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Usa e Brasile: il problema spinoso del rapporto con gli autoctoni

di Rutilio Sermonti - 06/07/2011

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Esiste ormai tutta una vasta letteratura, sia scientifica che “divulgativa”, sul più grande e spietato genocidio della storia, perpetrato soprattutto nel secolo XIX dagli invasori di razza bianca e fede cristiana a danno dei popoli che abitavano il “Nuovo Mondo”. E deve darsi atto che la massima parte di quella, la più seria e documentata, anche di stampo “wasichu” (quello dei bianchi invasori) tende a rendere tardiva e postuma giustizia alla memoria di quelle sfortunate genti e dei loro capi, a cui - più che il divario tecnologico - fu il connaturato rigore morale a loro proprio a rendere impossibile la difesa contro la “lingua biforcuta” dei tracotanti ed avidi invasori.
Non pretendiamo quindi, certo, in queste poche righe, di portare un contributo a una tale rivalutazione, tanto più che la resa di onori ad uomini della taglia di un Hiawatha, di un Tatanka Yota-ka (Toro Seduto), di un Inmut Toiah Lachecht (Capo Giuseppe), di un Tecumseh, di un Metacomet (re Filippo), di un Toshinko Widko (Cavallo Pazzo), di un Sequoiah, fa parte da sempre del nostro patrimonio ideale.
Quel che intendiamo qui evidenziare, per la sua rilevanza anche sugli orientamenti attuali, è una netta differenza attinente agli invasori. Ladroni e avventurieri, sappiamo bene, si assomigliano tutti, latini o anglosassoni, e magari cinesi, arabi o ebrei. Per loro, non esiste altra regola che il lucro, a prezzo di qualsiasi infamia o violenza, magari mascherata con vaniloqui messianici. Ciò spiega come i delitti di cui si macchiarono i portatori delle varie versioni della cosiddetta “religione dell’amore” (?!) siano stati, più o meno, gli stessi. Sembra che il servizio del “vero Dio” giustificasse il sistematico mancamento di parola, l’assassinio di massa a tradimento, la voluta diffusione del vizio dell’alcool, il soffiamento sul fuoco delle antipatie e rivalità tribali per servirsi di un popolo contro l’altro e poi tradire l’uno e l’altro, i massacri scellerati di donne, vecchi e bambini, la diffusione - spesso volontaria - di malattie sterminatrici per i nativi in quanto privi di immunizzazione acquisita e di pratica terapeutica (vaiolo e colera cancellarono nazioni intere), l’acquisto di ottime e vaste terre (inconcepibile per un indiano), stipulato per una pinta di whisky con uno sciagurato qualunque, privo su di esse di qualsiasi diritto, e poi “registrato” quale titolo inoppugnabile per espellerne a viva forza ogni nativo che su quelle e di quelle vivesse, la strage, in pochi anni, di circa 20 milioni di bisonti, risorsa preziosa di vita per i popoli cacciatori costretti nelle Pianure, e le altre prelibatezze della civiltà capitalistica, ormai note a chiunque abbia voluto dedicarvi un minimo di attenzione. Non molto diverse, le umanistiche iniziative dedicate agli Indios amazzonici dai “fazendeiros” (allevatori) o dai “garimpeiros” (cercatori d’oro), con varianti non morali, ma solo tecniche, in rapporto alla forte diversità dell’habitat. Mascalzoni lusitani e mascalzoni britannici non praticano tecniche molto diverse per mettere a frutto la loro cialtroneria, sia in patria che - meglio! - in terre selvagge, dove il controllo della “legge” è più difficile.
La netta differenza tra Brasile e Usa, sta invece proprio nella legge, nello Stato e nel concetto che se ne ha.
Parliamoci chiaro: anche il Portogallo ha finito con l’adottare una costituzione massonica con le solite proclamazioni democratiche, ugualitarie, giusnaturalistiche ed enfatiche. Ma non ci si vorrà mica sostenere che la coscienza, ai popoli, gliela diano le costituzioni! I popoli, il loro sentire e le loro istituzioni esistevano da molte migliaia di anni, prima che le costituzioni fossero inventate. Eppure, avevano ciascuno una coscienza condivisa ben più solidamente fondata!
