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Gli Dèi Greci Abitano il Romanzo Moderno

di Pietro Citati - 18/07/2011


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Molti sostengono che gli dèi greci hanno abbandonato la letteratura moderna. Risorsero cinque secoli fa, quando Afrodite e la Primavera, Atena e Artemide, Demetra e Cupido apparvero dappertutto, nei quadri e nei libri, come se la Grecia fosse di nuovo viva; e sul crinale tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, quando Goethe e Hölderlin e Shelley e Keats e Foscolo e Leopardi rilessero i testi classici, portando alla luce molte cose che il Rinascimento aveva ignorato. Poi - così si sostiene - silenzio, o quasi silenzio: qualche lampo, qualche traccia, qualche barlume. In realtà, niente potrebbe essere meno vero. La grande letteratura moderna - quella che nasce verso la metà del diciannovesimo secolo e si spegne lentamente dopo la metà del ventesimo - è posseduta dagli dèi greci, che vi rivelano finalmente la propria essenza e il proprio significato. Vorrei ricordare soltanto due casi: quelli di Apollo e di Ermes, i due fratelli inventori della lira. Apollo fu temuto dalla Grecia ancora prima di nascere. Le terre, che egli attraversò nel ventre della madre, tremavano al pensiero di vederlo calcare il loro suolo. Le isole dell' Egeo temevano che il dio che stava per nascere le disprezzasse, le calcasse con i piedi e le sprofondasse nelle acque del mare, tra le foche e i covi dei polpi. Una fama terribile lo circondava: era un dio tenebroso, sfrenato, empio, accecato. L' aggettivo che lo definiva - atasthalos - era lo stesso che veniva applicato a Achille che infuria sul cadavere di Ettore, ai Proci che disonorano il palazzo di Itaca, ai compagni di Ulisse che divorano gli armenti del Sole. Qui sta il paradosso supremo dello spirito greco. Apollo non conosceva nessuna delle virtù che da lui vennero chiamate «apollinee». Era violento, sfrenato, peccatore, assassino. Peccava di eccesso e di dismisura. Eppure, proprio lui impose agli uomini l' equilibrio nella morale, il rispetto del limite, la quiete dello spirito, la misura, il gesto che pacifica e concilia, l' armonia sovrana della cetra. Sull' Olimpo, Apollo suonava la cetra col plettro d' oro: intorno a lui vibrava la luce, e lampi balenavano dalla tunica. Le Grazie e le Ore danzavano. Le Muse cantavano. Il loro canto ricordava la bellezza e la gioia: la norma, la legge, la giustizia, la pace, il ciclo delle stagioni, il tempo propizio, la giuntura, la connessione, l' accordo tra le cose. Così l' eccesso e la dismisura, che Apollo portava in sé stesso, sembravano sgominati per sempre. A Delfi, Apollo uccise un mostro, Pitone, obbedendo a un ordine di Zeus. Eppure, sia pure venerando il re degli dèi, aveva compiuto un delitto: più tardi commise altre colpe. Dopo l' uccisione del mostro, ebbe paura: in un luogo che dal suo nome fu chiamato Phobos, «terrore», venne assalito dall' angoscia di sentirsi impuro e dalla vertigine della follia. Poiché il male è contaminazione, egli contaminava, diffondendo pestilenze al suo passaggio. Diventato l' ultimo dei miserabili, dei maledetti e dei vagabondi, Apollo fuggì o fu esiliato da Zeus: si rifugiò nella valle di Tempe: oppure fu servo di Admeto: o fuggì presso gli Iperborei; o in un altro mondo. In qualsiasi luogo fosse giunto, venne purificato. Indossò la corona da supplice, compì i riti e le libagioni, odorò l' aroma dell' alloro, che diventò la sua pianta. Quando ebbe completamente espiato, tornò a Delfi. A partire da quel momento, sedendo a Delfi nella