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Il desiderio non riconosciuto crea un risentimento non riconosciuto

di Francesco Lamendola - 29/06/2011



Erano secoli, e non per modo di dire, che non ci tornavo.
In passato, avevo frequentato assiduamente quella biblioteca: vi avevo fatto innumerevoli ricerche e, ogni tanto, avevo anche scambiato qualche battuta con la simpatica bibliotecaria, giovane (ma con qualche anno più di me) e, soprattutto, gentile.
Fa sempre piacere aver a che fare con delle persone gentili, sorridenti; d’istinto, si entra più volentieri in un negozio, in un ufficio dove la commessa o l’impiegata ti salutano con un bel sorriso, piuttosto che là dove incontri musi duri e modi scostanti.
A quel tempo ero molto solo, vivevo sempre in mezzo ai libri; però, anche se quella ragazza era così simpatica e gentile, non mi aveva mai sfiorato il cervello di guardarla sotto un profilo diverso da quello puramente formale: una impiegata che scambia qualche parola con un utente, uno dei rari utenti di quella biblioteca; e sempre e solo di cose attinenti ai libri e alle ricerche da fare, mai nulla di personale.
Era un tipo gradevole, non bellissima, forse, ma neanche brutta; molto professionale, chiaramente appassionata del proprio lavoro e, al tempo stesso, aperta e socievole. Mai l’avevo guardata sessualmente; mai le avevo osservato le gambe, o sbirciato la camicetta: per me, poteva avere una seconda o una sesta di reggiseno, non avrei saputo dirlo.
E non perché fosse brutta, ripeto, ma semplicemente perché capita così, non si saprebbe dare una ragione: forse dipende dal nostro stato d’animo in quella certa fase della nostra vita o forse da chissà cos’altro, sta di fatto che ci sono dei casi in cui notiamo subito una persona e altri casi in cui non la notiamo affatto, pur frequentandola, magari, regolarmente; pur vedendola, magari, tutti i giorni, o quasi…
Poi, le circostanze mi tennero lontano per un pezzo da quella biblioteca.
Un giorno che ci era ritornato, quella signorina sembrava interamente trasformata: mi si rivolse in maniera così ostile e rabbiosa, come se mi odiasse addirittura.
Ne rimasi sconcertato, anche se non volli darlo a vedere; e, naturalmente, smisi di tornare in quel posto.
Passarono gli anni; molti anni: venti, trenta.
Un giorno ebbi necessità di consultare un libro piuttosto raro e mi ricordai che ce n’era una copia in quella biblioteca; vi andai.
Mentre ero immerso nella lettura, notai un paio d’occhi che mi fissavano con ferocia, con odio: era sempre lei, fisicamente poco cambiata; la riconobbi subito.
Se uno sguardo potesse incenerire, credo che sarei rimasto incenerito, tanta era la feroce, implacabile malevolenza che da esso si sprigionava verso di me.
Allora, e sola allora, compresi: compresi in un istante ciò che non avevo mai capito  e nemmeno sospettato: che tutta quella rabbia silenziosa, tutto quel furore senza parole, non potevano nascere che da un sentimento profondo, accumulatosi nell’anima e covato per anni, come una serpe in seno; ma - ecco il punto - non mai riconosciuto come tale; e ora quello sguardo diceva un sacco di cose, era più eloquente di qualsiasi discorso.
Tutto quell’odio nasceva dall’amore: un amore di venti, di trenta anni prima: ella mi aveva riconosciuto all’istante, così come io avevo riconosciuto lei.
E per venti, trenta anni, lei mi aveva amato; DUNQUE, mi aveva anche odiato.
Ciascuno di noi, molto probabilmente, avrà avuto occasione di fare almeno una esperienza di questo tipo.
Può succedere così: una persona gentile, di solito dell’altro sesso, che non vedevate più da molto tempo, vi incontra e si mostra apertamente ostile, aggressiva.
