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A Beirut la formazione di un governo non risolve i problemi

di Paola Saliola - 21/07/2011


A Beirut la formazione di un governo non risolve i problemi

La situazione libanese è sempre stata estremamente intricata ed instabile.

Oltre alle normali dinamiche di palazzo, che ad oggi sono assolutamente complesse ed intrecciate, intervengono anche questioni religiose ed influenze più o meno dirette di altri poteri e paesi – se non si vogliono chiamare proprio ingerenze – che per ragioni e in misure diverse hanno interesse a che la situazione si sviluppi in un senso piuttosto che in un altro.

Anche il governo rispecchia quella che è la multiconfessionalità del paese: secondo il Patto Nazionale, il potere politico è suddiviso tra cristiani maroniti, che hanno accesso alla Presidenza della Repubblica, musulmani sunniti, a cui è riservata la carica di Primo Ministro, e musulmani sciiti, a cui rimane la Presidenza della Camera dei Deputati.

Questa suddivisione non è priva di implicazioni, soprattutto sul piano del dibattito politico, ed è estremamente utile al fine di inquadrare il più ampio scenario sullo sfondo del quale attualmente l’amministrazione libanese agisce, e fornisce una preziosa chiave di lettura per sbrogliare l’intreccio di legami strategico – politici del governo con i paesi contigui e non.

Ma prima diamo uno sguardo d’insieme a quanto è successo a livello politico in Libano negli ultimi mesi.

Il recente passato

Alla fine del 2010 hanno cominciato a filtrare notizie riguardo le indagini sull’assassinio del Primo ministro Rafiq Hariri, omicidio avvenuto nel lontano 2005; condotta dal Tribunale Speciale per il Libano (TSL) disposto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite con la Risoluzione 1757- elemento che di per sé è un fertile terreno di contestazione – l’inchiesta ha poi ufficialmente rivelato che ad essere indagati erano dei membri di Hezbollah, in un momento in cui il Presidente del governo era Sa’ad Hariri, figlio dell’illustre defunto. La conseguenza di questa congiuntura è stata che, dal canto suo, il Presidente non poteva che sostenere verbalmente e concretamente l’operato del TSL ma dall’altra parte, ed altrettanto naturalmente, la fazione politica i cui membri sono implicati, Hezbollah, avrebbe gradito un diverso atteggiamento dal capo del governoi. Davanti all’ostinazione di Hariri figlio a non sconfessare l’operato del Tribunale Speciale, i membri sciiti al potere nel governo di unità nazionale hanno provocato una crisi, determinandone la caduta nel mese di gennaio del 2011.

Decisivo nel determinare il cambiamento dell’equilibrio delle forze politiche all’interno del governo, cioè tra la coalizione dell’ 8 marzo (composta da partiti quali Hezbollah, Partito Amal, Partito Socialista Arabo Baath ed altri, appoggiata da Siria ed Iran) e quella del 14 marzo (il cui leader è Sa’ad Hariri, e dunque al governo prima della crisi), è stata la ‘folgorazione sulla via di Damasco’ del leader druso Walid Jumblatt, leader del Partito Sociale Progressista, in origine parte della coalizione del 14 marzo che, con la sua defezione, è passato all’opposizione. La ragione di tale ‘ribaltone’, per usare un termine caro alla politica italiana, è da individuare nel mutato clima dell’intera area, soprattutto per ciò che sta avvenendo nella confinante Siria ormai da mesi.

Dunque, è ricaduto sul miliardario sunnita Najib Miqati, uomo fondamentalmente ‘di centro’ e per questo capace di catalizzare più consensi, l’onere di formare un nuovo governo che rispecchiasse il mutato equilibrio politico. Il compito del nuovo Primo Ministro era quanto mai arduo: conciliare forze piuttosto eterogenee tra loro, alla luce di tendenze sostanzialmente filo – siriane del nuovo governo. Infatti, diversamente da quanto di solito si verifica, vale a dire che il primo ministro sceglie una squadra che condivida la sua linea politica, in Libano il governo poggia su innaturali collaborazioni pensate per soddisfare interessi settari di natura anche lontana, determinando una situazione instabile a causa dei continui ribaltamenti di fronte da parte dei singoli gruppi politici.

