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Disagio del presente, nostalgia del futuro

di Franco Cardini - 13/07/2011

http://blog.libero.it/WesternDecadence/getmedia.php?Eor%60z%2Ckognmo%25caodadgaPfzftegq%7DC%3A%2562%27z%05kgonmghom%05j5

L’articolo che state per leggere ha intrigato e perfino messo a disagio il suo autore. Prendete un libro non privo - al contrario! – né d’intelligenza né d’interesse, del quale s’intuisce la nemmeno troppo nascosta ambizione a presentarsi come una specie di “guida dei perplessi” per gli égarés “di destra” che in tempi abbastanza recenti hanno gradualmente venduto quella che essi ritenevano la loro legittima primogenitura eticopolitica forse non per un piatto non di lenticchie, bensì magari per una bella porzione di fettuccine al tartufo: ma che in fondo non si son mai trovati bene né hanno accettato con realistico cinismo il fatto di essersi un po’ venduti anche l’anima; e che adesso, tornati in parte sui loro passi, cercano di ricucirsi un abito che troppo frettolosamente e maldestramente si erano strappati di dosso. E tenete presente che l’autore di questo articolo, fino ad anni che non sono più proprio dietro l’angolo ma che non vanno nemmeno situati nel quaternario, ha condiviso buona parte delle posizioni degli autori del libro di cui è chiamato a parlare, e che considera per giunta buoni conoscenti se non addirittura amici. Nessuna malevolenza, quindi, ma nemmeno sconti. Parliamo invece di un autentico disagio, di una non meno autentica “nostalgia del futuro”, d’intenzioni probabilmente buone, di qualche reticenza e di parecchi malintesi.

Il domani appartiene al Noi. Tale il titolo del libro scritto da Federico Eichberg e Angelo Mellone, il cui sottotitolo suona 150 passi per uscire dal presentismo (Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011, pp. 180, 14 euri). Un sottotitolo che suona come una sacrosanta promessa: non c’è dubbio che sia necessario uscire dalla “deriva presentista” fatta di piccoli e bassi egoismi, di mancanza di capacità di comprendere il passato e di progettare il futuro, di voglia di apparire e di possedere senza nessun riguardo per l’essere (vi ricordate del vecchio Erich Fromm?), di bisogno di “visibilità” e di effimero. Forse meno opportuna, vista anche la qualità dei due coautori che sono anche docenti universitari, è la struttura di un libro che si presenta costituito di miniparagrafi quasi aforismatici (l’aforisma sembra ormai una misura prediletta dalla pubblicistica “di destra”), con sprazzi di calembour longanesiano-flaianesco del tipo “Per chi suona la campanella” o “Dal Think Tank al Pink Tank” e note in fine volume fondate su una bibliografia in gran parte a dir poco pubblicistica. Insomma, vista la qualità dei due coautori, è legittimo chiedersi perché abbiano evitato di chiedersi da che punto in poi, per loro, cessava il pamphlet e cominciava il saggio impegnativo.

Ma a questo punto va detto che rivelatore è il titolo, parafrasi del verso conclusivo di un canto per certe persone e in certi ambienti molto rivelatore e dannatamente serio. E più ancora il Prologo, segnato da due sentenze la prima delle quali appartiene a don Giussani (e fin qui…) e la seconda a uno – ebbene, sì! – dei miei piu cari e venerati Maestri, il “fascista di sinistra” (quasi un fasciocomunista) Beppe Niccolai, leggendario deputato missino di Pisa degli Anni Sessanta-Settanta rispetto al quale Bordiga era un liberista.

“Il domani appartiene a noi” era il verso finale ed entusiasticamente reiterato di una bella canzone, il cui testo ricordava, su una tastiera dall’elegiaco-romantico all’eroico, un Lied tedesco. Et pour cause. La sua musica era difatti quella di un bel canto eseguito da un ragazzo della Hitlerjugend, reso celebre fin dagli Anni Settanta perché parte di una scena-chiave del film Cabaret. In realta, non apparteneva al vero repertorio nazista: s’intitolava To Morrow belong to me ed era stata composta dai due originali, formidabili autori della colonna sonora del film, John Kander e Fred Ebb.

