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Il vero problema, per José Ortega y Gasset, è che la società non possiede più una morale

di Francesco Lamendola - 26/05/2011





Rileggere Ortega y Gasset è una operazione sempre attuale e sempre necessaria, poiché i pericoli della società di massa da lui evidenziati, nel suo saggio «La ribellione delle masse», sono ancora gli stessi, semmai più urgenti e minacciosi, benché l’opera del filosofo spagnolo sia stata scritta nell’ormai lontano  (lontano?)  1930.
Vale la pena di rileggerlo, dunque, perché egli è stato uno dei non molti autori che hanno saputo cogliere in pieno il fenomeno degenerativo dell’uomo moderno, dell’uomo-massa, quando ancora buona parte degli intellettuali europei si attardavano a ragionare sull’uomo secondo categorie ottocentesche o, addirittura, settecentesche, vale a dire illuministe e piattamente, acriticamente ottimiste, fiduciose nei due talismani della democrazia e del progresso - inteso, quest’ultimo, essenzialmente come aumento quantitativo dei beni e dei servizi e come perfezionamento dell’apparato tecnico-industriale.
Ma è opportuno saperlo rileggere liberamente, senza addentrarsi specificamente nel processo del suo pensiero storico e sociologico e senza fare, pertanto, della filologia filosofica; è opportuno rileggerlo con la consapevolezza di cittadini del terzo millennio, che sanno di non avere più molto tempo a disposizione, perché la situazione si è di molto aggravata in questi ultimi ottant’anni e il tempo per correre ai ripari è ormai quasi scaduto.
Anzitutto, Ortega y Gasset non teme di distinguere la categoria della vita nobile da quella della vita volgare: caratterizzate, la prima dal concetto di forza, la seconda da quello d’inerzia; per concludere che il mondo moderno, il mondo dell’uomo-massa, si svolge ormai all’insegna dell’inerzia e, quindi, della vita volgare.
Dai suoi tempi, il democraticismo rozzo e petulante ha fatto passi da gigante e il solo parlare di “vita nobile” e di “vita volgare” suscita una reazione istintiva non solo negli intellettuali, tutti debitamente progressisti e democraticisti, ma anche nelle persone comuni e illetterate, perché sa maledettamente di aristocratico; e ormai il cliché dell’aristocrazia come di una forza sociale obbrobriosa, che ha sfruttato il sangue del popolo per secoli e millenni, si è definitivamente insediato nell’immaginario collettivo e tutto ciò che sa di aristocratico provoca, nel migliore dei casi, fastidio e irritazione.
Poco importa se “aristocratico” significa, alla lettera, “il migliore”, e se tutti i filosofi più grandi, a cominciare da Platone, hanno sempre sostenuto che la società dovrebbe essere guidata dai migliori: ormai il credo democratico, secondo il quale tutti gli uomini sono uguali non solo nei diritti, ma anche nelle capacità e nello spirito di dedizione al bene comune, ha diffuso universalmente l’dea che non deve esservi nulla di “nobile” che si distingua da ciò che è “plebeo”, perché tutto deve essere uguale a tutto e nessuno deve poter emergere: pena, il vedere vanificata la “sacra” Rivoluzione francese e ristabilito l’odioso Ancien Régime.
In base al Pensiero Unico democratico, oggi imperante, non si può dire che esistono cose volgari, idee volgari, persone volgari: bisogna proclamare otto volte al giorno che tutti sono ugualmente nobili, confondendo in maniera marchiana la pari dignità e, in ultima analisi, la sacralità di ogni anima umana, con ciò che, poi, i singoli individui decidono di fare della propria vita; confondendo, cioè, la nobiltà della natura umana, quale essa può diventare a prezzo di impegno, lavoro e fatica, e la pretesa nobiltà di ogni comportamento umano, fosse pure il più volgare, il più vile, il più spregevole.
Dunque, diciamolo forte e chiaro: non tutte le esistenze umane sono spese all’insegna della nobiltà; molte, al contrario, sprofondano, sovente per una libera scelta, nel fango dell’abiezione, dell’egoismo distruttivo, della malvagità intenzionale.
Non è vero che tutte le filosofie sono uguali; che tutti i comportamenti umani si equivalgono; che l’importante è sviluppare pienamente la propria libertà, concepita come arbitrio individuale e come assenza di obblighi e di doveri; non è vero che tutte le verità hanno lo stesso valore, che ciascuno è padrone di stabilire e perseguire la propria personale verità; e non è vero che spendere la propria vita nella ricerca esclusiva del piacere e del potere è la stessa cosa che spenderla per conseguire saggezza, consapevolezza e rispetto del bene universale.