C’è un momento di sconcerto: rimanete paralizzati dallo stupore…
Poi cominciate a domandarvi dove, quando potreste avere fatto qualcosa che giustifichi quel comportamento così inaspettato, così incomprensibile; ma il vostro esame di coscienza dà, immancabilmente, esito negativo: niente, siete certissimi di non averle mai fatto niente, assolutamente niente…
Ebbene,  con novanta probabilità su cento, il problema è proprio questo: CHE A QUELLA PERSONA NON AVETE FATTO NIENTE, PROPRIO NIENTE; mentre lei aveva sperato ardentemente che le faceste qualcosa.
Ci aveva sperato, ma in silenzio: non aveva osato fare la prima mossa e anzi, quasi certamente, non aveva osato confessare quel che provava nemmeno a se stessa. In breve: quella persona vi desiderava e, forse, si era perfino innamorata.
Voi non ve n’eravate accorti per niente: ma ciò non vi scagionata affatto; al contrario, proprio questa è stata la vostra “colpa”, assolutamente imperdonabile.
Perché, se non vi eravate accorti di come vi guardava; se non vi eravate accorti di quanto fosse disponibile; se - peggio che peggio - non vi eravate accorti di lei, sessualmente parlando: allora vuol dire che quella persona, per voi, non valeva niente.
Ed è così che quella persona deve essersi sentita: ignorata, snobbata, disprezzata.
Ma, insorgete voi, quando mai l’avete disprezzata? Al contrario, siete sempre stati cortesi con lei, l’avete sempre trattata con il massimo rispetto.
Razza di teste dure: possibile che non capiate che, del vostro “rispetto” e della vostra “cortesia”, lei non sapeva che farsene; anzi, che li considerava una autentica beffa, una sorta di crudeltà mentale, se non addirittura un insulto sanguinoso?
Provate a pensare: una persona vi desidera, vi guarda con occhi pieni di desiderio, e voi che cosa sapete fare? Le offrite la vostra “cortesia” ed il vostro “rispetto”!
Qui non è solo questione di cecità; qui si tratta di autentica offesa: una persona che desidera e che si vede ricambiata con la semplice cortesia, si sente rifiutata, si sente una fallita.
E accumula rancore.
Rancore contro di voi; ma anche rancore contro se stessa. Perché un desiderio non riconosciuto genera sempre, infallibilmente, un risentimento non riconosciuto.
Credete, infatti, che quella persona, nel momento in cui vi tratta in maniera sgradevole e aggressiva, sia diventata consapevole dei propri sentimenti? Niente affatto: se lo fosse, invece di riversare su di voi aggressività e rabbia, adotterebbe le uniche due alternative che nascono dalla consapevolezza: vi tratterebbe come prima, mettendosi il cuore in pace; oppure farebbe in modo di farvi capire quello che prova, quello che ha sempre provato: troverebbe il coraggio di farsi avanti, magari scherzando sulla sua passata timidezza e sulla vostra incredibile ottusità…
Invece no: lei non ha saputo riconoscere il proprio desiderio, e questo crea un corto circuito, una vera e propria schizofrenia: si comporta come se vi odiasse, ma non osa domandarsi da dove nasca tutto quel risentimento; è disperata, alla lettera.
Perché tutta la scortesia, tutta l’ostilità che vi sta riversando addosso, non è altro che amore frustrato: e lei sa benissimo, in qualche oscuro angolo della sua coscienza, che, così facendo, vi sta perdendo per sempre, senza alcuna possibilità di remissione.
Sa che, sconcertati e offesi, vi allontanerete una volta per tutte, che non vi farete più vedere da lei, che farete di tutto per non incontrarla più: e questo la rende disperata; ma, al tempo stesso, le provoca un ulteriore fremito di rabbia, un ulteriore soprassalto di furore.
«Muoia Sansone con tutti i Filistei», sta pensando: anzi, non lo sta pensando, perché, se lo pensasse, avrebbe raggiunto la consapevolezza dei propri sentimenti; lo avverte oscuramente, e si inebria di questa sua triste sensazione di potenza: stanca di aspettare, da chissà quanto tempo, un gesto da parte vostra, che non arrivava mai, ora ha preso lei le redini, ora è lei che agisce. E sia pure contro se stessa, sia pure facendosi del male: ma è sempre meglio che quell’attesa interminabile, quel vuoto desolante, quella eterna frustrazione…
Ma è disperata: perché, se pure moriranno i Filistei, lei pure morirà: morirà l’ultimo, esile filo di speranza; e non resteranno che le macerie di un grande sogno infranto.
