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Predire la morte? È meglio l’incertezza vero sale della vita

di Massimo Fini - 23/05/2011



Dai e ridai ci siamo arrivati. O quasi. Una delle ambizioni della medicina tecnologica è di poter predire il giorno della nostra nascita e quello della nostra morte. Adesso un’azienda britannica, la Life Lenght, sta per immettere sul mercato un test in grado di stabilire quanto ci resta da vivere. Si tratta di un semplice esame del sangue elaborato da una studiosa spagnola, Maria Blasco, del Centro Nacionale di Ricerche sul cancro di Madrid, che si basa sulla misurazione della lunghezza dei telometri, le parti terminali dei cromosomi. Più sono corti, meno vita hai davanti a te. Il test ha suscitato varie perplessità. Si fa per esempio l’ipotesi di una compagnia di assicurazioni che si rifiuti di stipulare una poliza sulla vita a chi non accetta di sottoporsi al test. Colin Blakemore, un neuroscienziato di Oxford, esprime invece un altro genere di dubbio: «La mia preoccupazione principale - afferma - riguarda l’affidabilità del test. Dobbiamo saperne molto di più prima di fare previsioni». E meno male invece che, almeno per ora, è così. Se uno sapesse alla nascita quanto vivrà, fossero pure 80 anni, si tirerebbe un colpo di pistola. Perché la vita non diverrebbe altro che una lunga agonia in attesa della morte. Ogni giorno che passa poi sapremmo che si avvicina la data fatale. Intendiamoci, noi questo lo sappiamo già ed è per questo che ci agitiamo, che ci affanniamo, che ci diamo da fare, che ci impegniamo in mille occupazioni: per dimenticare che la nostra fine è inevitabile, per lenire la nostra sottointesa angoscia di morte. Ma una cosa è sapere che possiamo morire domani o fra trent’anni, altra è avere la certezza matematica della data finale. Scrive Nietzsche: «Amleto, chi lo capisce? Non è il dubbio, ma la certezza che uccide». È proprio l’incertezza che ci permette di vivere, che ci rende tollerabile la vita. La crudeltà della pena di morte non sta nella soppressione di una vita (ogni giorno muoiono milioni di persone per i più svariati motivi) ma nel fatto che il condannato è l’unico a sapere con certezza il giorno in cui morirà. Le sue ultime settimane sono una tortura terrificante e ogni condannato si augura in cuor suo che il boia faccia la sua comparsa il più presto possibile, anche in anticipo sui tempi previsti, per sottrarlo a questa sofferenza.
Naturalmente con un test del genere in tasca l’angoscia aumenterebbe ogni giorno che passa. Scrive Cicerone: «Non c’è uomo, per quanto vecchio e malandato, che non pensi di poter vivere almeno un anno ancora». Perché vogliamo toglierci anche queste illusioni? Perché vogliamo razionalizzare la vita fino a questo punto? Perché, con uno sforzo inesausto, continuare ad andare contro la Natura? Se la Natura non ci ha dato nessuna certezza matematica sulla nostra vita e sulla nostra morte qualche ragione ci sarà pure. Rispettiamola. Ognuno di noi morirà, questo è certo. Ma non sappiamo quando. Ed è bene che continuiamo a non saperlo.
L’errore fatale dell’Illuminismo è di voler sviscerare tutto, di voler, appunto, illuminare tutto, e di voler conoscere tutto. Ed invece è bene che certe cose restino nell’oscurità, nel mistero e, diciamolo pure, in una sacrosanta ignoranza.