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Qual è il giusto atteggiamento da tenere verso una persona ipocondriaca?

di Francesco Lamendola - 18/07/2011





L’ipocondriaco - lo sappiamo tutti perché, una volta tanto, il linguaggio comune coincide con quello scientifico - è un individuo che si preoccupa in maniera esagerata e ingiustificata della propria salute, essendo persuaso di covare perennemente qualche oscura e grave malattia che, nondimeno, sfugge ostinatamente all’esame medico più minuzioso.
Molière, con la celebre  commedia «Il malato immaginario», ha reso questa figura universalmente nota e, al tempo stesso, le ha impresso per sempre le stigmate di una morbosità più ridicola che drammatica, consegnandola a un implicito disprezzo da parte del pubblico, quale classico esempio di assurdo egocentrismo, debolezza della volontà e licenza incontrollabile e masochista della immaginazione.
Questa impressione è stata rafforzata, paradossalmente, dal fatto che lo stesso Molière morì di tubercolosi, il 17 febbraio 1763, proprio mentre stava recitando «Il malato immaginario» e si dice che il grande artista avesse cercato di soffocare sino all’ultimo le convulsioni della tosse, premendosi un fazzoletto insanguinato sulla bocca: splendido e tragico esempio di dedizione al dovere della propria vocazione letteraria e monito, al tempo stesso, contro tutti i malati immaginari, i quali invece, pur stando benissimo, si rifugiano sotto le lenzuola per farsi accudire, compatire e commiserare.
Ora, la domanda è questa: quale linguaggio, quale atteggiamento si devono tenere con una persona affetta da ipocondria: quello della verità o quello della diplomazia?
Dal momento che l’ipocondriaco è convinto, convintissimo di essere gravemente malato, è più utile tentare di persuaderlo razionalmente del contrario, oppure adottare una qualche strategia obliqua, per portarlo, pur mostrando di assecondarlo, a sdrammatizzare le sue preoccupazioni e le sue ansie incontrollabili?
Per chiunque abbia avuto a che fare non solo con questo genere di persone, ma anche con patologie affini, quali ossessioni e depressioni, si tratta di una domanda retorica: egli sa bene che la prima ipotesi è da scartare perché, se così non fosse, non ci si troverebbe in presenza, appunto, di una persona seriamente disturbata.
Attenzione: il fatto che la malattia supposta dall’ipocondriaco non esista, non significa che l’ipocondriaco non sia una persona malata; egli è malato, ma non della malattia che immagina di avere, bensì di quell’altra, che è la sua stessa immaginazione patologica, il suo bisogno compulsivo di credersi afflitto da sempre nuovi malanni.
Il suo male, chiaramente, si annida nelle profondità dell’anima: perché credersi malati, perennemente e ingiustificatamente, vuol già dire essere malati; e, se è vero - come noi fermamente crediamo - che tutte le malattie hanno origine dall’anima, allora non c’è dubbio che il modo in cui esse si manifestano diviene un fatto secondario rispetto al fatto principale, che è la limpida volontà di essere sani oppure il segreto desiderio di essere malati.
Ma perché, dunque, una persona sana dovrebbe albergare nella propria anima il segreto desiderio di essere malata? Per la più semplice delle ragioni (a volte le cose sono incredibilmente semplici, molto più di quello che si potrebbe immaginare), la stessa che spinge talvolta i bambini a mettere il termometro sul termosifone per non andare a scuola, o a strofinarsi, di nascosto, del gesso sulla lingua, per farle assumere un aspetto allarmante e convincere i genitori a tenerlo a casa, nel calduccio del letto, invece di farlo alzare per affrontare i doveri della giornata.
Ci sono dei vantaggi evidenti nell’essere malati, specialmente se non lo si è, ma si finge o ci si immagina di esserlo, primo fra tutti l’attenzione, la commiserazione, la premura che gli altri ci dimostrano e che tanto rassicurano e gratificano il nostro debole ego.
Alla persona malata non si chiede nulla, se non di riposarsi e di guarire (ma con calma, con molta calma); non la si rimprovera se non fa il proprio dovere, non ci si aspetta da lei che faccia questa o quell’atra cosa; è malata: pertanto non si può fare altro che accudirla, confortarla e darle tutto il tempo necessario per rimettersi in salute.