La formazione progettata da Miqati ha un’ulteriore peculiarità: rispetto alla ‘consuetudine’ della democrazia confessionale libanese, è stato concesso alle forze sunnite un ministero in più a spese dei partiti sciiti presenti nella squadra di governo – cioè Hezbollah ed il partito Amal – fatto che alcuni interpretano come un segnale distensivo lanciato da Damasco che, alle prese con le rivolte interne, in questo modo vorrebbe assicurarsi l’assenza di grattacapi sul confine occidentale. D’altro canto, è doveroso sottolineare che l’assetto governativo che ne risulta, e che esclude la coalizione filo – saudita e filo – occidentale guidata da Sa’ad Hariri (la coalizione del 14 marzo), è un elemento che rappresenta un importante punto di rottura rispetto alla composizione dei governi di unità nazionale dello scenario politico libanese dell’ultimo trentennio circa. Infatti, come vedremo subito oltre, i governi precedenti erano chiusi ad una qualsiasi ingerenza della confinante Siria per essere invece meglio disposti verso paesi più ad Occidente, inclinazione determinata proprio dalla coalizione di maggioranza al potere.

Per l’appunto, con un’ equipe di governo che contiene al suo interno elementi sciiti di un certo peso, seppur non assoluto né totale di per sé, la strada per una rinnovata influenza di Damasco sul paese torna ad essere praticabile dopo una chiusura che durava dal 2005, anno in cui la ‘Rivoluzione dei cedri’ seguita alla morte del Primo Ministro Hariri sr. e connotata da un forte carattere anti – siriano, aveva sottratto il Libano all’orbita damascena; da allora, gli Stati Uniti avevano fornito a Beirut aiuti militari per un ammontare di $ 720 milioni nel vano tentativo di porlo sotto l’ala occidentale. Il passo indietro (agli occhi statunitensi) rappresentato dall’inclusione di Hezbollah al governo ha interrotto i suddetti aiuti e rimarranno sospesi “fintanto che un gruppo estremista indicato dagli USA come organizzazione terrorista avrà parte attiva in un governo”.

Riassumendo, la situazione attuale del governo libanese appare in questa facies: dopo mesi di tentennamenti, il Primo Ministro Najib Miqati ha formato un governo basato sulle forze della coalizione ‘8 marzo’, in cui rientra anche Hezbollah, di chiaro orientamento filo – siriano; dal 2009, anno in cui è stato disposto il Tribunale Speciale per il Libano, la sfera giudiziaria risulta tangente a quella della politica, tanto da determinarne le sorti.

Infatti, se in un primo tempo le indagini in corso hanno determinato la caduta del governo, adesso l’atto formale di accusa di quattro membri di Hezbollah rischia realmente di compromettere la vita di quello neonato.

In questo quadro piuttosto complesso, qual è la posizione di Hezbollah?

Le accuse di coinvolgimento di Israele nelle indagini, o per meglio dire di spionaggio (vedi nota 1), erano state precedute da una campagna di delegittimazione dell’operato del Tribunale Speciale, non del tutto prive di fondamento. Su questa linea si è attestato ancora qualche giorno fa Nasrallah, dichiarando che nessun membro di Hezbollah sarà arrestato “né fra trenta giorni”, né fra trent’anni.

Anche le reazioni da parte dell’attuale opposizione (la coalizione del 14 marzo) contribuiscono ad alimentare la ‘sindrome della persecuzione’ della dirigenza di Hezbollah; infatti, se in un primo momento le dichiarazioni riguardo l’incriminazione erano state assolutamente moderate (molti avevano affermato che l’appartenenza degli imputati al partito sciita non implicava necessariamente una criminalizzazione in toto dello stesso), recentemente si è arrivati ad affermare che la formalizzazione dell’accusa rende necessarie le dimissioni dei membri del governo appartenenti ad Hezbollah, e che il partito stesso è da considerare come il mandante ultimo dell’assassinio del Primo Ministro Hariri, qualora fosse appurato per via giudiziaria che gli imputati sono realmente colpevoli.