E così l’aveva il Portogallo, anzi, l’ecumene portoghese, allorché, con la dinastia dei Braganza, conquistò il Brasile. Contenuto di tale coscienza, fondamento di tutte le civiltà europee ed anche orientali, era che il pubblico potere (quale che ne fosse la forma istituzionale) avesse la funzione di regolare con leggi e di tutelare l’applicazione della “volontà divina”, intendendo con l’espressione ciò che fosse oggettivamente giusto e degno, oltre che socialmente utile ad elevare la qualità umana.
Ma - si dirà - la stessa concezione avevano gli altri popoli europei che colonizzarono l’America del nord. Esatto, ma la mentalità nuova che si formò negli insediamenti atlantici dalla Florida alla Nuova Inghilterra non fu affatto risultato di tale concezione, ma, anzi, al contrario, del rifiuto della medesima. La nuova realtà Yankee nacque proprio dalla Guerra d’Indipendenza, e cioè dal preciso intento di recidere ogni legame coi “valori” riconosciuti in Europa. E i primi nuclei di avventurieri che, di loro iniziativa, avevano fuggito l’Europa, attestandosi lungo la costa atlantica e accoltivi ospitalmente da Irochesi, Algonkini e Creek, ed essendo riusciti, coi loro sleali e brutali comportamenti, ad alienarsi ogni simpatia ed ogni rispetto da parte di quelle genti, se, in un primo tempo approfittarono dell’arrivo in forze di eserciti regolari britannici o francesi per togliersi dai piedi i legittimi abitanti non del tutto “addomesticati”, appena raggiunsero il numero e il “potenziale economico” sufficiente a fare da sé, nient’altro trovarono più consono ai loro affari che liberarsi al più presto dalla condizione coloniale, e, con essa, dall’ “antiquata” concezione etica dello Stato. Assunta così la struttura confederale (una al nord industriale e un’altra al sud agricolo), e ancor più dopo la sconfitta del Sud ( dov’era rimasto qualche residuo di concezioni tradizionali) la nazione Usa divenne né più né meno che una enorme società anonima: espressione degli interessi economici dei soci (finanziari) di maggioranza, cristiani-calvinisti o ebrei. Ma la guerra d’indipendenza, se parve segnare una resipiscenza nella politica di odio, disprezzo e noncuranza verso i “musi rossi”, ne segnò invece la definitiva condanna a morte. Era ovvio che ambo le parti (legittimisti e ribelli) valutassero l’importanza di guadagnarsi i servizi delle valorosissime nazioni indiane, solite a mantenere il massimo rigore nell’assolvimento degli impegni assunti, e quindi ponessero in opera ogni espediente per “corteggiarle” con doni e soprattutto con promesse solenni che non si aveva alcuna intenzione di mantenere. Ma gli “Indiani”, la cui buona fede era effetto di purezza e non di stupidaggine, rimasero assai perplessi davanti a tanto improvviso amore e rispetto da parte dei “visi pallidi”, la cui inaffidabilità morale avevano già dolorosamente sperimentata. Parte delle tribù restarono quindi ostinatamente neutrali (come quasi tutti gli Irochesi, i Pueblos, i Chute-Palu, gli Apache), ma di quelle che presero partito la gran maggioranza optò per le forze “regolari” britanniche, da parte delle quali pensarono di poter contare su un minimo di etica guerriera, che sapevano invece mancare del tutto alle feroci masnade dei “pionieri”. Ora, è ben noto come, a un certo punto, gli affaristi che dominavano a Londra trovarono non più conveniente continuare a dissanguarsi in quella costosa e lontana guerra, e diedero ordine di trattare la pace con Washington e i suoi e di tornarsene a casa. Naturalmente non sfiorò neppure le meningi dei giannizzeri albionici il pensiero di avere qualche obbligo verso i lealissimi e fedeli guerrieri che avevano effuso senza risparmio il loro sangue al sevizio dell’Union Jack. Preoccupatissimi di salvare le loro lentigginose pelli e i bagagli, in tutte le loro “capitolazioni” di allora non c’è neppure mezza riga finalizzata a salvaguardare i guerrieri con le penne d’aquila dalla feroce vendetta dei vincitori. E la vendetta fu turpe e infame, forse ancor più di quella, di un secolo successiva, di Norimberga o del piano Morgenthau, perchè non si preoccupò neppure di mascherare il suo autentico carattere pretestuoso e bassamente predatorio. Fu infatti scatenata non solo contro le nazioni indiane che si erano battute a fianco delle Giubbe Rosse, ma anche contro quelle rimaste estranee al conflitto, e persino contro le ex-alleate, con i pretesti più risibili.
