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La danza di Shiva

di Emilio Michele Fairendelli - 27/06/2011

Zum Sehen geboren / Zum Schauen bestellt

Nati per vedere/Condannati a guardare

J.W.Goethe

 

Per anni avevo guardato la piccola targa di ottone ossidato a lato del portone.

La scrittura era bassa e incisa debolmente, come già dovesse misurare la capacità visiva del lettore:

Daniele Levi

Oculista

Piazza Wagner 1

20145 Milano

Piano 2 Scala B

Riceve su appuntamento

Lun Ven 14,30 18,00

Tel 02 4985323

 

L’ingresso della casa dava ad occidente e in certe sere d’estate la facciata veniva colpita dalla luce dell’ultimo sole.

Scorgevo allora la targa da lontano, mentre camminavo, un punto dove pareva ardere come una fiamma, un  vibrante specchio d’oro.

In grigie giornate d’inverno vi alzavo gli occhi mentre cercavo le chiavi e la vedevo, vicinissima, emanare una luce così diversa, di colore caldo e antico.

Di questo, della targa e della sua luce, mi ero ricordato nelle ore che avevano preceduto la mia prima visita presso lo Studio.

I disturbi erano iniziati da qualche settimana.

Lampi luminosi di un istante si accendevano negli  angoli inferiori dei miei occhi aperti.

Le prime volte pensai a una sorgente di luce esterna, ma i lampi,  a destra più intensi, nascevano anche ad occhi chiusi.

Non tacerò di avere stupidamente creduto, sperato fossero il segno di un moto dell’ animo, annunciassero l’imminenza di un’esperienza interiore, di una Presenza.

Durò solo qualche giorno.

Telefonai  allo Studio del Dottor Levi chiedendo un appuntamento, che mi venne dato per il lunedì successivo.

Non avevo mai salito la Scala B.

La segretaria mi fece accomodare in una stretta anticamera dove gli scuri delle finestre erano chiusi.

Quando venni chiamato ed entrai nello Studio del Dottor Levi ricordai di averlo visto tante volte, al portone, nel cortile, salire le scale, al di là della strada.

Un vecchio ebreo alto e magro.

Portava per quasi tutto l’anno un impermeabile grigio scuro e un rigido cappello a tese.

La visita non durò forse dieci minuti.

Ascoltò la mia esposizione, guardò nei miei occhi con l’oftalmoscopio, scrisse su un foglio il nome di alcuni esami.

Mi disse di considerare con attenzione qualsiasi cambiamento nell’immagine, nella durata e nell’intensità dei lampi.

Su un foglio a parte scrisse il nome delle capsule – un concentrato di Vitamina A – che avrei dovuto prendere ogni otto ore.

“Non le dimentichi mi raccomando, è importante. E torni da me appena ha l’esito degli esami.”

Ero congedato.

L’indomani iniziai a prendere regolarmente le capsule e fissai un appuntamento alla Clinica Jucker per gli esami.

Là indossai per mezz’ora una specie di casco nero e vidi nel buio più assoluto apparire forme luminose come di caleidoscopio che si facevano e disfacevano, strie di cometa, ora bianche ora rosse o iridescenti. Si muovevano, a volte lente, altre volte rapidissime.

Dopo un’anestesia, un  ago sottile prelevò un campione di tessuto dal fondo del mio occhio.

Nemmeno due settimane dopo lasciavo gli esiti degli esami sulla scrivania del Dottor Levi.

I lampi non erano diminuiti né per frequenza né per intensità.

Dal lato destro, quando si accendevano, parevano occupare uno spazio maggiore.

Glielo dissi.

“Ha preso regolarmente il Soroten-X?”

“Sì, certo.”

Lui lasciò i fogli allontanando le braccia dal tavolo.

Guardò in alto per un istante, come cercasse di leggere sulla parte alta della parete davanti a lui le parole che avrebbe detto.

“Retinite pigmentosa. Le cellule della retina muoiono. Morendo brillano come stelle, sono i lampi che lei vede, poi scende il buio. Non sappiamo molto. Se la Vitamina A non rallenta il processo noi dobbiamo pensare alla sindrome di Isner-Hewitt.  Con questi esami”.

Toccò i fogli davanti a sé facendoli frusciare.

“Se è la Isner-Hewitt è irreversibile ed è possibile che lei perda la vista in pochi anni. Ci sono stati casi di cecità nella sua famiglia?”

