Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Per una filosofia e prassi di liberazione

Per una filosofia e prassi di liberazione

di Massimo Bontempelli - 02/08/2011

catenefortiMassimo Bontempelli (1946-2011) ha scritto articoli e saggi preziosi e interessanti per molti siti e riviste, qualche volta con un raggio di diffusione limitato rispetto al notevole potenziale delle riflessioni contenute. Vi riproponiamo qui un estratto di un suo saggio filosofico pubblicato dalla rivista «Indipendenza», n. 19-20 (febbraio/maggio 2006), segnalatoci da Marino Badiale e finora inedito sul web.

Sulla scorta di quali princìpi costruire una opposizione al sempre più pervasivo sistema capitalistico? In questo scritto Massimo Bontempelli ce ne illustra qualcuno, criticando al contempo alcune prospettive illusorie.

I paragrafi dello scritto: 1) La realtà filosofica trascendentale come orizzonte possibile di superamento del capitalismo: «l’uomo è dotato di una natura umana non specifica, non univoca come quella degli altri animali, che non l’ha reso e non lo rende integralmente riducibile ai modi di produzione via via succedutisi storicamente, e che può considerarsi come una fonte di significati valoriali trascendentali da cui attingere per l’elaborazione di progetti di resistenza e liberazione»; 2) La contraddizione tra capitalismo e natura trascendentale umana; 3) Non crollo, ma disfunzionalità sociale del capitalismo; 4) I nessi tra consumismo, vuoto antropologico e sviluppo capitalistico; 5) Critica ad una geopolitica senz’anima; 6) Resistenza consapevole alla pervasività capitalistica; 7) Per una subordinazione della sfera economica a scopi civili e sociali; 8) Conclusioni.

 

 

--------

[…] Il nodo cruciale ed ineludibile per chiunque intenda contrapporsi in modo minimamente serio al devastante sistema socioeconomico in cui viviamo è la presa d’atto di una inedita situazione storica, caratterizzata dalla scomparsa di ogni scarto e di ogni autonomia delle concrete formazioni sociali rispetto al puro schema logico del modo di produzione capitalistico.

La legge capitalistica del plusvalore, scientificamente chiarita da Marx come dinamica autoreferenziale dell’incremento continuo, senza un fine e senza una fine, della ricchezza astratta quantitativamente espressa, è cioè storicamente giunta a guidare lo sviluppo di tutte le sfere dell’esistenza umana, abolendovi ogni loro specifica finalità indipendente, e sottomettendone gli stessi presupposti psichici e biologici.

Non si può affrontare consapevolmente una simile situazione al di fuori di una sua comprensione di tipo filosofico. Con una logica semplicemente empirica appare contraddittoria la stessa possibilità di contrapporsi ad un sistema descritto come colonizzatore integrale di ogni sfera di vita: se tutta la realtà è stata sussunta alla legge sistemica, non può nascerne alcuna iniziativa contro il sistema.

 

La realtà filosofica trascendentale come orizzonte possibile di superamento del capitalismo

La filosofia insegna, però, sin dalle sue origini, che la realtà è tale a livelli diversi. L’uomo empirico, plasmato dalle dinamiche storiche, ed oggi, quindi, integralmente dalla dinamica dell’economia capitalistica, non esaurisce la realtà umana, costituita anche da quell’essere uomo di ogni uomo a cui appartengono tutte le soggettività umane, e in cui si esprime una forza creatrice mai del tutto riducibile alle forze generatesi al livello empirico-storico.

In altre parole, l’uomo è dotato di una natura umana non specifica, non univoca come quella degli altri animali) che non l’ha reso e non lo rende integralmente riducibile ai modi di produzione via via succedutisi storicamente, e che può considerarsi come una fonte di significati valoriali trascendentali da cui attingere per l’elaborazione di progetti di resistenza e liberazione.

