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Il tarantismo, una sfida imbarazzante ai pregiudizi della «scienza positiva»

di Francesco Lamendola - 30/06/2011




Athanasius Kircher è stato l’esorcista controriformista della magia naturale?
È questa la tesi di Ernesto De Martino (1908-65), l’antropologo che ha studiato l’Italia “magica”, specie nei paesi più isolati del Mezzogiorno e le cui pubblicazioni, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, hanno avuto un notevole successo di pubblico e di critica.
Libri come «Il mondo magico» (Einaudi, 1948) «Sud e magia» (Feltrinelli, 1959), «La terra del rimorso» (Il Saggiatore, 1961), «Magia e civiltà» (Garzanti, 1962), non solo hanno raggiunto un vasto pubblico, ma hanno anche contribuito a impostare i problemi dell’antropologia sotto una luce nuova in ambito accademico, contribuendo a superare alcuni pesanti pregiudizi di matrice positivista che gravavano su di essa e permettendo di accostarsi alle società “magiche” e “arretrate” con una maggiore serenità scientifica, non con la fretta di giudicare ma piuttosto con il desiderio di comprendere.
Nella concezione antropologica di De Martino, che è stata dichiaratamente influenzata dallo storicismo crociano, occupa un posto centrale il concetto di “presenza”, che mostra analogie con quello heideggeriano del “Dasein” (l’esserci, come persone dotate di senso, in un contesto anch’esso dotato di senso). Si tratta della capacità di conservare le memorie e le esperienze necessarie a porsi in maniera adeguata rispetto ad una certa situazione storica, e di mettersi in relazione ad essa in modo intenzionale, significativo ed autonomo.
Athanasisu Kircher (1602-80) è una singolare figura di studioso del XVII secolo, i cui interessi spaziano in quasi tutti i rami dello scibile umano: dalla linguistica alla filosofia, dalla storia alle scienze naturali (specialmente geologia, paleontologia e magnetismo), dall’archeologia alla magia; gesuita tedesco vissuto nella Roma dell’età barocca, considerato uno dei massimi esperti a livello mondiale in ciascuno dei campi da lui coltivati, amico e corrispondente di eminenti personalità della cultura internazionale e autore di una mole sconfinata di libri, che potrebbero riempire una intera biblioteca.
Già ai suoi tempi, peraltro, Kircher fu oggetto di valutazioni assai controverse; infatti ebbe, accanto agli estimatori (fra i quali figurano grossi calibri come il filosofo Leibniz), anche degli sprezzanti detrattori: Cartesio, per esempio, lo considerava più un ciarlatano che un sapiente; ed Evangelista Torricelli, a proposito di un libro del gesuita tedesco sul magnetismo terrestre, «Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum» (Roma, 1641 e 1654; Colonia, 1643), afferma di averne riso per un pezzo insieme ai suoi amici.
Più in particolare, Kircher aveva sostenuto, contro il meccanicismo cartesiano (e anticipando, per certi versi, se ci è lecito questo accostamento, il pensiero scientifico di Goethe), che esistono in natura delle “virtù” e delle “attrazioni”, tra le quali ultime vi è il magnetismo terrestre; e che, grazie a queste forze occulte, ma nondimeno reali, una determinata partitura musicale può agire efficacemente contro il veleno della tarantola.
Cartesio e Torricelli avrebbero avuto un po’ meno da ridere se fossero giunti a vedere l’attuazione, ai nostri tempi, delle varie forme di musicoterapia; e, più in generale, se avessero assistito alla critica delle loro concezioni meccanicistiche da parte della stessa fisica più avanzata, particolarmente quella delle particelle sub-atomiche o quantistica.
Ma torniamo alle tarantole, ai tarantolati e al potere terapeutico della musica.
Tre secoli dopo le affermazioni del dotto gesuita, uno storico italiano delle religioni, discepolo di Rodolfo Omodeo e con forti interessi sia filosofici, sia musicologici (cosa che lo accomuna a padre Kircher), scopre l’universo “magico” delle società rurali dell’Italia meridionale e viene a contatto con le ipotesi del suo eccentrico predecessore.
Essendo stato egli stesso attratto dal fenomeno del tarantismo, che nessuna scienza “positiva” era mai riuscita a spiegare in maniera soddisfacente, pur trattandosi di una realtà attestata da tempi immemorabili, De Martino si sente spinto a confrontarsi con le ipotesi terapeutiche formulate dallo studioso tedesco tanto tempo prima.
Kircher aveva sostenuto che la musica può essere utilizzata come antidoto contro il morso velenoso della tarantola; e questa intuizione terapeutica non ortodossa ha subito richiamato l’attenzione dell’antropologo italiano, che, nel corso delle sue ricerche “sul campo” nei villaggi del Meridione, si è imbattuto nel fenomeno del tarantismo.