Non intendiamo dire, con questo, che l’ipocondriaco sia un simulatore; niente affatto; o, se lo è, lo è in un senso molto particolare, ossia nel senso che la prima vittima del suo inganno è proprio lui stesso, nonché il naturale desiderio, che ogni persona sana possiede, di stare bene in salute e di scansare, per quanto possibile, la malattia con le sue spiacevoli conseguenze.
Ecco, forse il puto è proprio questo: le conseguenze della malattia - senso di impotenza, inattività forzata, eccetera - sono spiacevoli solo per chi abbia chiaro chi egli sia e cosa voglia fare della propria vita; mentre, per chi non sia riuscito ad elaborare alcuna consapevolezza, né di sé, né del proprio progetto esistenziale (le due cose sono intimamente collegate), la malattia offre l’illusione di un rifugio dalle responsabilità e dalle aspettative, quelle degli altri e anche quelle della propria parte più vera, che giace trascurata in qualche angolino della sua anima.
In questo senso, cadere ammalati o ritenere di essere in preda alla malattia (dal punto di vista del percepito, è la stessa cosa) offre l’opportunità di godere di un periodo sabbatico, durante il quale non solo non si è tenuti a fare il proprio dovere, ma si è anche scusati in tutto e per tutto se non si fa assolutamente nulla.
Il guaio è che, mentre per una persona psicologicamente sana il periodo sabbatico diventa una preziosa occasione di riflessione e di maturazione, per l’ipocondriaco esso non è che una fuga da se stesso e un rifugio nel limbo della (supposta) malattia, che rischia di trasformare in una condizione permanente quella che dovrebbe essere, tutt’al più, una breve pausa di raccoglimento e di approfondimento del proprio itinerario spirituale.
Non è nostra ambizione, nel breve spazio di queste riflessioni, delineare una strategia di guarigione; ci limitiamo, molto più modestamente, a domandarci quale sia il giusto atteggiamento da tenere nei confronti di una persona ipocondriaca, una volta che si sia scartata, come noi abbiamo fatto, l’opzione di dirle tutta la verità, ossia che i suoi mali sono inesistenti - o, per essere più precisi, che essi esistono soltanto e unicamente nella sua mente.
Nell’Epistolario di Pietro Metastasio è contenuta anche questa lettera, che il “re del melodramma” spedì, dalla capitale austriaca, ad una sua nobile amica e corrispondente goriziana, nel 1770 e che si presta in modo esemplare alla nostra presente riflessione (in: «Tutte le opere di Metastasio», a cura di Bruno Brunelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1954, vol. V, pp. 24-25):

«A FRANCESCA MARIA TORRES ORZONI - GORIZIA
Vienna, 26 giugno 1770
Tutto mi ha sorpreso, gentilissima signora contessa, nell’ultima vostra lettera, incominciando dalla data della medesima. In mezzo all’oscurità del misterioso vostro silenzio ho chiaramente capito che la sorgente di tutti i disastri e delle immaginate infermità che vi opprimono è quella medesima antica ipocondria ch’io credeva da voi già da lungo tempo superata, e trovo con mio stupore smisuratamente accresciuta. Quando l’infermo è giunto al deplorabil segno di conoscere il suo male e di compiacersene e di non volerne guarire, qual medico, qual droga o qual consiglio può mai esser atto ad assisterlo? Che voi siate in questo compassionevole stato è troppo visibile, mia riverita signora contessa. Basta per convincersene il saper qual aria avete scelta per far la vostra cura. Chi mai andrebbe a passar l’estate in Aquileia per risanar della terzana? Le disperate lamentazioni medesime con le quali esagerate nell’ultima lettera le vostre malattie, mostrano chiaramente che voi non cercate rimedi per guarirne, ma bensì pretesti per seconda la morbosa compiacenza di parlarne. Ma Dio buono! (perdonate cara signora contessa l’escandescenza parziale d’un vecchio amico) in che si fonda mai cotesta vostra lagrimevole ostinazione? Non v’è alcuna ragione umana o divina che la difenda: e quando fosse ancor vero che nelle persone del vostro sesso (come asseriscono i maligni) abbia poca autorità la ragione; come non l’ha almeno in voi la superbia? Come non si risveglia almen questa a soccorrervi, irritata dai disinganni da voi medesima esagerati? So che questa lingua vi parrà barbara ed inumana: ma p quella che l’amicizia ed il dovere mi obbligano nel vostro caso unicamente a parlarvi. Il fatale letargo in cui vi trovate sepolta esige scosse indiscrete che l’interrompano, non cantilene adulatrici che o secondino: ed io aborrisco assai meno (come è ben giusto) la taccia di scortese che quella di traditore. E son certo che presto o tardi approverete voi stessa il mio contegno ch’io sono sempre stato come sono e sarò sempre.»