Proviamo a spiegare il concetto partendo da un semplice esempio. Immaginiamo un sistema storico ancora più potente del capitalismo attuale, un sistema in linea di principio storicamente onnipotente. Potrebbe un simile sistema riplasmare gli individui umani fino a farne monadi arelazionali, foggiate al di fuori di ogni loro reciproca dipendenza? Certamente no. Nessuna onnipotenza storica potrebbe produrre un simile risultato. Perché? Perché l’essere uomo dell’uomo è costituito, tra l’altro, da un riferimento del proprio essere a se stesso, denominato autocoscienza, secondo un’immagine che ciascun individuo ha di sé, e che, nata dall’immagine che altri ha avuto di lui, può evolversi nel soggetto, come espressione della sua libertà, soltanto nella misura in cui l’immagine nuova di sé sia riconosciuta da un altro soggetto come immagine di lui.

La soggettività umana è dunque nel suo stesso concetto, cioè in maniera mai eliminabile dalla storia, dipendenza intersoggettiva. Ciò che non è mai eliminabile della storia si dice universale, e l’universalità necessaria del costituirsi dell’uomo come uomo si dice trascendentalità (da non confondersi assolutamente con la trascendenza, che è una realtà al di là dell’esistenza umana).

La soggettività trascendentale immanente ai soggetti empirici rappresenta la vera natura propria dell’uomo, ed è la sua realtà che tiene aperti altri orizzonti storici dal capitalismo anche se il capitalismo ha sussunto integralmente a sé la storia presente.

La nozione di trascendentalità è filosoficamente strategica.

Si può addirittura affermare che si è dentro o fuori la filosofia a seconda se la si è davvero compresa o meno. Il modo usuale in cui una mentalità non filosofica la fraintende quando le viene mostrata è quello di pensarla alla maniera di un «che cosa» anziché di un «come» dell’umanità dell’uomo, confondendone l’universalità reale con la generalità ottenuta da un processo astraente, scambiando quindi la realtà universale dell’uomo con un concetto astratto.

Scambiata per un «che cosa», diventa un nucleo umano originario e permanente sotto la mutevole scorza delle vicende storiche, che nessuna forza empirica può distruggere o alterare, e che svolge quindi il ruolo di una sorta di polizza di assicurazione contro i danni della storia, accettabile o rifiutabile come tale secondo i gusti, a seconda cioè che la si consideri reale o illusoria.

Il trascendentale, invece, filosoficamente considerato, non può venire bensì in linea di principio compromesso da alcuna forza empirica, ma in quanto trascendentale, cioè al livello di realtà che gli è proprio, mentre può essere compromesso e persino distrutto dall’empirico nella sfera dell’empirico. Rispetto all’empirico, il trascendentale è la sua immanente condizione di ordine, di libertà e di significato, per cui quanto più l’empirico si distacca nel suo sviluppo dal trascendentale, tanto più si manifesta come sfaldamento sociale, inconsistenza collettiva, nichilismo diffuso. Al limite, un’organizzazione dell’empirico basata sul disconoscimento di ogni significato trascendentale, tende in quanto tale alla sua stessa autodistruzione. Si tratta appunto della situazione in cui siamo storicamente immersi, in cui il capitalismo, giunto all’apice del suo successo storico, ha cominciato a consumare le condizioni stesse di ogni ordine sociale, e quindi anche del proprio ordine.

 

La contraddizione tra capitalismo e natura trascendentale umana

Il capitalismo attuale è simultaneamente potenza assoluta e sistema in disfacimento proprio perché è diventato potenza assoluta. Cosa significa in questo contesto potenza assoluta? Significa che tutte le forze sociali sono diventate manifestazioni della potenza del capitale, ovvero della sua capacità di sottomettere ogni elemento concreto al suo comando impersonale. Questo approdo del capitalismo è reso pienamente comprensibile dalla trattazione scientifica di Marx, nella quale il plusvalore capitalistico non ha limiti fisici e sociali. È vero che Marx afferma anche che la borghesia, nel suo sviluppo, da lui identificato con lo sviluppo del capitale, produce con i proletari i suoi becchini, per cui più potente del capitale è la contraddizione con esso del lavoro.