Infatti, ne «La terra del rimorso», De Martino ha studiato l’effetto della musica sui tarantolati, ossia quelle persone che cadono in preda ad una sorta di convulsione isterica, accostabile - per certi aspetti - all’epilessia, e che sarebbe provocata in loro dal veleno di due ragni, la tarantola («Lycosa tarantula») e la malmignatta («Latrodectus tredecimguttatus»).
In verità, si trattava quasi sempre di giovani donne nubili (psicanalisti, sbizzarritevi) che, durante i lavori agricoli, venivano morse e cadevano in convulsioni; e che poi, con buona pace di Evangelista Torricelli, ritrovavano la guarigione proprio grazie alle antichissime “terapie” popolari, basate su un uso appropriato di musiche e canti corali.
Vi sono pochi dubbi che il tarantismo sia la manifestazione di un malessere interiore; sta però di fatto che nessuna scuola antropologica ha mai saputo interpretarlo in maniera soddisfacente, almeno prima degli studi di Ernesto De Martino, a causa del pregiudizio professorale che vede in simili cose niente altro che l’espressione di una società “barbara” e “ignorante” e che, per curare disturbi come il tarantismo, non saprebbe far di meglio che ricorrere alle meraviglie della psichiatria, della psicanalisi o, magari, dell’elettroshock.
Ci siamo già imbattuti in una fenomenologia abbastanza simile, con la differenza che si trattò di un fenomeno collettivo, trattando l’episodio delle cosiddette “indemoniate di Verzegnis”, un paesino della Carnia che era, all’epoca, piuttosto isolato (cfr. il nostro articolo «Le indemoniate di Verzegnis nel 1877-78: un caso che sfida la “scienza” psichiatrica», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 02/04/2008).
Athanasius Kircher non era giunto alle sue convinzioni, in materia di musica e tarantismo, in maniera estemporanea; al contrario, esse fanno parte di un universo concettuale estremamente coerente e compatto, che potremmo definire olistico.
Egli è convinto che il magnetismo non sia un fenomeno solamente terrestre, ma riguardi anche il Sole e le stelle; che il magnetismo del Sole e della Luna eserciti un influsso sulle maree; che le piante possiedano una loro propria forza magnetica; che il magnetismo possa venire utilmente impiegato in medicina; che si intrecci con la forza attrattiva dell’immaginazione; che, infine, influenzi sia la musica che l’amore.
Secondo Paolo Rossi (in «La nascita della scienza moderna in Europa», Roma, Laterza, 1997, pp. 236-37; 242)

«…Con Kircher rinasce, in pieno Seicento, nell’età dei trionfi della meccanica, una curiosa, irripetibile combinazione di tradizione magico-alchimistica e di sperimentalismo moderno. La figura del mago e quella del tecnico sembrano ancora una volta fondersi insieme. La costruzione delle macchine serve più a esibire prodigi, a mostrare il meraviglioso che a rafforzare il controllo umano sulla natura. […]
È indubbio che, in questo tipo di testi, appare del tutto evidente una utilizzazione del platonismo ermetico a fini apologetici. Il programma culturale di Kircher, da questo punto di vista, sembra portare a compimento il progetto di Francesco Patrizi che, alla fine del Cinquecento, aveva invitato il Pontefice a sostituire l’insegnamento del pagano Aristotele con la filosofia ermetica e platonizzante di Marsilio Ficino. Ci si è chiesti: esiste quella che chiameremmo oggi una “politica culturale” dell’ordine dei Gesuiti dietro questo tipo di produzione che mescola cose nuove e vecchie superstizioni, che tende al sensazionale, all’inaudito, a colpire l’immaginazione? Oppure si tratta solo di una manifestazione della mentalità caratteristica del manierismo e della cultura barocca? […]
Proprio De Martino ha saputo formulare, a proposito della fortuna dei testi di Kircher, della grande seduzione da essi esercitata e della tradizione ermetica ancora vigoreggiante in pieno Seicento, un giudizio molto acuto: “In Kircher il ponte che aveva mediato il passaggio dalla bassa magia cerimoniale alla baconiana sapienza come potenza serviva ora per compiere l’inverso raccordo col meraviglioso popolare e plebeo e per giustificare le credenze magiche tradizionali mediante le categorie mentali della magia naturale. Attraverso Kircher si compie in un certo senso l’esorcismo controriformistico della magia naturale, il tentativo di fornire una grande sinossi di magia naturale depurata da ogni fermento pericoloso” (De Martino, “La terra del rimorso”, 1961, p. 244).»

Ci sarebbero molte cose da dire su questa pagina di prosa e sui numerosi pregiudizi scientisti che da essa traspaiono.
Che cosa vuol dire che in Kircher si realizza «una curiosa, irripetibile combinazione di tradizione magico-alchimistica e di sperimentalismo moderno», se poi si ammette che il suo programma culturale è la logica continuazione del neoplatonismo rinascimentale?
E che cosa vuol dire mescolare «cose nuove e vecchie superstizioni»: forse che la tradizione ermetica era soltanto una vecchia superstizione, mentre la baconiana «sapienza come potenza» era una cosa nuova e, dunque - sembra suggerire il Rossi -  anche una cosa buona, vera e di per sé evidente?