La netta presa di posizione dell’opposizione ha spinto la neo – maggioranza a definire il TSL una sorta di ‘cavallo di Troia’ pensato per colpire la resistenza libanese e soffocare Hezbollah, o quanto meno provarci.

Dopo la formalizzazione delle accuse e la conseguente ratifica dei mandati di cattura però, la situazione si è fatta più urgente: alla fine di luglio scadrà il termine massimo per l’esecuzione dei mandati (ovvero per l’arresto dei quattro imputati), per la quale il tribunale internazionale deve comunque affidarsi alla giustizia libanese (obbligo che per alcuni analisti rende estremamente improbabile l’arresto degli accusati dato il radicamento del partito sul territorio). Se entro questa scadenza i sospettati non saranno arrestati il tribunale internazionale avrà ben poco margine di manovra per perseguire il suo obbiettivo: rendere pubbliche le motivazioni dell’accusa e al massimo processare gli imputati in contumacia. Dal canto suo, l’autorità giudiziaria nazionale, e di riflesso il governo, potranno limitarsi a dichiarare che i colpevoli non sono stati rintracciati. Secondo quanto scrive la giornalista Natacha Yazbek, “tecnicamente, è tutto quanto richiesto al governo”.

In ogni caso, la posizione di Hezbollah risulta quanto mai controversa e ciò che l’attende è comunque una campagna di delegittimazione a livello internazionale, dovuta anche alle posizioni adottate riguardo il bagno di sangue che sta affogando la confinante Siria: la decisione di schierarsi de facto con Bashar al-Assad a proposito della repressione attuata nei confronti dei rivoltosi ha offuscato l’immagine di Hezbollah come di un movimento che si batte per la difesa degli oppressi, che invece le sue azioni di resistenza contro Israele avevano contribuito a costruire tra l’opinione pubblica araba. Una condanna definitiva rappresenterebbe un ulteriore motivo di imbarazzo per Hezbollah perché aggiungerebbe ai suoi numerosi appellativi anche quello di nemico della comunità sunnita, non soltanto libanese ma dell’intero mondo musulmano.

Le conseguenze

Da tutto questo si evince abbastanza chiaramente che la situazione politica in Libano è quanto meno nervosa; se si dovesse arrivare ad una condanna, si potrebbe aprire una nuova crisi nel governo libanese. Ma questo è solo uno degli scenari possibili, quindi procediamo con ordine.

Ottenuta la fiducia del Parlamento e stanti le dichiarazioni dello stesso Primo Ministro, i riflettori della comunità internazionale sono puntati su Hezbollah.

Miqati ha infatti recentemente dichiarato di non voler sconfessare l’operato del TSL e pertanto di essere determinato ad appoggiare la loro azione; posto che questo non implica necessariamente che venga dato seguito alla richiesta di arresto fatta pervenire ai tribunali ordinari libanesi (per le ragioni di cui sopra), la collaborazione del Primo Ministro sunnita potrebbe avere una causa e sicuramente una conseguenza.

Da un lato, infatti, potrebbe essere interpretata come un segnale distensivo nei confronti dell’ Occidente e dei regimi arabi filo – occidentali (leggi Arabia Saudita), concepito per recuperare il gap che la significativa presenza sciita al potere crea nel rapporto con l’Ovest; e questa motivazione potrebbe rientrare tra le cause che hanno spinto il premier libanese ad agire in questa direzione. Probabilmente, può soggiacere alla presa di posizione di Miqati anche una volontà di limare i rapporti con quella che tutt’oggi mantiene l’ambiguo appellativo di “unica democrazia del Medio Oriente” (Israele), che sicuramente non poteva, e non può, dirsi paga del ruolo di Hezbollah all’interno del neonato governo. In questa chiave di lettura, il Primo Ministro si sarebbe sganciato (almeno in parte) dalla presa di Hezbollah sul governo, onde evitare di pagare un prezzo che il Libano non può permettersi di corrispondere né ora né in futuro, soprattutto per quanto accaduto nel 2006.