Dissi che una nonna, la madre di mio padre, mi aveva parlato del bisnonno, avvocato in Romania. Era morto cieco. Ragazza, le aveva detto: “Non portatemi più  documenti. Come posso firmarli se non vedo più niente?”

“Senta, non abbiamo certezze sui tempi della malattia. Potrebbe avanzare velocemente, fermarsi per mesi, per anni, addirittura – è successo – regredire. Altri esami sono inutili. Faremo così: lei continuerà a prendere il Soroten – X e ci vedremo una volta ogni quindici giorni. Le farò pagare solo una visita ogni due mesi, ci metteremo d’accordo”.

Fu allora, mentre lo salutavo, che vidi per la prima volta dietro di lui, su una mensola, una  statuetta di Shiva Nataraja che mi parve di alta fattura.

Conoscevo bene la storia del Dio che danzava.

Scendendo le scale  pensai sorridendo alla sindrome di Isner-Hewitt: ricordavo due giocatori di tennis con quei nomi.

Dunque – forse – sarei diventato cieco.

Poteva accadere ben di peggio e ben prima, mi dissi confortandomi.

Le questioni pratiche, l’impossibilità di lavorare, ciò che non avrei più potuto fare, sarebbe stato risolto tutto facilmente: ero ragionevolmente ricco.

Pensai ad un uomo, in chissà quale altro luogo del mondo,  mio fratello nella malattia, ai suoi lampi, al buio che scendeva su di lui, a quell’altra vita così diversa in cui sarebbe entrato.

Continuai a prendere le medicine ma senza alcun effetto.

Ora i lampi duravano di più e brillavano come in sequenza – il primo più intenso, poi due o tre più leggeri e verso l’alto.

Iniziarono a interferire con la vita quotidiana: presi a camminare più lentamente, ad attraversare le strade solo insieme ad altri – l’angolo inferiore destro era oramai perduto – faticavo a porgere le monete all’edicolante: la mia vista, campo di battaglia e d’agonia delle cellule retiniche che morivano, stava per esser conquistata.

Le visite dal Dottor Levi erano sempre uguali, confermavo di assumere regolarmente le capsule e descrivevo con la massima precisione possibile il variare dei lampi, lui ascoltava e solo a volte annotava qualcosa.

Un giorno, gli confessai il mio scoramento.

Mi era impossibile condurre una vita ordinaria, vivevo cercando di preservare un poco di vista in quel continuo fiorire di luci improvvise, uscivo oramai solo accompagnato dal mio collaboratore domestico, Chowi.

Lui disse che avrebbe tanto voluto consigliarmi altri consulti, altri dottori, ma che non sarebbe servito.

La Isner-Hewitt era, nel suo piccolo, un mistero.

Mi ricordò che la mia sarebbe stata con quasi certezza una condizione invalidante – in due anni, forse tre – e che avrei dovuto provvedere di conseguenza.

“Le presto questo, sinchè può leggerlo, e mi perdonerà la franchezza” – disse mettendomi tra le mani un libro.

Ringraziai.

Guardai il libro solo nel mio appartamento.

Era un vecchio volume di “Urania”, una raccolta di romanzi di fantascienza degli anni settanta: “Jacques Spitz – L’occhio del Purgatorio”.

Nella terza di copertina seppi che dell’autore, che aveva scritto quel solo romanzo, si sapeva poco o nulla.

Il libro era stato scritto nel 1950.

Lo divorai nel fine settimana, leggere mi riusciva ancora senza problemi.

La storia era ingenua e la trama narrata piena di impossibilità e squilibri che disturbavano il lettore.

Tuttavia la storia aveva un suo fascino: uno scienziato parigino, un biologo, convinto che nelle mosche la visione sia temporalmente anticipata di qualche millisecondo (come  possono diversamente sfuggire ogni volta ai nostri tentativi di colpirle?) ne estrae un siero.

Un uomo qualunque, un senzatetto, è la cavia umana su cui viene iniettato.

Lo scienziato ospita nella propria casa l’uomo e segue attentamente l’evoluzione del caso.

Nei mesi si scopre che sull’uomo il siero ha effetto progressivo.

Gli scarti temporali, dapprima ridotti – il fiore si mostra già appassito, il cibo orrendamente digerito, il volto dell’amata come sarà l’indomani mattino, l’alba è anticipata di ore – aumentano sempre di più.

Alla fine l’uomo, dopo avere attraversato un mondo fatto di scheletri, di materia in dissoluzione e poi di nulla, un cielo fatto di stelle che muoiono, di galassie che implodono, non vede più che un pulviscolo debolmente luminoso.