Ma questo scenario sociostorico, in cui egli ha creduto, ed in funzione del quale ha promosso l’organizzazione internazionale del proletariato, non discende affatto dalla sua scienza dialettica dell’economia, nella quale il capitale non è né danaro, né strumentazione tecnica, né potere borghese, ma rapporto sociale, dotato di una dinamica autoriproduttiva socialmente sempre più inclusiva.

Una volta che si è instaurato il capitale, inteso come rapporto sociale dialetticamente autoriproduttivo, il lavoro non gli si contrappone come un’altra realtà, ma si svolge come sua propria articolazione, e parimenti diventano sue articolazioni tutte le altre forze produttive.

 

Scientificamente considerato, quindi, lo sviluppo del capitale altro non è che lo sviluppo della sua potenza sociale, il cui esito storico, permanendo il capitalismo, non può essere che la sussunzione ad esso dell’intero mondo empirico-storico, ovvero la sua potenza assoluta.

Se la potenza assoluta del capitalismo, vale a dire un capitalismo coestensivo della formazione sociale, un capitalismo assoluto, è intellegibile nella sua genesi sul piano scientifico, il disfacimento del capitalismo inscritto nella sua potenza assoluta si mostra sul piano filosofico.

Occorre capire, infatti, che ogni sistema sociale stabilmente strutturato, per quanto oppressivo, in quanto stabilmente strutturato esprime sul piano empirico qualche sia pur empiricamente deformato significato trascendentale. Il capitalismo è invece l’unico sistema il cui funzionamento è in contraddizione con la natura trascendentale umana. Se è tale, però, come ha fatto a nascere ed a svilupparsi? È nato perché è stato strumento indiretto dell’emersione storica di due significati trascendentali, il valore dell’individualità e quello dell’appartenenza nazionale, di cui sono state levatrici storiche le classi borghesi proprio attraverso la forza tratta dalla nuova economia del plusvalore di cui erano attrici e profittatrici. Si è sviluppato perché ha utilizzato per il suo funzionamento risorse non sue: le risorse politiche e spiritualmente coesive delle nazionalità, le risorse psichiche e comportamentalmente disciplinatrici della famiglia e della scuola borghesi, le risorse produttive dell’etica religiosa e corporativa del lavoro, le risorse socialmente regolatrici dei codici d’onore aristocratici.

Ma l’utilizzazione di queste risorse presupponeva l’autonomia funzionale delle sfere in cui si formavano, e la parzialità sociale, per quanto determinatrice in ultima istanza degli indirizzi generali, del modo di produzione capitalistico.

Una volta, perciò, che il modo di produzione capitalistico è diventato totalitario, sottomettendo direttamente alla sua logica di funzionamento tutte le sfere sociali, questa sua potenza storicamente assoluta avvelena le stesse risorse antropologiche di cui avrebbe bisogno.

All’altezza del nostro tempo storico si rivela così come la vera contraddizione distruttiva da cui il capitalismo è segnato non sia una di quelle tematizzate dalla tradizione marxista (tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato, tra forze produttive e rapporti di produzione), ma quella tra esso e la natura umana.

La potenza che distruggerà il capitalismo sarà dunque la potenza stessa del capitalismo, dato che in futuro i suoi effetti universalmente destrutturanti non saranno più contenuti da forme organizzative precapitalistiche. La fine del capitalismo è sicuramente prossima, questione non di secoli, neanche di un secolo, ma di decenni.


Non crollo, ma disfunzionalità sociale del capitalismo

Questa non è però affatto una buona notizia. La sua fine non sarà infatti certamente l’ora x sognata dal vecchio massimalismo socialista, cioè un crollo simultaneo e repentino di tutti i suoi elementi tale da determinare una nuova alba storica, né tanto meno una presa del palazzo d’Inverno, cioè una rivoluzione promossa da forze antagoniste, e tanto meno ancora la costruzione secondo un progetto di una nuova società.

Sarà invece una crescente disfunzionalità, accelerata dagli squilibri economici cumulativi derivati, prodotta dal venir meno di ogni regolazione certa dei conflitti, di ogni progettualità oltre tempi sempre più brevi, di ogni intelligenza sociale nelle scelte imprenditoriali, della capacità stessa di mantenere un realismo pragmatico da parte di personalità sempre più psichicamente malate.