In questo brano di prosa epistolare traspare un tratto tipico della civiltà del XVIII secolo, il cosiddetto Secolo dei Lumi: la tirannica egemonia della ragione; la pretesa che essa sia ragion sufficiente - ci si pedoni il bisticcio di parole - a se medesima; che niente le debba essere anteposto, in nome di un principio di “verità” tanto astratto, quanto apodittico e pretenzioso.
La verità, infatti - come abbiamo cercato di argomentare -, non è che l’ipocondriaco non sia malato: egli è bensì malato, ma non di quella malattia che immagina di avere; è malato di sfiducia in se stesso, di angoscia esistenziale, di una carenza della giusta stima di sé.
Per questo invoca la comprensione e la compassione generale; e i suoi amici non gli rendono un buon servizio allorché lo trattano da visionario e da simulatore, perché, dietro la loro pretesa di essere servitori intransigenti della verità, sfugge ad essi, invece, la cosa essenziale: la compassione, unica risposta adeguata alla richiesta di aiuto che l’ipocondriaco disperatamente manda, con i mezzi che può e con gli strumenti che possiede.
Il fatto che si tratti di mezzi e strumenti impropri e rudimentali; il fatto che la vera malattia non sia quella dichiarata, ma quell’altra, che si nasconde dietro ad essa, non dovrebbe farci velo al fatto che l’unica risposta adeguata a una tale richiesta d’aiuto sta proprio nel mostrare comprensione e solidarietà con l’amico “malato immaginario”, non strappando in maniera brutale la cortina dei suoi auto-inganni, ma accompagnandolo dolcemente, fin dove possibile, verso le soglie della consapevolezza.
Non si tratta, pertanto, di incoraggiarlo a credersi malato, ciò che sarebbe un pessimo servizio nei suoi confronti; si tratta, piuttosto, di assecondarlo fin dove ciò sia utile e funzionale a trasmettergli la cosa più importante: la nostra partecipazione, il nostro affetto, che sono la vera medicina di cui egli ha urgente necessità; e poi, lentamente e gradualmente, sviare il discorso dalla sua malattia al suo malessere profondo, portandolo, con tatto e delicatezza, ad intuire da se stesso che solo il ristabilimento di un buon rapporto con la sua parte più autentica e profonda potrà restituirgli quell’equilibrio, quel benessere, quella pace interiore che gli son venuti meno.
Naturalmente, tutto questo è più semplice da dire che da fare: perché vi sono dei casi nei quali il malessere è talmente profondo, talmente radicato, talmente inconsapevole, che il soggetto sarebbe disposto ad affrontare qualunque prova, qualunque ulteriore sofferenza, piuttosto di cominciare ad ammettere che, forse, il processo di guarigione è nelle sue mani e che, dopo tutto, tentare di intraprenderlo è pur sempre meglio che seguitare a vivere quella non-vita, quell’incubo quotidiano che è divenuta la sua ipocondria.
È una questione di paura: l’ipocondriaco si aggrappa all’idea della propria malattia con tutta la forza della sua disperazione esistenziale; e, se, da un lato, vi trova la sua razione giornaliera di inquietudine e terrore, dall’altro spera oscuramente di farne lo strumento di una possibile redenzione, sempre attraverso la compassione e l’amore degli altri.
Ecco perché dirgli brutalmente la verità, metterlo impietosamente davanti a se stesso, senza offrirgli, nel medesimo tempo, quel sostegno affettivo e quegli strumenti di recupero della propria autostima i quali, soli, potrebbero aiutarlo a mantenere saldo il timone della propria vita, non solo non sortisce il minimo effetto, ma rischia di peggiorare le cose.
Una medicina e una psicologia che non tengano conto della dimensione affettiva e spirituale della malattia, non riusciranno mai a guarire veramente le persone; che Dio protegga quegli sfortunati che si affidano a simili pratiche per uscire dal proprio malessere interiore.