Il libro terminava così: “Lì, alla fine dei tempi, lo attendeva la sua Anima”.

Riportai il libro al Dottor Levi.

“Che prosa orrenda, lo Spitz, eh? E quante incongruenze. Ma è l’idea che fa sognare. Sì, l’idea. Non ha mai pensato che le cose si possono davvero vedere solo ad occhi chiusi?”

“Come Shiva?” – dissi indicando la statuetta. “Molto bella, davvero”.

“E’ dell’ottocento, viene da Madras: spesso gli occhi del Dio sono chiusi. Sempre, nelle rappresentazioni più antiche.” – aggiunse.

La prese delicatamente dalla mensola e la appoggiò sul tavolo.

La bellezza, l’armonia della scultura mi commossero. Tra poco non avrei più potuto vedere il mondo e le sue forme.

“Non guarda né il piccolo che il suo piede sfracella, né la realtà innumerevole e sacra che esce dalle sue mani, dalla sua danza – la realtà che sorge e avanza sui vertici del tempo da quella distruzione – né il bordo di fuoco dell’Essere. Con gli occhi chiusi il Dio guarda davanti a sé, in sé. Solo così comprende l’Opera che sta compiendo, l’Opera del Divino impensabile che regna anche sugli Dei. Solo così davvero vede”.

“Noi non siamo Dei, non possiamo creare o distruggere. Possiamo però provare a vedere, come Shiva, possiamo almeno sperarlo. Non solo guardare il mondo, luci ombre e misure, ma vedere. Quando i suoi occhi si chiuderanno tutto sarà più facile. Forse per questo la malattia è venuta verso di lei.  Sarà l’inizio di un cammino. Le auguro un compimento, una pienezza in ogni caso” – disse infine il Dottore.

Sfiorai con le dita la statuetta, le lasciai scorrere sul bordo di fuoco avvertendo sui polpastrelli le cinque punte di ogni fiamma. Chiusi, per un istante, gli occhi.

La visita successiva fu l’ultima.

Il Dottor Levi disse che il mio medico di famiglia, confermando la diagnosi, avrebbe dovuto firmarmi le carte per la terapia di mantenimento e per l’inizio della pratica di invalidità.

Da allora in poi, sarei stato seguito da un Centro di Viale Monza.

Tutto era chiaro.

Ci saremmo rivisti comunque, stabilimmo.

“Non me ne vorrà se le dico che la invidio. E’ comunque un’avventura e se un poco la conosco lei non è uomo da non farla fruttificare. Sa, io ho sempre avuto un’ottima vista nonostante l’età, dieci decimi e nessun minimo difetto sino all’anno scorso. E vado per i settantacinque”.

Considerai che non lo avevo mai visto indossare degli occhiali.

Un breve silenzio.

Poi:

“Shiva ha danzato per me a Cajamarca. E’ un villaggio peruviano. Lo conosce? E’ un luogo turistico. Quasi cinquanta anni fa. Un viaggio. Avremmo dovuto sposarci l’estate successiva. Lea. La amavo. Ancora riesco a dire, dal centro del mio cuore, nonostante la violenza del tempo che rende tutto diverso e opaco e così stanco, che tra noi viveva qualcosa di unico e che spero di ritrovarla nella mia prossima vita. I figli mai concepiti, l’unità infranta, la fiamma dell’assenza. Lea. Il pullman sbandò – un malore dell’autista, forse, non si è mai saputo -  e rovinò dal ciglio della strada di montagna. Attraversò due, tre tornanti. Le rocce a terra avevano infranto i cristalli del pullman e enormi schegge di vetro erano volate all’interno come pugnali. Quando tutto si arrestò, solo urla e lamenti, odore di metallo bruciato. La cercai, per trovarla già morta, un pezzo di vetro infitto nella gola e il sangue color rubino che sgorgava a fiotti poderosi da un solo punto. Tranne lei e l’autista, si salvarono tutti. Io l’avevo guardata e ancora la guardo e in tanti anni  e a questa mia età non ho mai imparato a vedere quella scena e il simbolo che portava per me solo. So solo guardare anche il ricordo, che così si torce e si rovina, si allontana ogni volta di più dalla sua verità. So solo andarmene una notte in un prato deserto, cadere sulle ginocchia e chiedere perché, gridare al Cielo senza attendere risposta il Nome che per noi è senza nome. No, non ho mai saputo vedere”.

“Capisce?”.