doppia veste di medico e di signore degli oracoli, purificò gli sventurati, che come lui avevano conosciuto la colpa. Nei primi versi dell' Iliade, il poema che gli è dedicato, Apollo scese dall' Olimpo «simile alla notte». Portava sulle spalle l' arco e la faretra chiusa: aprì la faretra, impugnò l' arco, e i dardi sibilarono sinistramente nell' aria, colpendo i corpi dei Greci e degli animali e diffondendo la peste. Niente è più tremendo di questa apparizione tenebrosa del dio della luce. Tempo prima, a Delfi, Apollo aveva sconfitto l' oracolo di una antichissima divinità della Terra, che «suscitava le visioni notturne dei Sogni». Cancellò questo sonno oscuro. Ma, al tempo stesso, cominciò a rivelare il futuro attraverso i sogni. La sua luce accettò la notte: condivise l' oracolo che aveva sconfitto, ne sfruttò le forze immense, le assimilò; allargò il suo regno e andò oltre sé stesso, senza rinunciare alla propria forma. Come disse Eraclito, annunciò l' armonia tra gli estremi: la sua luce assorbiva la notte, diventava notte, e poi trasformava ogni cosa notturna nello splendore accecante e nella violenza dorata della luce. Questa figura divina ebbe una profondissima influenza sulla letteratura moderna. Sia Dostoevskij, sia Proust, sia Musil compresero che la misura nasce dalla dismisura: che la vera luce comprende in sé stessa la profondità della tenebra; e che solo chi ha compiuto il male, lo ha conosciuto sino in fondo e l' ha espiato, può liberare gli altri esseri umani dal male dove abitano durevolmente. Ermes amava le cose nascoste e segrete. Appena le lunghe ombre cadevano sulla terra, le strade erano vuote e deserte, il sonno possedeva gli dèi e gli uomini e nemmeno i cani alzavano la voce, passava silenzioso e invisibile come la nebbia e la brezza d' autunno. Portava con sé i sogni: con un gesto magico, chiudeva e apriva gli occhi degli uomini; e accompagnava le anime dei morti. Era un' oscurità insidiosa, onnipresente e quieta. Ma conosceva anche la luce. Era nato all' aurora, quando il cielo cominciava a tingersi di rosa. La sua luce era la vampa che brillò mentre inventava il fuoco. Era, sopratutto, lo sguardo: una fiamma mobile, rapida e vivace, un lampo che scintillava acutamente e vedeva lontano, in modo penetrantissimo, sebbene non possedesse lo splendore accecante di Apollo. Appena emanava luce, Ermes doveva nasconderla: celava i pensieri, abbassava le palpebre, gettava sguardi obliqui e inafferrabili. Così irradiava nel giorno lo stesso brillio insidioso ed astuto, sfuggente ed ironico, che si celava nel cuore delle notti ermetiche. Ermes era un polytropos: la sua scienza era la polytropia; un dono che si riceve nascendo, e che lui solo poteva insegnare. Così la sua mente aveva molte forme, pieghe ed aspetti: si volgeva sempre sinuosa da tutte le parti: era flessibile; e si trasformava incessantemente come quella di un attore di genio. Se la realtà era molteplice e casuale, lui diventava ancora più multiforme e casuale. Secondo l' Inno ad Ermes, possedeva un altro dono. Aveva una mente «dai molti colori diversi»: variegata: come è variegata, secondo Omero, la pelle maculata della pantera o del cerbiatto: un carro da guerra: delle armi: una corazza: o uno scudo: o un peplo ricamato; o una tappezzeria - oggetti artigiani, che mandano un gioco ondeggiante e cangiante di riflessi. Una divinità così multiforme e colorata esercitava un fortissimo potere di fascinazione. Era il signore del thelgein: una parola che connotava la forza dell' incantesimo in tutti i suoi aspetti. All' origine, significava probabilmente il