Quanto, poi, al sospetto finale, che, cioè, l’opera del Kircher potrebbe rientrare in un disegno complessivo dei Gesuiti tendente a riproporre la superstizione, la magia ed il meraviglioso alle plebi che essi volevano ricattolicizzare con qualsiasi mezzo, ci sia consentito di sorriderne.
Certo, nessuno negherà che le opere degli scrittori e studiosi gesuiti del ‘600 rechino il riflesso della barocca “poetica della meraviglia”: come è evidente, ad esempio, nella prosa, peraltro superba sotto ogni punto di vista, di un Daniello Bartoli o di un Paolo Segneri; ma da qui ad ipotizzare una gigantesca macchinazione per far ricadere l’Europa nelle cosiddette tenebre dell’ignoranza medievale, il passo è lungo e ce ne corre assai.
Non solo: se è vero, come è vero, che la tradizione platonica si riallaccia, per molti aspetti, a quella ermetica; e se è vero, come è vero, che la cultura umanistico-rinascimentale si riallaccia, a sua volta, al platonismo, spesso contrapponendolo, polemicamente, all’aristotelismo: come stupirsi che, nel Seicento, gli echi di quella tradizione fossero ancora ben vivi («vigoreggiassero», per dirla con Paolo Rossi) e, dunque, come stupirsi di quella “rinascita” - che poi rinascita non era - della tradizione magico-alchimistica, sovente mescolata con aspetti del pensiero scientifico moderno?
È esattamente la stessa strada percorsa da giganti del pensiero come Giordano Bruno e Tommaso Campanella: anche loro, perciò, sarebbero una singolare mescolanza di cose nuove e di antiche superstizioni?
Quanto al tarantismo, da cui eravamo partiti, si tratta di un fenomeno specifico della cultura contadina meridionale, connotato da una intensa partecipazione collettiva alle vicissitudini del tarantolato e, in particolare, dall’intervento di suonatori di violino, di organetto, di armonica a bocca e di tamburello, i quali, suonando la “pizzica”, una musica dal ritmo sfrenato, indicevano il malato a una danza scatenata che poteva durare molto a lungo e che aveva l’effetto di alleviarne i tormenti e favorirne la guarigione.
Tutto l’insieme di questa tradizione aveva, pertanto, quasi l’aspetto di un esorcismo musicale, nel senso che la musica e la danza avrebbero annullato l’effetto del veleno: cosa che può essere dipesa dai processi chimici innescati nel sangue da ore ed ore di danza spossante, ma anche dall’influsso psicologico esercitato dalla musica stessa e dalla consapevolezza, da parte del tarantolato, di essere affidato alle virtù di un rito di guarigione comunitario, antico e di sicura efficacia.
Il Cristianesimo tentò di assimilare la tradizione del tarantismo nei propri rituali, sotto la protezione di San Paolo (che, morsicato da un serpente velenoso nell’isola di Malta, non ne riportò alcun male, come si legge negli «Atti degli Apostoli»), ma andò incontro ad un sostanziale fallimento, perché le tarantolate - abbiamo detto che si trattava quasi sempre di donne, per di più giovani - si abbandonavano, nella frenesia delle convulsioni, a movimenti sessualmente provocanti, inarcando il corpo e simulando, inconsapevolmente, la copula e l‘orgasmo.
Il tarantismo  è praticamente scomparso nel corso del XIX secolo, travolto, insieme a tante altre cose, dal rullo compressore della modernità, che Giovanni Verga chiamava, malinconicamente, la «fiumana del progresso».
La scienza moderna non ha saputo spiegarlo; e, per la verità, non ci ha nemmeno provato, dal momento che vi si è accostata - se pure si è degnata di farlo - con un tale bagaglio d pregiudizi razionalistici, da rendere incomprensibili le dinamiche e  il significato.
Ernesto De Martino è stato uno dei pochi studiosi italiani che, in controtendenza, hanno saputo accostarsi a tale fenomeno, e - più in generale - al mondo “magico” della civiltà contadina, con atteggiamento più sensibile e rispettoso; pur se anche nella sua opera traspaiono alcuni pregiudizi ideologici tipicamente “moderni”.
Uno fra tutti: la diffidenza verso il programma culturale dei gesuiti, spinta fino alla sospettosità; e l’atteggiamento ambivalente nei confronti dello stesso Kircher, visto, da un lato, come l’erede di una tradizione alchimistica e magica “vecchia” e destinata ad esaurirsi, dall’altro come un intelligente studioso di fenomeni che la medicina e la scienza del tempo non sapevano curare e nemmeno interpretare.
Sia come sia, rimane l’imbarazzante sfida costituita dal tarantismo per la “scienza positiva”; una sfida che non si accontenta di risposte frettolose e generiche, come quella che vorrebbe spiegarlo esclusivamente in termini di sindrome isterica originata da una sessualità repressa.