Nulla di simile accadde per il Brasile e il Portogallo, anzi, dovrebbe dirsi il contrario. Le vittorie napoleoniche in Europa, piccolo Portogallo compreso, determinarono infatti la paradossale situazione della sopravvivenza dell’impero portoghese, senza... Portogallo. Il re Giovanni VI di Braganza si ritirò a Rio de Janeiro, ed ivi gli successero, nel 1822, il figlio Pedro I, e poi Pedro II. Ma, anche allorché, proclamata la repubblica federale brasiliana, il centro dell’ecumene tornò ad essere Lisbona, non si verificò affatto, in Amazzonia, l’identificazione degli speculatori privati con lo Stato. Quindi, se quest’ultimo ha realizzato solo negli anni recenti, dopo lo spostamento della capitale all’interno (Brasilia) la possibilità di attuare una propria ragionata politica verso i “povos indigenas brasileiros” (cioè verso le genti autoctone che non si erano integrate e mescolate con la popolazione bianca e coi negri da quella acquistati, quale bestiame, da Ebrei e Arabi come manodopera gratuita nelle piantagioni e nelle miniere, e successivamente liberati), senza subire passivamente i diktat degli speculatori, a somiglianza dei servili politici di Washington, è anche vero che, all’inizio, sembrò avallare la deformata mentalità degli affaristi, privi di ogni rispetto sia per la biosfera che per le etnie diverse dalla loro. Sia lo “Statuto dell’Indio” (1973) che il decreto Reis (1978) proclamavano l’obbligo dei “selvaggi” di “integrarsi nella moderna civilizzazione”. Ma l’andazzo fu di breve durata. Dopo un’agitata gestazione legislativa, ecco nel 1988 la Nuova Costituzione Brasiliana dichiarare arditamente (art. 231) che gli Indios avevano un originario “diritto alla terra”! Esattamente il contrario di quanto, con l’Indian Appropriation Act del 1851, gli statunitensi avevano decretato definitivamente e spietatamente applicato già da oltre un secolo, saltando a piè pari persino quell’Indian Removal Act del 1830 che, costringendo tutti i popoli indiani a trasferirsi nelle terre ad ovest del Mississippi, aveva dichiarato loro, con l’autentica Alta Sfacciataggine del presidente Jackson. “Vostro padre (il medesimo sfacciato - n.d.a.) ha preparato un paese abbastanza grande per ospitarvi tutti e vi consiglia di trasferirvi laggiù. Là i vostri fratelli bianchi non vi daranno alcun fastidio, non avranno alcun diritto sulla terra, e voi potrete abitarvi insieme ai vostri figli finché cresce l’erba e scorre l’acqua, in pace e in abbondanza. Questa terra sarà vostra per sempre”.