Quella canzone, con un testo più o meno liberamente tradotto in italiano, divenne l’inno ufficioso dei “Campi Hobbit” della Nuova Destra che s’ispirava – ma con molta originalità e libertà – ad Alain de Benoist e a quello ch’era allora il G.R.E.C.E. e che in Italia aveva trovato allora un leader prestigioso e carismatico nel poco più che ventenne Marco Tarchi, un brillante universitario lombardo naturalizzato fiorentino che, come capo dei giovani missini, aveva quasi soffiato a furor di popolo il posto al suo coetaneo Gianfranco Fini il quale era stato tuttavia insediato d’autorità come delfino di Giorgio Almirante. Ciò aveva condotto Tarchi – oggi autorevole politologo dell’Università di Firenze – fuori dal M.S.I. (partito del quale era consigliere comunale nella sua città) e lo aveva portato a fondare e animare un bel gruppo di ragazzacci che si erano scrollati del tutto di dosso la polverosa eredità neofascista (per quanto poi, provocatoriamente, non disdegnassero certe rivisitazioni paradossali del “fascismo immenso e rosso”: da qui anche le loro performances canore). Quei ragazzacci scrivevano di letteratura e di musica; amavano Conrad, Melville e Kerouac; organizzavano concerti di rock alternativo; si dicevano nemici al tempo stesso del liberismo americano e del collettivismo sovietico (ma piaceva loro Che Guevara e sostenevano che, tra la Coca Cola capitalista e il colbacco socialista, messi alle strette avrebbero di gran lunga preferito il secondo). Non erano clericali e non facevano professione di cattolicesimo militante: ma puntavano a una “risacralizzazione della vita” e per questo il loro autentico nume tutelare era il Tolkien del Signore degli Anelli, il padre degli Hobbit sui quali avevano incentrato il mito fondatore della loro esperienza comunitaria e ai quali dedicavano i loro “Campi”. Antitotalitari e antistatalisti, ma molto interessati alla “questione sociale” in una prospettiva decisamente non di destra, mostravano molta propensione per filosofi come Sorokin o come Tonnies, il teorizzatore della “comunità”, la Gemeinschaft, contro la “società”, la Gesellschaft. In qualche modo implicitamente collegati all’esperienza della Jeune Europe di Jean Thiriart, ch’era stato l’ispiratore dei “missini non-allineati” i quali avevano lasciato il M.S.I. una decina d’anni prima di loro ed erano un po’ i loro “fratelli maggiori”, essi andavano prospettando una sorta di “socialismo europeo” alla Drieu La Rochelle. Si erano confrontati anche con qualche intellettuale fuorischemi leggermente più anziano di loro: con Massimo Cacciari a Firenze nel 1979, con l’autore di questo articolo a Cison di Valmarino nel 1981; e avevano per questo attirato l’allarmata attenzione nientemeno che del gruppo rotante attorno a Norberto Bobbio, che aveva sottoposto quella “Nuova Destra” a uno stringente processo inquisitoriale tenuto – e dove sennò? – a Cuneo, con accusatori implacabili ma intelligenti quali Marco Revelli e semidifensori cauti ma coraggiosi come Dino Cofrancesco. Alle accuse di essere rimasti in fondo dei topacci di chiavica fascisti, rispondevano provocatoriamente stampando un giornalino che perdinci aveva unghie e denti, “La Voce della Fogna”.

Da tutto quel fervore d’idee, d’iniziative e d’intelligenze, non è scaturito nulla sul piano della proposta politica attuale. Forse un po’ troppo colti e onesti per non dir ingenui, forse un po’ troppo giovani e del tutto estranei alle leve a ai giochi di potere, quei ragazzacci non seppero trovare nessun “padre nobile” che li sostenesse e li foraggiasse. Vissero alcuni anni occasionalmente alimentati dalle isolate e disinteressate (quindi labili) simpatìe di qualche rappresentante erratico della sinistra, e alla fine si sciolsero: alcuni come Tarchi (che pur continua a pubblicare due interessanti riviste, “Diorama" e “Trasgressioni”) s’indirizzarono allo studio e alla ricerca; altri (pochi) rientrarono nei ranghi del M.S.I. o si dispersero in altre formazioni; altri ancora si dettero con serietà alla professione giornalistica, come il bravo Stenio Solinas, o continuarono a far il battitore libero al crocevia tra cultura militante e politica, come Umberto Croppi; altri infine si dettero alla sperimentazione intellettuale pur senza abbandonare gli orizzonti accademici o professionistici di qualità, come Monica Centanni e Peppe Nanni. Tra loro, alcuni dettero volentieri una mano a quella che per alcuni mesi, lo scorso anno, era sembrata una promettente nuova primavera d’una destra sulla strada di liberarsi del tutto dal malinteso e dal ricatto berlusconiani: e che dà ancora qualche segno di vita nel FLI, con le posizioni di Granata o della Perina (ma a cui gli “alleati nazionali” decisamente confluiti del PdL hanno soffiato l’ultima bandiera, “Il Secolo d’Italia”).