Evidentemente, non ha comunque pesato molto sulla bilancia della politica il tacito accordo che sussisteva tra il Primo Ministro e le forze di Nasrallah che vedeva, o meglio avrebbe visto, il primo impegnarsi nella difesa del gruppo sciita dall’azione dei famigerati TSL ed al contempo dagli attacchi dell’opposizione riguardo la legittimità dell’arsenale militare di cui si è dotato.

Tutto ciò andrebbe a scardinare quanto sostenuto da una parte dei giornalisti ed opinionisti libanesi, e cioè che il neo Primo Ministro sia molto più anti – Hariri che filo – Hezbollah: volendo lasciare un attimo da parte convenienze e ritorsioni della politica, una posizione come quella assunta da Miqati dal punto di vista esclusivamente umano avrebbe come corollario una sfumatura di pietas per Sa’ad Hariri (oltre ad essere concepita per attirare le simpatie dell’Occidente ‘allargato’ ecc.).

Tra le conseguenze non esiterei a sottolineare la mutata posizione di Hezbollah, sostanzialmente all’angolo. Rimettersi alla volontà dei Tribunali, qualora si arrivasse ad una condanna definitiva, sarebbe un atto di realpolitik perché significherebbe scendere a compromessi con le altre forze politiche (il che comporterebbe soprattutto una preservazione del proprio posto e peso nel governo, oltre ad evitare una nuova crisi politica che farebbe precipitare il paese nel caos) rinunciando però ai principi che hanno fin qui prodotto le ostinate dichiarazioni dei diversi leader del partito. D’altro canto, l’alternativa per il gruppo di Nasrallah è di optare per la linea dura e far cadere il governo, di nuovo, gettando il paese intero nell’ingovernabilità, una condizione certo non nuova.

In realtà, agli occhi di alcuni esperti, vi potrebbe essere una terza via, e cioè quella di imporre il proprio controllo sul governo facendo valere il proprio ruolo di forza armata; in questo caso però si tratterebbe di un colpo di stato, alternativa che non appare troppo verosimile, per tutte le conseguenze a livello interno ma soprattutto internazionale che ciò comporterebbe (volendo considerare soltanto l’ipotesi migliore, un boicottaggio generalizzato del governo libanese, a cominciare dall’Occidente per finire con diversi paesi arabi).

Secondo una buona parte degli analisti libanesi, è in questo punto che si innesterebbe la figura di Bashar al-Assad; il suo regime rappresenta un importante punto d’appoggio per Hezbollah, ma la situazione interna alla Siria rende la sua posizione abbastanza precaria. Il legame tra i due soggetti in questione è talmente stretto che molti sono spinti ad asserire che le mosse di Hezbollah dipendano molto più da Damasco che dai TSL.

In caso di ulteriori e decisive scosse al ‘trono’ del Presidente siriano, Nasrallah mostrerà da che parte pende la bilancia dei suoi valori, se dal lato della poltrona e del potere politico o piuttosto dalla parte dei suoi quattro indagati.

Ricordiamo comunque che ci stiamo muovendo sempre nel campo del se (si procedesse realmente all’arresto degli incriminati).

Paola Saliola è dottoressa in Lingue e civiltà orientali presso l’Università La Sapienza di Roma

 

iUna grossa mano per sconfessare l’operato dei suddetti tribunali è stata fornita dallo ‘scandalo delle intercettazioni’: Nasrallah, leader di Hezbollah, ha denunciato che le compagnie telefoniche da cui sono state tratte una serie di intercettazioni utili alle indagini per l’omicidio dell’ex Primo ministro Rafiq Hariri, fossero infiltrate da spie israeliane; in effetti, una parallela indagine delle forze libanesi ha poi portato all’arresto di un considerevole numero di persone con l’accusa di spionaggio a capo di Israele. Anche volendo vedere dietro questi fatti una sorta di ‘sindrome di persecuzione’ di Hezbollah, il TSL ha commesso alcuni reali ed inconfutabili errori a causa dei quali quattro generali libanesi sono rimasti in carcere per ben quattro anni senza che venisse formulata alcuna accusa specifica, ed infine rilasciati.