzate da un 20% scarso dell’umanità. Se, per una sorta di miracolo, si riuscisse ad annullare la prima emergenza, cioè il libero mercato planetario riuscisse a distribuire a tutti gli abitanti della Terra l’accesso ai consumi, immediatamente la seconda emergenza si farebbe terminale e apocalittica. Lo sviluppo economico continuo è un fenomeno impossibile sulla Terra, perché incompatibile con il suo funzionamento. L'unico “sviluppo” che consente la vita della biosfera è un processo completamente non-materiale, qualcosa che significhi l'evolversi di cultura, arte, spiritualità.  
Qual è quindi il destino del concetto stesso di “sviluppo”?
- Lo sviluppo economico prosegue ad oltranza: in tal caso si arriva ad un mondo totalmente degradato, con gli ecosistemi naturali scomparsi, migliaia di specie estinte o degenerate, le foreste distrutte, l’atmosfera irrespirabile, fino a manifestazioni macroscopiche di impossibilità di vita nell’illusione che la tecnica possa rimediare a ciò che si è irrimediabilmente perso;
- Lo sviluppo economico prosegue fino a un punto "di collasso", dopo il quale si ha la rinascita di culture umane con valori diversi da quelli attuali;
- Lo sviluppo economico si arresta gradualmente per la progressiva sostituzione della mentalità sensistica che ne costituisce il fondamento: il materialismo.
L'ipotesi più pessimista sembra la prima, quella più probabile la seconda; resta la volontà culturale per contribuire al verificarsi della terza.
L’impossibilità di analizzare le contraddizioni dei nostri tempi sulla base delle logore categorie di destra e sinistra, obbliga trasversalmente a rilanciare un’ipotesi altra, in controtendenza, alle ricette sviluppiste che contraddistinguono entrambe gli schieramenti.
In tal senso, la decrescita è un appello sull'urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati. Un’inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo che l'attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto ed incompatibile con gli equilibri omeostatici della natura. Esso porta con sé, sulla scia dell’occidentalizzazione, perdita di autonomia, alienazione, nichilismo pragmatista, aumento delle disuguaglianze sociali e dell'insicurezza personale e collettiva. La decrescita non è una ricetta ma un segnale di controtendenza, un segnavia per intraprendere un sentiero diverso. Un percorso che ci conduca verso un nuovo immaginario, un paradigma alternativo, un’originale prospettiva metapolitica. È l'orizzonte di un'altra economia: giusta e sostenibile, cioè comunitaria. È il sostrato materiale di un principio universale di giustizia internazionale: l'autodeterminazione dei popoli.
Lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre per le fonti energetiche, cui seguiranno quelle per l'acqua. La società della crescita non può essere sostenibile, perché si scontra con i limiti della biosfera. Se si assume come indice dell'impatto ambientale del nostro stile di vita l'"impronta" ecologica, misurata in termini di superficie terrestre, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal punto di vista dell'equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera.
La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: perché dispensa un benessere materialistico illusorio; perché incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie e perché non offre un tipo di vita filosoficamente o religiosamente giusta, conviviale e comunitaria. È un'"antisocietà" malata della propria ricchezza, egoismo, utilitarismo. Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi "sviluppati" è un'illusione come ci ricorda Serge Latouche. Indubbiamente, molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare i costi che il consumismo fa ricadere sulla natura e la collettività. Il criterio stesso di “qualità della vita” è oramai ostaggio del nichilismo individualista che affoga nell’inautenticità della mercificazione universale, disponendo come essenziale per una fattiva controtendenza il reincantamento del mondo su principi certi inerenti alla sacralità del vivente e l’irriducibilità della condizione esistenziale dell’uomo come parte consapevole del cosmo.
Per concepire e realizzare una società di decrescita bisogna letteralmente uscire dall'economia ed il suo immaginario pragmatico e utilitarista. Ribaltare le gerarchie imposte dall’egemonia utilitaristica su tutti gli ambiti della vita, riponendo l’economia a sostenere la comunità più che distruggerla.
Un primo passo per una teoria della decrescita è segnato da una pratica "rilocalizzazione" dell'economia. Lo scambio deve riguardare la reciprocità dell’indispensabile, cioè dei prodotti specifici dei luoghi e delle culture, l’inverso della delocalizzazione anonima dei prodotti specializzati della tecnica.
In senso generale, se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile, è necessario che gli uomini tornino abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica e spirituale della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua stessa sostanza dai meccanismi razionalistici che si insinuano a livello cellulare fino al fondamento stesso del vivente. In questo orizzonte l’esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali (territoriali, cioè ambientali e quindi produttive e sostenibili) e su reti di scambio complementari e reciprocitarie piuttosto che gerarchiche fra entità locali. Il principio di sussidiarietà deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia), delegando alle entità superiori solo ciò che non è assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero e quindi coeso e comunitariamente partecipe dell’organismo complessivo. L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di lei, dunque, responsabile e consapevole. Si vede subito quali sono i valori prioritari da anteporre a quelli oggi dominanti: la sacralità della vivente sulla mercificazione; l'altruismo dovrebbe prevalere sull'egoismo; la reciprocità comunitaria sulla competizione; il piacere ludico e relazionale sull'ossessione del lavoro; l'importanza della vita sociale sul consumo; il gusto del bello, del bene e del vero sull'efficientismo pragmatico. Il problema è che i valori attualmente dominanti sono sistemici, poiché suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Certo, la scelta di un'etica personale diversa, come quella della sobrietà volontaria, può incidere sull'attuale tendenza e minare alla base l'immaginario del sistema. Ma senza una sua radicale contestazione, il cambiamento rischia di rimanere limitato al piano della coscienza individuale. Un nuovo paradigma ha la necessità di persuadere dell’indispensabilità del mutamento epocale sul piano generale, culturale e sociale. Abbiamo un’unica certezza tragica in un’epoca di transizione; la scelta di rendersi spettatori passivi o attori coscienti dipende solo dalla forza di volontà degli uomini, indipendentemente dal destino delle cose ed i suoi esiti ultimi.