Qui c’è un grosso equivoco da chiarire, una volta per tutte; un equivoco che è stato alimentato ad arte: se è vero, infatti, che ogni vita merita amore e rispetto (e non solo quella degli umani, ma anche delle creature non umane), è altrettanto chiaro che non meritano lo stesso rispetto tutte le forme in cui la vita si realizza: quella dello spacciatore di droga, ad esempio, o dello sfruttatore di donne, non merita certo lo sesso rispetto di quella di colui che vive cercando di aiutare il prossimo e rispettare il più debole.
Anche se possiamo immaginare che dietro una vita mal spesa vi siano, a loro volta, dei tristi precedenti di ignoranza e, forse, di violenza, ciò dovrebbe indurre alla compassione, ma non alla confusione del giudizio morale: il fatto che un violentatore pedofilo abbia, magari, subito a sua volta degli abusi sessuali quand’era piccolo, dovrebbe insegnarci a non giudicare con troppa facilità, ma - d’altra parte - non può e non deve diventare una ragione per l’indifferentismo etico, per il permissivismo e per una colpevole indulgenza nei confronti del male.
Soprattutto, non dobbiamo esitare a chiamare le cose con il loro nome e, quindi, a dichiarare che una vita spesa a vantaggio del bene è una vita nobile e degna di essere portata ad esempio, mentre una vita all’insegna dell’egoismo e della prevaricazione è volgare e chi la pratica non merita alcuna considerazione, alcuna tolleranza, alcuno sconto, fino a quando non decida di ravvedersi, di riparare al male fatto e di espiare le proprie colpe.
Secondo l’analisi di Ortega y Gasset, noi siamo anzitutto ciò che il nostro mondo ci invita ad essere: e il mondo moderno, il mondo dell’uomo-massa, ci invita continuamente ad essere delle volgari nullità, preoccupate solo di saziare il ventre e i bassi appetiti e di esercitare una qualche forma di potere o di autorità sui nostri simili, non in base a dei meriti effettivi, ma unicamente in base alla furbizia, al cinismo e alla mancanza di scrupoli.
Si è instaurata, nel corso dell’ultimo secolo, una vera e propria pedagogia alla rovescia, una vera e propria selezione dei peggiori, ai quali si aprono tutte le strade dell’affermazione sociale, del predominio culturale e del potere economico e politico; selezione dei peggiori che si regge sulla menzogna democraticista, secondo cui tutti gli uomini possiederebbero uguali meriti e uguali competenze e tutti sarebbero degni di uguale stima, purché si adattino perfettamente al modello etico, politico e culturale dominante.
La civiltà dell’uomo-massa ha prodotto addirittura una apposita scienza, la psichiatria, per “normalizzare” sempre più gli individui potenzialmente ribelli e per omologare, appiattire, spogliare di ogni originalità, tutti i suoi membri; una scienza il cui braccio armato, la psicoanalisi freudiana, funziona come una solerte forza di polizia mentale, il cui scopo è persuadere l’individuo che non vi è pace se non nel fare propri tutte le dottrine, tutti i comportamenti, tutte le aberrazioni della cosiddetta “civiltà”, a cominciare dalle sue stesse, deliranti teorie psicologiche sul padre, sull’invidia del pene, sull’incesto, su Dio e sulla nascita delle nevrosi.
In luogo di un individuo creativo, che offre ai suoi simili la ricchezza del suo pensiero e delle sue emozioni, la società moderna tende a riprodurre individui grigi e conformisti, non importa se ammantati delle vesti ridicole dell’anticonformismo di massa; individui stanchi e rassegnati, che non si meravigliano più di nulla, che credono solo nella religione della scienza materialista e del progresso quantitativo; bambini che, a sei anni, sembrano già dei vecchietti vissuti e annoiati, senza spontaneità, senza fantasia, senza gioia e senza occhi per vedere la bellezza del mondo e per gioirne e provarne gratitudine.
Ora, secondo Ortega y Gasset, per la prima volta dalla notte dei tempi, la storia d’Europa appare affidata alla decisione dell’uomo volgare; o, in altri termini, per la prima volta l’uomo volgare, che, in passato, si lasciava dirigere, ora ha deciso di governare il mondo (ai tempi in cui scriveva il filosofo spagnolo, l’Europa dirigeva ancora il mondo).