Eichberg e Mellone sono da parte loro tra i piu intelligenti sostenitori d’una linea di recupero politico e intellettuale, all’interno del PdL, di almeno qualcosa dell’eredità della “Nuova Destra”: alla quale si rifanno tuttavia solo implicitamente, con molta cautela e non senza reticenze. Irrimediabilmente ostili ormai a un FLI che appare alla deriva e pur non lontani dai loro semisodali che animano “Charta Minuta”, essi lavorano tuttavia nell’àmbito di quel che resta della “Destra sociale” riunita attorno a Gianni Alemanno e ben rappresentata dal libro di quest’ultimo, Le radici e il progetto.

Ma è proprio questo il punto debole del comunitarismo del quale Eichberg e Mellone si fanno testimoni. La “Nuova Destra” tarchiana si era smarcata con decisione dai vecchi limiti e dalle vecchie frontiere tra “destra” e “sinistra”; aveva un taglio decisamente antioccidentalista; non si occupava di mantener rapporti con la cucina politica del Bel Paese; puntava con decisione a un nuovo “patriottismo europeo” che avrebbe dovuto superare l’impasse nel quale il continente era caduto in seguito ai patti di Yalta che lo avevano irrimediabilmente spaccato in due e condannato alla fine di ogni processo di unificazione che non fosse quello di Bruxelles/Strasburgo sorvegliato a vista da Washington e dalla N.A.T.O. Il comunitarismo della “Destra Nuova”, il “Noi” proposto da Eichberg e Mellone, punta – ed è significativo che lo faccia nel centocinquantesimo anno dell’unità politico-istituzionale d’Italia, sposandone (al contrario della “Nuova Destra” tarchiana, in ciò duramente revisionista) gli ideali risorgimentali unitari anche se non senza un richiamo appassionato alla necessità di superare gli antichi rancori nella ricerca di una “storia condivisa”– a rispolverare il micronazionalismo italiano tacendo del tutto sull’Europa, non dicendo una parola sui grandi problemi del mondialismo e della globalizzazione, parlando sì di comunità ma senza alcun accenno (in tempi di crisi morale e occupazionale dei giovani, in tempi di indignados) alla questione sociale. Se qualcuno si è recato, il 12 giugno scorso, a votare ai quattro referendum portandosi sottobraccio Il domani appartiene al Noi, non ha potuto trarne alcuna indicazione ed è stato costretto ad esprimersi “secondo coscienza”, come hanno proposto i dirigenti del FLI e molti del PdL perdendo un’altra occasione per schierarsi con forza e chiarezza; chi ha dato invece ascolto ai molti blogs in un modo o nell’altro ancor sensibili alle prospettive “tarchiane” non ha potuto se non scegliere quattro bei Si forti e rotondi, senza se e senza ma.

Dove andava la “Nuova Destra”? Senza dubbio nella direzione di un’identità etico-politica solida, incurante però di approdi politici realistici e concreti. Dov’è andata e dove continua per ora ad andare la “Destra Nuova”? Nella direzione di scelte tattiche fondate sul recupero implicito e il più asettico possibile di valori comunitari che sarebbero in sé anche vino nuovo, se non venissero immessi nel vecchio otre di un nazionalismo italiano di stampo superficiale e convenzionale, che tace sui contesti europei e mondiali e che – non pronunziandosi – non disturba i manovratori del centrodestra occidentalista, atlantista, liberista: manovratori ancor in grado di spartire fettine della torta del potere, posti di sottogoverno, incarichi in enti e istituzioni statali, parastatali e privati. Questo libro è un tentativo intelligente e non privo di spunti degni di discussione: il cui scopo ultimo è però quello di dare una risposta non scandalosa a una certa “nostalgia” non già del futuro, bensì del passato prossimo di una generazione di giovani ormai non più giovanissimi che da adolescenti hanno aderito al sogno di una “destra diversa”, in grado di uscire senza equivoci dal tunnel del neofascismo mantenendo una sua specificità che, nei “Campi Hobbit”, si era espressa nei termini del comunitarismo a forte connotato europeistico, sociale e – sul piano internazionale” – terzaforzistico. Svanito quel sogno, sul quale si era peraltro intellettualmente puntato, è rimasta la cattiva coscienza di quel che viene vissuto come un inconfessabile “tradimento”: e che in effetti è appunto forse tale. Da qui il “recupero” parziale e superficiale, che di fatto è simulazione se non finzione.