Si tratta degli effetti inevitabili di una società rimasta, sotto la potenza assoluta del capitalismo, senza nazione, senza etica, senza istituzioni di formazione del pensiero e della personalità, in una maniera, cioè, in cui la natura umana non consente il mantenimento di alcuna stabilità sistemica, compresa quella del capitalismo.

La verità di questo quadro si manifesta ad una comprensione filosofica, perché essa consente di sopportarne mentalmente il peso. Una mentalità non filosofica, infatti, non vede niente oltre la storia, alla quale può o non può sovrapporre un presupposto trascendente. Se perciò non trova ragioni e significati nella storia, si ritrova con un dio o con il niente. Non può quindi pensare la contraddizione del capitalismo con la natura umana se non correlando questa natura ad una trascendenza divina o rendendola in se stessa, come sostanza originaria, una trascendenza, e facendone quindi un mito, che nel caso di una mentalità irreligiosa, non può che rifiutare. Senza poter attingere significati alla trascendentalità, a cui una mentalità non filosofica è cieca, un anticapitalismo non supportato da forze storiche appare vacuo e deserto di significati.

 

I nessi tra consumismo, vuoto antropologico e sviluppo capitalistico

Nascono di qui gli erramenti della mentalità non filosofica, che, costretta a cercare una giustificazione storica dell’anticapitalismo, cade nei miti della classe intrinsecamente antagonista, anche se il suo antagonismo è temporaneamente latente, e dei movimenti volti al superamento del capitalismo pur attraverso la parzialità dei loro obiettivi (quest’ultimo mito è usato anche per giustificare ingiustificabili cedimenti politici, tanto poi la spinta dei movimenti sposterà gli equilibri politici).

Si elude un fatto storicamente evidente e decisivo: le masse popolari, qualunque siano i loro comportamenti elettorali, ed anche là dove aderiscano a fondamentalismi religiosi cristiani, ebraici, islamici o induisti, testimoniano soprattutto il loro consenso attivo e quotidiano al capitalismo. […].

Si può fare un esperimento mentale.

Immaginiamo un’abitudine di massa, anche se non maggioritaria, al differimento dell’adozione di nuovi prodotti e nuove tecniche, fino a quando la loro larga diffusione sociale abbia reso realmente difficoltoso rinunciarvi, come ad esempio non munirsi di telefono cellulare finché non comincia a servire davvero per il lavoro, non sostituire il computer con uno di più recente produzione finché non è stato reso inadeguato alla sua funzione, non abbonarsi alle pay-TV finché si possono vedere nuovi film al cinema, e così via.

Ebbene, basterebbe la diffusione di un simile atteggiamento niente affatto francescano, ma saggiamente e sobriamente orientato al benessere, per bloccare la realizzazione del plusvalore, e quindi l’accumulazione capitalistica. Se ciò non accade non è per edonismo, come normalmente si crede –perché il vero edonismo, insegna il suo maestro più famoso, Epicuro, richiede non la smodatezza, ma il limite e la qualità–, bensì è per la coazione al consumo e alla novità generata da un vuoto interiore scavando il quale il capitalismo ha sussunto a sé i comportamenti di massa.

 

Critica ad una geopolitica senz’anima

Chi non cerca miti consolatori, e non elude l’integrazione delle masse nel capitalismo, ma è costretto all’appiattimento mentale alla dimensione empirico-storica dall’incapacità di attingere significati dalla trascendentalità, non può che trarre indicazioni dalla geopolitica, valide sotto certi aspetti, ma fuorvianti sotto altri. È giusto, ad esempio, che l’imperativo politico e morale dei nostri tempi sia quello di contrastare sempre e comunque l’espansionismo statunitense. Se si rimane, però, sul solo piano della geopolitica, questa giusta indicazione trapassa facilmente nel principio che il nemico geopolitico del mio nemico è il mio amico, cioè in un principio sbagliato, frutto di una nascosta disperazione coperta dalla volontà di schierarsi comunque dentro qualche forza protagonista della storia.