Dunque, se prima esisteva un centro direzionale della vita politica europea, della sua economia, della sua cultura, ora non c’è più; al suo posto, vi sono una miriade di egoismi individuali, di presunzioni individuali, di ignoranze individuale, sorretti, chissà perché, dalla convinzione di essere legittimati da una filosofia dei diritti e, quindi, di esercitare un legittimo ruolo storico.
Il “bimbo viziato” della storia europea, il “signorino insoddisfatto”, è salito alla ribalta, rivendica i suoi diritti, pretende il suo spazio: è l’erede che si comporta esclusivamente come erede, colui che non ha dovuto faticare per guadagnarsi la propria posizione, ma sfrutta la fatica altrui e, in compenso, ha dei formidabili appetiti da far valere.
Il “bimbo viziato” della civiltà moderna è pieno di tendenze incivili; è, alla lettera, un nuovo barbaro, con l’aggravante che non sa di esserlo, ma pensa e si comporta, anzi, come se lui solo rappresentasse il concentrato di ciò che è “civile”; è l’uomo medio che si è insediato nel mondo della sovrabbondanza dei mezzi, che lui percepisce solo in senso quantitativo; e i cui orizzonti, le cui aspirazioni, la cui volontà non si dirigono mai verso la propria interiorità, che non esiste, ma unicamente verso il mondo esterno, che ritiene essere lì a sua completa disposizione.
L’uomo medio è, per formazione e per vocazione, uno specialista: non vede la complessità dei problemi, ma solo quel segmento di essi su cui può e vuole esercitare una competenza specifica, una forma di dominio; e il mondo moderno è, in sintesi, la barbarie dello specialismo eretto a sistema, dello specialismo svincolato da qualunque sistema di etica.
Lo Stato moderno è il risultato della tirannia dell’uomo massa che, per la prima volta nella storia, pretende di riferire ogni cosa a sé, non si lascia dirigere, non si lascia organizzare, non si lascia formare, ma esige che tutto s’inchini al suo numero, alla sua volgarità, al suo specialismo: uno Stato fuori controllo, senza un centro propulsore e senza un ideale; che nasce unicamente dalla somma matematica dei suoi componenti e che sta correndo chissà dove.
L’Europa ha dimenticato che l’uomo è una creatura costituzionalmente destinata a cercare e a seguire un’istanza di ordine superiore: ora come ora, le masse andate al potere non seguono altro impulso che il proprio meschino tornaconto immediato, e lo spacciano per interesse nazionale o, addirittura, sovranazionale.
Dato che lo Stato è essenzialmente una tecnica, una tecnica di natura politica e amministrativa, lo Stato moderno è diventato una mina vagante: lo dirigono dei “tecnici” altamente deresponsabilizzati e la società dovrà vivere in funzione dello Stato, l’uomo dovrà vivere e lavorare per mantenere la macchina del governo.
Lo Stato, gigantesco parassita, succhierà dalla società ogni linfa vitale e finirà per paralizzare e irrigidire ogni manifestazione spontanea: sarà uno Stato di cui aver paura, uno Stato di polizia, il cui fine principale non consisterà più nella ricerca del bene pubblico, ma nel mantenimento di una burocrazia elefantiaca.  
Ancora: la politica degli Stati è il risultato di un’azione di comando; ma non c’è comando senza una istanza di ordine spirituale: il comandare è l’arte di dirigere le masse in una certa direzione, in base a determinati valori. Il rapporto tra chi comanda e chi obbedisce è la risultante di una situazione spirituale, nella quale vi è una condivisione della necessità che qualcuno comandi, e che questo qualcuno rappresenti un movimento dello spirito.
Invece nella società moderna nessuno vuole più obbedire, tutti vogliono solo comandare: e non per andare in una qualche direzione o per realizzare un’idea, ma solo per l’esercizio del potere in quanto tale.
I “piani quinquennali” dell’economia sovietica sono un buon esempio di questo comando della tecnica, di questo specialismo amorale, dell’uomo-massa che ha ridotto l’arte del governo a mero esercizio di una tecnica quantitativa; e, più in generale, il bolscevismo è l’ideologia corrispondente alla coscienza dell’uomo-massa, che non sa obbedire né riconoscere la propria natura inferiore, ma pretende di esercitare il potere in nome della massa in quanto massa, fatto inaudito e mai verificatosi nella storia dell’umanità.