potere di ammaliare con lo sguardo; e certo chi poteva resistere allo sguardo intenso, ironico e tortuoso di Ermes? Poi il significato si allargò: esisteva il potere dei racconti di Ulisse, che i Feaci ascoltano in un silenzio profondissimo: quello dei canti delle Sirene, che conduce alla morte: quello delle parole di Calipso, che cerca di sedurre Ulisse: la magia di Circe, che trasforma i compagni di Ulisse in maiali; l' incantesimo erotico di Afrodite. Il risultato di quest' arte era sempre lo stesso. Chi veniva incantato, perdeva il controllo di sé: posseduto, stregato, costretto al silenzio: dimenticava la sua vita passata; era ridotto a una cosa o alla morte. A poco a poco, insinuandosi e avvolgendosi da tutte le parti, Ermes diventò il dio dei rapporti, che avvicinava fra loro ogni aspetto dell' universo. Intrecciò amicizie, accostò lontananze, intessé affinità: sempre pronto a stabilire analogie tra cose lontane; e divenne la chiave del tutto. Accompagna le anime dei morti all' Ade: accompagnava le anime di coloro che tornavano dall' Ade: sorvegliava le frontiere, i crocicchi, le porte della città e della casa; scortava gli uomini tra i pericoli della notte. Era il dio del viaggio, del commercio, del linguaggio, della memoria, del mistero, dell' astronomia, della ricerca, dell' interpretazione, della traduzione, dell' etimologia, della critica letteraria... Zeus lo nominò suo messaggero. Tutto il mondo diventò, grazie alle sue rapide ali, un intreccio di relazioni: tutte le cose risuonavano l' una nell' altra; ed egli si affrettava a interpretare ognuna di esse e la mobile rete che le avvolgeva. Aveva un tempio solenne e ricchissimo, dove una folla di fedeli - i ladri e i mercanti, i bugiardi, i ciurmatori, i critici, i filosofi stoici e neoplatonici, i Padri della Chiesa, gli umanisti e gli alchimisti - si raccoglievano a venerare il supremo sapiente, il signore delle cose segrete, il nascosto precursore di Cristo. Più che Apollo, Ermes fu il dio che protesse la letteratura del ventesimo secolo. Non posso che fare nomi: Yeats, Kavafis, Pessoa, Valéry, Walser, Kafka, Musil, Nabokov, Cioran, Caproni, Dylan Thomas, Kundera, Calvino, Perec, persino (nella Montagna magica ) Thomas Mann. Essi derivarono tutti i loro doni da Ermes: la molteplicità delle forme: la molteplicità delle strade: la mente variegata: il gioco: l' invenzione: la mistificazione: l' inganno: il viaggio: l' arte dei rapporti; e, sopratutto, quella della fascinazione, che attraeva la mente profonda dei lettori. Un ultimo, giovane erede di Ermes, Paolo Lagazzi, ha appena pubblicato un piccolo libro: Nessuna telefonata sfugge al cielo (Aragno, pp. 135, l2). È un libro per lettori maturi che finge di essere scritto per bambini; e un libro per bambini che si rivolge agli adulti. Ermes è onnipresente: sopratutto come ladro, istrione, mistificatore, bugiardo, giocoliere. Credo che tutti ne ameranno l' eleganza. Non so cosa accadrà agli dèi greci, e specialmente ad Apollo ed Ermes, nel ventunesimo secolo. Da vent' anni sembrano nascosti. Quasi sempre gli scrittori li ignorano; ed essi sono stranamente spaesati, come se non riconoscessero il paesaggio dei nostri tempi. Forse, sebbene mi sembri impossibile, verranno dimenticati. Forse gli scrittori non hanno più la forza mentale necessaria per rispondere alle loro terribili esigenze. O, forse, la letteratura moderna, della quale essi sono stati signori, è finita qualche anno fa, con Nabokov e Calvino. Tranne pochi casi, quella che noi leggiamo oggi non è letteratura: o è vecchia, noiosa, senza giochi, misteri e invenzioni.