La Cina, ad esempio, è nella prospettiva futura il nemico più temibile per l’imperialismo americano. Saremo allora amici della Cina? Se lo facessimo, perderemmo ogni bussola. La Cina condivide con il suo potenziale futuro nemico, gli Stati Uniti che già cercano di accerchiarla e di sottrarle ogni influenza sulla strategica area centroasiatica, molti primati dell’inciviltà capitalistica: ha, insieme agli Stati Uniti, la più alta percentuale della popolazione carceraria sulla popolazione complessiva, il più alto numero di condanne a morte legalmente inflitte, la più sviluppata precarizzazione del lavoro.

Nel distretto di Shanghai, una delle zone del mondo di più accelerata accumulazione di capitale, gli addetti ai lavori più umili e pericolosi sono assunti senza neppure un contratto, sono impiegati per dodici ore al giorno per una retribuzione di centoventi dollari mensili, che devono accettare per non morire di fame, dato che la privatizzazione dei terreni agricoli ha creato disoccupati privi di ogni protezione sociale. Tra loro molte donne giovani che fanno di Shanghai una delle città con più prostitute al mondo. La città è però considerata un modello esemplare di sviluppo economico, perché vi è in continua crescita il numero delle aziende, l’entità, il volume degli investimenti, la costruzione di grattacieli. Le sue strade sono piene di cantieri a cielo aperto che creano un terribile inquinamento atmosferico e acustico. Comunismo significa, in Cina, soltanto dittatura politica, repressione immediata di ogni protesta, negazione dei diritti civili e sindacali, in funzione di uno sfruttamento brutale della manodopera, costretta, soprattutto nei distretti minerari, a lavorare in condizioni di mortale pericolosità ed a vivere in ambienti molto inquinati.

Simpatizzeremo, quindi, per Hu Jintao contro Bush? Via, non scherziamo. Lenin, che odiava l’imperialismo inglese, non per questo simpatizzò con il cancelliere imperiale tedesco Bethmann Hollweg (1909-1917) che lo combatteva. Se seguiamo questo criterio dovremmo allora puntare più direttamente sull’emersione di un imperialismo europeo, che, se si sviluppasse, entrerebbe certamente in urto con quello USA e forse potrebbe prendere il suo posto. Ma che senso avrebbe un imperialismo di sostituzione? Davvero non scherziamo.

 

Resistenza consapevole alla pervasività capitalistica

Una vera mobilitazione antagonistica potrà avvenire soltanto mirando a subordinare la sfera economica alla tutela di diritti civili e sociali di attribuzione universale, e quindi togliendole sia il dominio totalitario sulle altre sfere dell’attività umana, sia l’autoreferenzialità dei suoi obiettivi di sviluppo, mediante la sua sottoposizione a limiti politici ed etici.

[…]

Senza una considerazione filosofica della storia, però, l’idea di una mobilitazione antagonistica di tal genere è fraintendibile in modo da apparire contraddittoria con le sue stesse premesse. Come può affermarsi un modello di società basato sul primato della politica eticamente intesa entro una dinamica storica descritta come integralmente sussunta ad una economia autoreferenziale ed integralmente prodotta da essa? Quale forza storica potrebbe imporre limiti sociali ad un capitalismo che ha già incorporato l’ambiente stesso di vita nelle sue tecniche produttrici di plusvalore, ed ha reso l’uso di tali tecniche mezzo esclusivo di efficacia sociale?

Il punto essenziale della questione è che i valori di civiltà che esigono la reimposizione di limiti ontologici all’attività della sfera economica, e la finalizzazione di essa a scopi civili e sociali, non vanno affatto pensati come un modello di società futura, e neppure come una prefigurazione di suoi elementi costitutivi, ma come fondamenti di criteri di giudizio e di azione tali da dare espressione all’impulso di sopravvivenza della natura umana, mobilitandola contro le sbarre dell’attuale prigione socioeconomica e facendole aprire un varco storico ancora indeterminato nell’itinerario successivo e nell’esito finale.