Il cuore del problema della modernità, per Ortega y Gasset, è, pertanto, lo smarrimento della morale: la civiltà moderna, che è la civiltà delle masse in rivolta, rifiuta ogni etica dei doveri, dunque ogni etica tout-court, anche se non ha l’onestà intellettuale di dichiararlo apertamente e si gingilla con le parole.
La mancanza di una morale è la mancanza di una istanza superiore, la perdita di un’idea, di un principio rispetto al quale gli uomini si sentano legati, vincolati, obbligati: da quando trionfa l’Europa dei “diritti”, gli obblighi sono caduti e ciascuno ha delle pretese da far valore, ma nessuno è disposto a sottoporre la propria libertà a dei limiti, se non - come appunto nel bolscevismo - in vista di un aumento della forza materiale delle masse, che consenta loro di prendersi una “storica” rivincita sulle classi egemoni.
Soffermiamoci sulla questione dell’oblio della morale.
Scrive José Ortega y Gasset nell’ultimo capitolo del suo classico «La ribellione delle masse» (titolo originale: «La rebelión de las masas»; traduzione italiana di Salvatore Battaglia, Bologna, Società Editrice Il Mulino, 1962, pp.152-154), intitolato «Il vero problema»:

«Questo è il problema: l’Europa è rimasta senza morale. Non è che l’uomo-massa disprezzi la morale antiquata a vantaggio di un’altra che s’annunzia, ma è che il centro del suo regime vitale consiste precisamente nell’aspirazione di vivere senza sottoporsi a nessuna morale. Non è da prestar fede a nessuna parola quando si sentono parlare i giovani di “nuova morale”.Nego recisamente che esista oggi in qualunque angolo del continente un qualsiasi gruppo informato da un nuovo “ethos”che abbia sembianze d’una morale. Quando si parla di “nuova morale”, non si fa altro che commettere una immoralità di più e tentare il mezzo più comodo per compiere un contrabbando.
Per questa ragione sarebbe un’ingenuità rinfacciare all’uomo d’oggi la sua carenza di moralità. L’imputazione lo lascerebbe senza disagio e, anzi, lo lusingherebbe. L’immoralismo è arrivato a un prezzo molto basso, e chiunque ostenta di esercitarlo.
Se mettiamo da parte - come si è fatto in questo saggio - tutti i gruppi che significano sopravvivenza del passato - i cristiani, gli “idealisti”, i vecchi liberali, ecc. - non si troverà fra tutti quelli che rappresentano l’epoca attuale la cui altitudine dinanzi alla vita non si riduca a credere che gli spettino tutti i diritti e nessun obbligo. È indifferente che si mascheri di reazionario o di rivoluzionario: per modi attivi o per vie passive, alla fine, il suo stato d’animo consisterà, in maniera decisiva, nell’ignorare ogni obbligo e nel sentirsi, senza che egli stesso sospetti perché, soggetto di illimitati diritti.
Qualunque sostanza che cada su un’anima siffatta darà lo stesso risultato, e si tramuterà in un pretesto per non sottoporsi a nulla di concreto. Se si presenta come reazionario o antiliberale, sarà per poter affermare che la salvezza della patria, dello Stato, dà diritto a mortificare tutte le altre norme e a far violenza al prossimo, soprattutto se il prossimo possiede una personalità eminente. Però si verifica lo stesso se gli capita d’essere rivoluzionario: il suo apparente entusiasmo  per l’operaio manuale, per il miserabile e per la giustizia sociale, gli serve da travestimento per potersi disciogliere da ogni obbligo - come la cortesia, la veridicità e, soprattutto, il rispetto e la stima degli individui superiori. Io so di non pochi che sono entrati in questo o quel partito operaio non per altro che per conquistare dentro se stessi il diritto di disprezzare l’intelligenza e di risparmiarsi gl’inchini dinanzi a lei. In quanto alle altre “dittature”, abbiamo già visto come allettino l’uomo-massa schiacciando tutto quanto sembrava eminente.