La cartina di tornasole di tutto ciò sta in un lapsus certamente voluto. Rievocando con accenti di sincerità quei vecchi “incontri fra ribelli” dei Campi Hobbit degli Anni Settanta (un passato mitico per Eichberg e Mellone, nati rispettivamente nel ’71 e nel ’73), nella prima pagina del libro, immediatamente sotto le citazioni (paradossali e a loro modo esattissime) di don Giussani e di Niccolai, si citano tra i grandi miti etico-epico-politici che animavano quei Campi “il cuore d’acciaio delle trincee sull’Isonzo”. Qui sta la chiave mistificatoria, qui il sintomo che la rivela. I ragazzi dei Campi Hobbit autentiche bestie nere la Rivoluzione francese e il nazionalismo di matrice giacobina; eredi in ciò (e quanto!...) di Donoso Cortés e di Mordini, sottoponevano a revisione sistematica tutta la storia europea degli ultimi due secoli, alla ricerca di quel che aveva impedito appunto al continente di conseguire quell’unità alla quale nonostante le guerre la storia e la cultura del secondo millennio avevano sembrato indirizzarla. I ragazzi dei Campi Hobbit, se avessero disposto della wellsiana Macchina del Tempo, sull’Isonzo si sarebbero schierati nei grigioazzurri ranghi austroungarici piuttosto che in quelli grigioverdi italiani. Anche qui stava la loro scandalosa novità e diversità, come ragazzi “di destra” e nella residuale e ambigua misura in cui ancora lo erano: di lì a poco, i più lucidi fra loro avrebbero cominciato a parlare non più di “Nuova Destra”, bensì di “Nuove Sintesi”, abbandonando esplicitamente la parola “Destra” e denunziandone limiti ed equivoci.

Eichberg e Mellone, nonostante gli elementi di simpatìa e di affinità con quell’esperienza, ne restano estranei. Nipoti dei missini micheliniani degli Anni Cinquanta che sognavano la Grande Destra con monarchici, liberali e democristiani conservatori, figli della “svolta di Fiuggi” che un buon trentennio più tardi ne portò qualche epigono al potere, essi hanno di fatto poco a vedere con don Giussani; e nulla con Niccolai, che li avrebbe presi (ed essi lo sanno benissimo) a parolacce pisane. Loro scopo è dare una qualche anima a quel che resta dell’ostinata volontà di dirsi “di destra” da parte di giovani e d’intellettuali ai quali in realtà la “destra” è sempre andata stretta (specie da quando il liberal-liberismo l’ha decisamente egemonizzata), ma che sono in cambio ben consapevoli che in “quella” destra sussistono ancora e nonostante tutto possibilità di gestire un potere e di costruirsi delle carriere. Cose che, intendiamoci, sono civicamente e professionalmente parlando umanissime e comprensibilissime. Ma, se si sceglie di privilegiare scelte del genere, è allora bene chiudere definitivamente nel cassetto i sogni animati da quel che gli autori definiscono “La saldezza degli opliti. Lo sguardo dei legionari. La mistica dei cavalieri. Lo splendore di piazze, cattedrali, statue, luoghi di sapienza”. Tutto ciò evoca affascinanti ma pericolosi scenari alla Leni Riefenstahl. Lasciamo perdere. Senonché, il rifugiarsi allora nella “epopea italiana” finisce col risultare un più grave escamotage. Non è lecito l’ammiccare ai legionari di Fiume per giustificar l’allineamento sia pur strumentale sull’Italietta di Berlusconi che si destreggia tra le nipotine di Mubarak e che bombarda Tripoli perché glielo hanno detto quelli della N.A,T.O., tradendo secondo una vecchia vocazione salandrista e badogliana il trattato italo-libico firmato nel 2010. Oltretutto, è una questione di stile. Ronchi dei Legionari è una cosa, il ministro Ronchi un’altra.

Vero è peraltro purtroppo che, come appunto Eichberg e Mellone sottolineano con ricchezza di richiami, il micro nazionalismo sta risorgendo un po’ dovunque in Europa, e in significativo accordo con la xenofobia. Ma non è a combattere quel “Noi” avvelenato che sta ormai circolando un po’ dappertutto, un “Noi” ristretto, meschino e fanatico, che il “Noi” di questo libro – che pur non lo approva – è diretto. Manca il grande “Noi”, quello di tutti gli europei e di tutti coloro che pretendono giustizia sociale. Se non si arriva a quello, il resto è inutile o dannoso.