Basterebbe riflettere su questo per convincersi dell’autentica differenza di classe esistente tra l’autorità politica brasiliana e quella Usa. Ma tale divario divenne addirittura abissale negli ultimi decenni in cui fu proclamato e applicato il principio per cui gli Indios non-integrati, non solo avessero un autonomo ed originario diritto di vivere, ma quello di farlo a loro modo tradizionale, senza alcun obbligo, giuridico e tanto meno “civile”, di genuflettersi ad allogene unità di misura. Altamente sintomatica, la questione spazio. Nel registrare il fatto indubbio che i “povos indigenas” avevano esigenze materiali incomparabilmente inferiori a quelle dei “civilizzati” venuti dal mare, e ciò permetteva loro di conservare un religioso rispetto per la biosfera, gli studiosi portoghesi, nel loro sforzo realistico, costatarono che vi era un’esigenza pro capite che per i nativi era molto maggiore che per i bianchi: quella di spazio. Un Indio aveva bisogno, per vivere a suo modo, di una terra molto più vasta di quella necessaria agli uomini stipati nelle città e nelle “fazendas”: un bisogno profondo e almeno altrettanto tutelabile dallo Stato brasiliano, che quelli dei conquistatori sopraggiunti. Ben presente fu tenuto il tragico destino subito, nel Mato Grosso del Sud, dai Kayowa, che la mancanza di spazio, prodotta dalle industrie estrattive, aveva trasformato in pochi anni in branchi di cenciosi mendicanti, che cercavano la liberazione e la dignità nei continui suicidi. Ma non era certo lo spazio che mancava, nell’immensa Amazzonia! E non era un Indio ma un intellettuale bianco quel Candido Rondon che, già nel 1910, fondò lo SPI (Servizio Protezione Indios). Vero che, morto il fondatore (1956), lo Spi, preso d’assalto dagli speculatori, degenerò fino a divenire il protettore solo di questi ultimi, ma - appena il governo, su reclami degli Indios medesimi, compì un’inchiesta e scoprì il marchingegno, si affrettò (1967) a sopprimere drasticamente lo Spi.
Da allora, la difesa degli indios “selvaggi” e del loro regime di vita, contro gli abusi, le violenze e i trucchi degli speculatori privati, fu assunta direttamente dalla Confederazione, sia in sede legislativa che giudiziaria e - deve dirsi a suo onore - senza alcuna democratica remora per il loro ridottissimo numero (probabilmente non arrivano al milione). E il vigore di tale difesa aumentò: non diminuì. Il 2008 segnò il definitivo abbandono del sistema genocida delle centinaia di piccole “riserve” tribù per tribù e la conquista del criterio per cui la terra riservata agli Indios dovesse costituire un vasto “continuum”. Emblematica fu la sistemazione assunta per una delle più estese e fiere nazioni aborigene, quella dei Kampa, di gruppo etnico Arawak, nell’estremo occidente amazzonico. Essi ebbero il loro Stato (l’Acre), la loro capitale (Rio Branco), la loro bandiera (giallo-verde trasversalmente, con stella rossa a 5 punte in alto a sinistra). E di regimi analoghi poterono beneficiare le altre maggiori etnie, come i Queciua, Gli Aimarà, i Guaranì. Fu la Corte Suprema Federale, con la storica sentenza 10.12.2008, a sancire la regola per cui le terre Indie dovessero comunque rappresentare aree continue e ai latifondisti fosse illecito istallarvisi, mentre il Presidente Lula ordinava alla polizia federale di espellere da esse, manu militari, i coltivatori (e disboscatori) abusivi.
Non vogliamo qui entrare nella disamina critica della “politica indiana” dei c.d. “Carioca”, non possedendone né la minuziosa conoscenza né quella della variegata problematica connessa. Ma una evidente conclusione ci sembra legittimo trarre dai confronti sopra effettuati con quella seguita nell’emisfero boreale dagli invasori anglofoni. Che, in Brasile, si sia trattato dell’incontro (e talora scontro) di due civiltà: quella europea-cattolica dei Lusitani e quella - più semplice ma coerentissima e rigorosa - dei popoli autoctoni; mentre nell’altra di civiltà ve ne fosse una sola: quella dei disprezzati “Pellerossa”, che fu travolta, distrutta e sterminata da bande di predoni che ogni civiltà avevano ripudiato, ammantando di spirito missionario la propria superbia, di intolleranza bacchettona la propria amoralità e di immortali principi la propria assenza di ogni principio che non fosse quello predatorio.
Per questo, abbiamo voluto oggi rifarlo, quel confronto. Perché, giunti quei gangsters, grazie alla sterminata stoltezza umana, ad allungare gli artigli sul mondo intero, divenendone il cancro distruttore, chi ancora possieda un briciolo di senno possa intuire qual è la scelta che si impone.