Questa repellenza per ogni obbligo spiega, in parte, il fenomeno, fra ridicolo e scandaloso, che si sia fatta ai giorni nostri una piattaforma della “giovinezza” come tale. Forse l’epoca nostra non presenta un tratto più grottesco di questo. Le persone, goffamente, si dichiarano “giovani” perché hanno udito che il giovane ha più diritti che obblighi, una volta che può rimandare l’osservanza di questi ultimi fino alle calende greche della maturità. Sempre il giovane, come tale, si è considerato esentato di fare o di aver già fatto “imprese”. Sempre è vissuto di credito. Questo è insito nella natura dell’uomo. Era come un falso diritto, fra ironico e tenero,  che i non giovani concedevano ai ragazzi. Però è stupefacente ch’essi ora lo assumano come un diritto effettivo, e precisamente per attribuirsi tutti gli altri che appartengono soltanto a chi abbia fatto già qualcosa.
Per quanto sembri menzogna, si è giunti a fare della gioventù un “chantage”. In realtà, viviamo in un tempo di “chantage” universale che assume due forme di smorfia complementare:  c’è lo “chantage” della violenza e lo “chantage” dell’umorismo. Con l’uno o con l’altro si tende sempre alla stessa cosa: che l’inferiore, che l’uomo volgare possa sentirsi esentato da ogni disciplina.
Perciò, non bisogna nobilitare la crisi attuale considerandola come il conflitto  fra due morali o civiltà, l’una caduca e l’altra albeggiante.  L’uomo-massa manca semplicemente di orale, che è sempre, per essenza,  sentimento di sottomissione a qualcosa, coscienza di osservanza e di obbligo. Però forse è un errore dire “semplicemente”. Perché non si tratta soltanto del distacco di questo tipo di creatura dalla morale. No: non rendiamogli così facile la sua fatica. Dalla morale non è possibile affrancarsi senz’altro. Ciò che con un vocabolo perfino difettoso dal lato grammaticale, si chiama “amoralità” è una cosa che non esiste. Se non ci si vuole affidare ad alcuna norma, bisogna pure, si voglia o no, sottostare alla forma di negare ogni morale: e ciò non +è amorale ma immorale. È una morale negativa che conserva dell’altra la forma vuota.
Come si è potuto credere nella “amoralità” della vita? Senza dubbio, perché ogni cultura e la civiltà moderna conducono a questa convinzione. Adesso l’Europa raccoglie le peno0se conseguenze della sua condotta spirituale. Si è gettata senza riserve nella direzione d’una cultura magnifica ma sprovvista di radici…»

“Chantage”, ricatto: come aveva saputo vedere avanti Ortega y Gasset, benché scrivesse quasi un secolo fa, quando ancora non esistevano né la bomba atomica, né la televisione, né il computer, né il telefonino cellulare.
È il ricatto del democraticismo volgare, secondo il quale nessuno può essere ricondotto sotto l‘etica dei doveri, perché, prima, ciascuno ha un lunghissimo elenco di diritti da far valere; per cui, ad esempio, nessun figlio può essere “costretto” dai genitori a mettersi a studiare seriamente, oppure a cercarsi un lavoro, perché, prima, la famiglia ha il dovere di mantenerlo per tutto il tempo che lui deciderà necessario per terminare gli studi o per trovarsi, appunto, un lavoro, magari a trenta, a quaranta anni compiuti: e ciò con la benedizione del legislatore e con la solerte protezione del giudice e delle forze dell’ordine.
È il ricatto per cui non si possono chiudere le frontiere a milioni di migranti che sbarcano sulle nostre spiagge, perché essi fuggono da situazioni di difficoltà, talvolta (ma non sempre) di pericolo, quindi hanno il “diritto” di essere accolti, di essere sfamati, di essere sistemati, di avere un lavoro e di ottenere la nostra cittadinanza, compreso il diritto di voto, nel giro di pochi anni; anche se il lavoro non c’è nemmeno per noi e i nostri figli; anche se i nostri nonni, quando emigravano in cerca di pane, non irrompevano oltre le frontiere altrui, ma si presentavano disciplinatamente e chiedevano di essere accolti in prova, rispettando la condizione di avere un contratto di lavoro e di rigare dritto come lavoratori-ospiti.
Senza una morale, nessuna società va lontano; ma può anche succedere, come è il nostro caso, che la vecchia morale, bandita perfino dai libri di scuola (proibito, ormai, parlare delle radici cristiane dell’Europa: sarebbe un delitto di lesa maestà del laicismo massonico), venga usata come una clava per ricattare le coscienze e per far valere la pretesa di sempre nuovi diritti da parte di sempre nuovi soggetti.
Senza che si parli mai dei corrispondenti doveri…