Ma si può cominciare a percorrere una nuova strada senza il disegno preliminare del percorso che sarà seguito e del traguardo che si progetta di raggiungere? Certo che si può.

Immaginiamo che alcuni schiavi di una crudele istituzione totale come un lager nazista abbiano individuato, sotto la spinta dell’istinto di autoconservazione, determinati mezzi per forzarne le barriere e sopraffarne le guardie, e andare poi a raccogliersi fuori per una resistenza armata. Diremo che non possono farlo perché non hanno, magari, la minima idea di quale costituzione politica subentrerà alla dittatura nazista, e neppure sanno come potranno organizzarsi fuori, e se saranno davvero in grado di difendersi? Sarebbe in tutta evidenza assurdo, perché per loro, in quel momento, l’unica cosa importante e possibile è trovare, con le risorse dell’istinto di sopravvivenza, una via d’uscita dal lager, e vedranno poi come ulteriormente procedere.

Così, per noi che viviamo soggetti al capitalismo assoluto, l’unica cosa importante e possibile è trovare, con le risorse della nostra natura trascendentale umana minacciata, i mezzi per aprirci un varco storico oltre esso, e tali mezzi sono appunto quei valori di civiltà di cui si è detto. Altro non possiamo sapere, perché l’orizzonte del capitalismo assoluto entro cui stiamo è onnicomprensivo e chiude totalmente la visuale di qualsiasi altro spazio storico, per cui non possiamo prefigurarci alcun futuro, non possiamo prevedere quale nuova civiltà umana subentrerà al prossimo sfacelo del capitalismo, e neppure se l’imbarbarimento ulteriore prodotto dallo sfacelo del capitalismo si prolungherà per anni, per decenni, o magari persino per qualche secolo.

La comprensione filosofica è necessaria appunto per capire come, dalla situazione storica in cui si è collocati, non possiamo intravedere alcun altro orizzonte storico, come possiamo sopportare il peso di questo oscuramento storico, mantenendo un certo equilibrio ed un certo significato alla nostra esistenza orientata anticapitalisticamente sotto il tallone del totalitarismo capitalistico (solo per affrontare questo argomento ci vorrebbe un saggio a parte), e come, infine, quel che ci occorre ora è un criterio di giudizio per una forzatura delle sbarre del capitalismo.

 

Per una subordinazione della sfera economica a scopi civili e sociali

Il criterio unico e totalitario di scelta del sistema unico in cui viviamo è quello della dilatazione quantitativa del mondo delle merci attraverso il profitto aziendale e come mezzo per accrescerlo, per cui si deve fare ogni cosa che faccia crescere merci e profitti, e si deve considerare inutile gravame economico tutto ciò che non è in grado di passare per l’imbuto di una convenienza aziendale. A questo criterio occorre sempre più decisamente opporre un altro criterio, discendente dal valore superiore degli scopi civili e sociali e dei limiti politici ed etici dell’attività economica, secondo cui non si deve fare nulla di ciò che, a fronte di un profitto aziendale, abbia una dannosità o ecologica, o antropologica, o sanitaria, o etica, e si deve fare, invece, ciò che possa significativamente promuovere il risanamento ambientale, il benessere biologico, la realizzazione psichica, la formazione del pensiero critico e la dignità personale di tutti, e, come condizione di fattibilità di questo orientamento, l’indipendenza politica nazionale e l’appartenenza solidale alla nazione.

Quando questo criterio, sotto la spinta di esigenze naturali umane calpestate in maniere sempre più visibili ed esasperanti, otterrà i suoi primi successi, occorre già sapere che questi successi non genereranno affatto un processo lineare di costruzione di una nuova società, ma, al contrario, produrranno squilibranti difficoltà economiche, perché la plurisecolare accumulazione capitalistica è oggi condensata in un’armatura rigidissima di interdipendenze globali, che colpisce violentemente, come il rilascio di un elastico tesissimo, qualsiasi scelta indipendente. Come agire, allora?