Quante sono le persone che vivono così, nell’ignoranza più assoluta dei propri desideri, nel voluto analfabetismo della propria verità interiore?
Sono proprio coloro ai quali manca il coraggio di farsi avanti, di esplicitare - a se stessi e all’altro - quel che provano e quel che desiderano, a diventare, poi,  i più rancorosi, i più vendicativi, i più implacabili.
Non si perdonano, nemmeno dopo trent’anni, di non essersi fatti capire; e non perdonano agli altri di non aver capito…
Quando un desiderio viene riconosciuto, può generare imbarazzo, perfino vergogna, ma è pur sempre un atto liberatorio, un atto che porta chiarezza e, quindi, consapevolezza di sé.
Quando un desiderio, invece, non viene riconosciuto, marcisce nelle profondità dell’anima e finisce per intossicarla, per deturparla orribilmente.
Ecco perché è così importante imparare a leggersi dentro, senza ipocrisie e senza scappatoie: leggersi dentro e riconoscersi.
D’altra parte, se non possiamo fare a meno di essere delle creature desideranti, possiamo però, grazie alla consapevolezza, imparare a comandare ai nostri desideri o, quanto meno, imparare ad accompagnarli in direzioni che non siano distruttive, né per noi stessi né per gli altri.
Noi non possiamo impedire che i desideri nascano in noi, così come non possiamo impedire a uno stormo di corvi di mettersi a svolazzare sopra la nostra testa, gracchiando fastidiosamente; possiamo però evitare di divenirne succubi, rivolgendo loro tutta la nostra attenzione.
Una volta compreso che non sta in noi di poterli allontanare, dobbiamo fare come se non ci fossero: procedere per la nostra strada senza lasciarci impressionare, senza lasciarci condizionare, senza lasciarci paralizzare da quelle presenze sgradite.
Queste, però, non sono capacità che si possano improvvisare: vi si arriva per gradi, poco a poco, mediante un lungo esercizio.
Chi è abituato a inseguire tutti i desideri, mutevoli e incostanti; chi è solito correre dietro a tutto ciò che, lì per lì, gi sembra bello e desiderabile: ebbene, costui non sarà in grado, da un momento all’altro, di disciplinare, organizzare e padroneggiare i propri desideri; si lascerà ricattare da essi, senza tregua, sino allo sfinimento.
Bisogna imparare a distinguere i desideri profondi dai semplici capricci; e, una volta fatta questa distinzione preliminare, bisogna imparare a non dare importanza ai secondi e a non concedere le briglie sciolte nemmeno ai primi, se non a precise condizioni.
L’importante è che noi restiamo ben saldi al timone della nostra barca: siamo noi a dover tracciare la rotta; siamo noi a sapere con chiarezza da che parte intendiamo andare.
Non possiamo pretendere che siano gli altri a saperlo; così come non possiamo pretendere che gli altri comprendano i nostri desideri più segreti, se noi per primi non abbiamo abbastanza coraggio per guardarli apertamente e riconoscerli per quel che sono.
La saggezza della vita è proprio quella di non essere più severi con gli altri, di quel che non siamo con noi stessi; di non riversare su di essi la nostra rabbia, per vendicarci di un torto che, in realtà, siamo stati noi a farci da soli, con le nostre stesse mani.
Poi, dobbiamo imparare a riconoscere quali desideri nascano da una necessità reale e quali da una necessità solo apparente; e, ancora, quali desideri siamo utili per la nostra crescita spirituale, e quali le siano di pericolo o addirittura di ostacolo.
Tutto questo dobbiamo imparare a fare, se vogliamo diventare autonomi ed evitare di essere trascinati dal primo soffio, come le foglie al vento.
È troppo difficile?
Non così tanto come sembra a chi non ci abbia mai provato…