La rottura in qualsiasi settore della logica sistemica di incremento illimitato della ricchezza astratta mette in moto una serie cumulativa di squilibri. La chiusura, ad esempio, di produzioni ecologicamente e socialmente nocive, allarga la disoccupazione, riduce le entrate statali, accresce le spese assistenziali. Il riconoscimento di veri diritti del lavoro delocalizza gli investimenti e aumenta i deficit commerciali. Si determina perciò la necessità di interventi riparativi. Se essi avvenissero secondo la logica sistemica, ad esempio sostenendo la competitività, restituirebbero al sistema la sua distruttività ecologica, antropologica e sociale, oltre a risultare sotto alcuni aspetti inattuabili e sotto altri inefficaci (qui però occorrerebbe un lungo chiarimento). Gli interventi riparativi dovrebbero dunque essere compiuti secondo lo stesso criterio di civilizzazione umana che ha prodotto gli squilibri. In questo modo diversi squilibri verrebbero sanati, ad esempio annullando l’aumento della disoccupazione con un reimpiego dei lavoratori in attività di risanamento ambientale e sociale allestite dai pubblici poteri, o sostituendo le maggiori importazioni con qualche mutamento pubblicamente imposto della distribuzione dei consumi. La stessa vantaggiosa soluzione dei problemi aperti in precedenza creerebbe però nuovi squilibri, come ad esempio conflitti economicamente dannosi con istituzioni sovranazionali e sviluppi inflazionistici. A questi nuovi squilibri bisognerebbe rispondere con nuovi provvedimenti riparativi secondo lo stesso criterio, che di nuovo sarebbero risolutori da un lato e generatori di nuovi squilibri dall’altro, e così via.

Alla fine emergerebbero i vantaggi, anche economici, di un’economia sempre più sociale e sempre meno autoreferenziale, della prolungata applicazione del criterio non capitalistico, e comincerebbe a delinearsi, sia pure attraverso aspri conflitti, qualche esito storico oggi imprevedibile, perché dipendente da variabili internazionali, interne, tecniche e sociali di un lungo percorso.

 

Conclusioni

Per percorrere questo itinerario storico, e persino per aprirlo, non basteranno però né le sempre più terribili e visibili devastazioni dell’attuale sistema, né le risorse autoconservative della natura umana trascendentale, ma occorrerà che si determini da qualche parte la capacità di suscitare la mobilitazione di tali risorse, rendendo percepibili in maniera più interiorizzata e significativa le devastazioni della prassi attuale.

Ciò non sarà possibilie senza imparare fin da ora a vedere l’intero spettro del comando dell’economia autoreferenziale e totalitaria sul genere umano, e non soltanto le sue zone più esteriormente manifeste, perché nessuno si muove realmente contro il sistema, anche se crede di farlo, quando ancora molte parti della sua umanità operano a sua insaputa secondo la logica sistemica. Non è difficile, se si ha un minimo di onestà intellettuale, vedere l’impronta del comando capitalistico nell’imperialismo statualmilitare americano, primo nemico del genere umano, nello smantellamento dei diritti del lavoro, nella canalizzazione di tutte le risorse pubbliche nell’economia del plusvalore. Già più difficile è vederla nelle forme specifiche di svalorizzazione dell’indipendenza e dell’identità nazionali, e in quelle altre che questa si porta dietro, come la dissoluzione del sistema nazionale dell’istruzione pubblica, l’abbandono della lingua e delle tradizioni nazionali, l’americanizzazione degli spettacoli e dei divertimenti, l’invadenza senza limiti della pubblicità commerciale.

Quasi del tutto oscura, anche se di decisiva importanza, è infine la sussunzione al capitale di altre zone dello spettro antropologico. […]

La grande area antropologica dell’affettività interpersonale, della relazionalità sessuale e della vita emozionale appare depoliticizzata e desocializzata, tra le false alternative del moralismo repressivo e del consumismo del piacere. Sarebbe l’ora di illuminarla ontologicamente e capire il nesso tra le sue deformazioni e lo sviluppo di un’economia autoreferenziale e totalitaria.